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Le migrazioni sono le ossessioni della nostra epoca, scrive Massimo Livi Bacci, che giudica ingiustificato l’allarme per la crescita dell’emigrazione degli Italiani, ma giustificata la preoccupazione circa la possibile “desertificazione” del Mezzogiorno, dovuta all’emigrazione interna.

Le migrazioni sono l’ossessione della nostra epoca. Recentemente, un nostro vice primo ministro, ha affermato che la catastrofe di Marcinelle “insegna che non bisogna partire”. Così come una vecchia zia ammonisce i nipoti a “non uscire quando fa buio”, evitando i pericoli della notte, o che bisogna “restare a casa quando piove” per risparmiarsi tosse e raffreddore. Questa ossessione, dicevamo, riguarda, in primo luogo, l’immigrazione degli stranieri, facendo d’ogni erba un fascio (rifugiati, irregolari, regolari, cittadini italiani nati all’estero), ingigantendo a dismisura gli inevitabili problemi che ogni cambiamento sociale porta con sé. Ma riguarda anche l’emigrazione dei cittadini italiani, qualificata come “esodo” o “fuga”, dalle implicazioni inevitabilmente catastrofiche, sicuro sintomo del declino del paese. Infine, c’è anche l’ossessione per l’emigrazione dal Mezzogiorno del paese verso il nord della penisola, quasi che questo fosse un fenomeno nuovo e non secolare come è, dovuto al ritardo strutturale – questo si, ossessionante – del sud rispetto al nord, che un secolo e mezzo di crescita e di politiche nazionali non è riuscito a scalfire.

L’emigrazione degli Italiani: un esodo?

Lasciamo da parte la prima ossessione, più volte discussa su Neodemos, e dedichiamo qualche riga alla seconda. Non senza premettere che lo stato delle statistiche internazionali è deplorevole, i dati esistenti ambigui, le interpretazioni incerte. Per quanto riguarda l’Italia, sulla base delle statistiche anagrafiche, è indubbio che nell’ultimo decennio ci sia stata una forte crescita dell’emigrazione dei cittadini italiani verso l’estero. Nel 2017, i cittadini italiani, provenienti dall’estero, e iscritti nell’anagrafe (e quindi “immigrati”), sono stati 43mila, e i cittadini italiani, cancellati dalle anagrafi per l’estero (e quindi “emigrati”) sono stati 115mila, con un saldo negativo pari a 72mila, il quadruplo di quanto registrato nel 2011. Si tratta di un “esodo” o di una “fuga” che deve preoccupare? A parte le note limitazioni di queste statistiche (per esempio, gli italiani che non denunciano l’emigrazione all’estero tramite i consolati possono essere cancellati per “irreperibilità”) e del loro reale significato (è incerto quanti – tra questi cittadini italiani – siano stranieri che hanno da poco acquisito la cittadinanza e che rientrano nel paese di origine), la crisi è certamente responsabile di questa accresciuta perdita netta di cittadini italiani. Tuttavia l’Italia ha più di 60 milioni di abitanti, è integrata nel mondo, socialmente e economicamente, e la crescita degli espatriati in un periodo di difficoltà, è una risposta fisiologica, e non traumatica, propria di una fase difficile. Per un confronto: in Francia, tra il 2006 e il 2013, il saldo netto migratorio dei Francesi, è stato negativo per 845.000 unità (più di 100.000 all’anno)¹. Anche la Gran Bretagna ha un numero annuo di cittadini che “espatriano” molto più numeroso dell’Italia.

La Tabella  riporta la stima dello “stock” di migranti di origine Italiana², Francese, Tedesca, Britannica e Spagnola, dimoranti nel Mondo, ed in Europa, prima della crisi (2005) e dopo la crisi (2017). Ebbene, lo stock degli Italiani viventi in altro paese Europeo è aumentato, tra le due date, del 21%, meno di quanto avvenuto per le altre quattro nazionalità; per quanto poi riguarda lo stock di italiani nel mondo, l’aumento del 10,5% è stato pari, all’incirca, alla metà, della media delle altre nazionalità considerate. Questi pochi accenni ci invitano, quando osserviamo i fenomeni italiani, ad interpretarli nel contesto più ampio di quello ristretto dai confini della penisola.

La concreta minaccia della “desertificazione” del Mezzogiorno

Diversa, e assai più giustificata, è la preoccupazione per il continuo esodo migratorio da sud verso nord. Qualche anno addietro (2014), la SVIMEZ aveva avvertito del rischio di “desertificazione umana” del Mezzogiorno, conseguenza della debole natalità, dell’eccesso dei decessi sulle nascite, e della continua emigrazione verso le altre regioni di giovani relativamente istruiti, non compensato dalla componente migratoria internazionale. Tutti questi fenomeni sono continuati, aggravandosi, negli ultimi anni. La conseguenza “netta” è la perdita di peso (demografico) del Mezzogiorno nel contesto nazionale (Figura 1), dal 36% del 2001, al 34% nel 2018 e al 33% previsto per il 2031. Nel 2017, secondo i dati Istat, i decessi hanno superato le nascite di oltre 50.000 unità, e la perdita netta per migrazione interna non è stata compensata dai guadagni netti per migrazione internazionale. Il forte aumento della popolazione anziana, il persistere della bassissima natalità (ad oggi non c’è nessun sintomo di inversione di tendenza), le scarse opportunità per gli immigrati, fanno ritenere che l’indebolimento demografico sia destinato a durare.

Il saldo migratorio interno del Mezzogiorno, a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, è stato quasi costantemente negativo (Figura 2), con frequenti punte superiori alle 140.000 unità annue tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’70, che fu periodo di elevata emigrazione verso l’estero. Ma, in passato, l’emigrazione proveniva da esuberanti generazioni di giovani (che ancora negli anni ’50 crescevano annualmente a ritmi compresi tra l’1 e l’1,5% all’anno), alimentate da una sostenuta natalità, e riequilibrava una crescita demografica eccessiva per le potenzialità di sviluppo meridionale. Assai diversa la situazione attuale, perché i flussi migratori provengono da generazioni di consistenza via via più modesta in conseguenza del declino della natalità degli ultimi decenni. Dalla Figura 2 si desume che dall’inizio del millennio il saldo negativo verso nord si è stabilizzato, attorno alle 50.000 unità annue. Come detto all’inizio, il deflusso migratorio non è la malattia, ma il sintomo del ritardo del Mezzogiorno, rimasto sostanzialmente intatto nell’ultimo secolo e mezzo di storia. Anzi, potremmo addirittura stupirci che il deflusso non sia più cospicuo, considerando che il tasso di disoccupazione vi è più che doppio rispetto al resto del Paese (19% contro l’8% nel 2017). Come da sempre, l’emigrazione riguarda in prevalenza i giovani, e tra questi una elevata proporzione ha un grado “terziario” di istruzione (cioè, si tratta di laureati). Giustamente la Svimez³ si preoccupa circa “il processo di perdita di capitale umano” e del “grave depauperamento della struttura demografica e del tessuto sociale”, visto che tra gli emigrati meridionali “la metà sono giovani tra i 15 e i 34 anni, e quasi un quinto sono laureati”. Anche se, a dire il vero, una proporzione inferiore al 20% di laureati tra i meridionali diretti a nord sembra coerente con l’incidenza del 15% dei laureati nell’intera popolazione adulta.

Infine, il netto divario tra il Mezzogiorno e il resto del Paese risulta chiarissimo dalla geografia dei tassi migratori, interni e esteri (Figura 3). Tutte le province del Mezzogiorno perdono popolazione per migrazione interna verso nord; buona parte delle province del Mezzogiorno hanno bassissimi tassi di immigrazione dall’estero. Il fatto che in nessun distretto territoriale – neppure in quelli dove le cose vanno bene – si manifesti un’attrattività migratoria (interna), è ragione di ulteriore preoccupazione circa il futuro del sud del Paese.

Note

¹ G-F. Dumont, La France, pays d’immigration et…d’émigration, Population & Avenir, No. 730, Novembre-Dicembre 2016

²Le Nazioni Unite stimano la consistenza dello stock migratorio basandosi sui risultati di censimenti ed inchieste. La numerosità dello stock migratorio degli Italiani è la somma degli Italiani, censiti o stimati, dimoranti in altri paesi, e definiti come “Italiani” o perché nati in Italia (criterio più frequente) o perché di nazionalità (passaporto) Italiana.

³SVIMEZ – Anticipazioni del Rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno 2018

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