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Squilibri demografici e rivoluzione digitale: il ruolo delle nuove generazioni

L’Italia soffre di uno dei maggiori squilibri demografici al mondo nel rapporto tra generazioni più mature e quelle più giovani, inaspriti ulteriormente sul versante qualitativo. Come evidenzia Alessandro Rosina nel suo contributo, è necessario e urgente ripartire dagli strumenti che possono potenziare il ruolo delle nuove generazioni come soggetti attivi di innovazione e sviluppo inclusivo.

Quantità e qualità delle nuove generazioni

L’Italia presenta uno dei maggiori squilibri demografici al mondo nel rapporto tra generazioni più mature e quelle più giovani, ovvero tra i Boomers e i Millennials. Più nel dettaglio, gli attuali trentenni e dintorni sono ben un terzo in meno rispetto agli attuali cinquantenni e dintorni. La relativamente bassa consistenza nel nostro Paese dei Millennials finora non l’abbiamo percepita come un problema per due motivi. Il primo è il fatto che la lunga crisi economica e il persistente scarso investimento in politiche di sviluppo in grado di espandere settori dinamici, innovativi e competitivi hanno tenuto bassa la domanda di occupazione giovanile e accentuato l’emigrazione all’estero. Il secondo motivo è che finora il centro della vita attiva e produttiva del paese è stato presidiato dalle abbondati generazioni nate nei primi decenni del secondo dopoguerra (o precedentemente). Questo significa che l’effetto maggiore degli squilibri demografici lo vivremo nei prossimi anni, quando i Boomers sposteranno il loro baricentro oltre l’età pensionabile e i Millennials si troveranno ad occupare il centro della vita attiva del Paese. Si ridurrà quindi drasticamente la popolazione nelle età in cui maggiormente si produce ricchezza mentre peserà sempre di più quella nella fase della vita in cui si assorbe ricchezza. La capacità di continuare a crescere e rendere sostenibile il sistema sociale dipenderà quindi dalla risposta che daremo alla seguente domanda: “Sarà di più quello che i Millennials andranno ad erodere come quantità nelle età centrali lavorative o sarà più l’arricchimento che saranno messi nelle condizioni di portare in termini di qualità?”.

Se la riduzione quantitativa è oramai un dato di fatto, dovuto alle dinamiche della natalità, passata, sulla qualità abbiamo ancora margini di manovra, ma è anche vero che sinora non siamo andati nella direzione giusta o lo abbiamo fatto troppo timidamente. Tanto è vero che se si chiede agli attuali under 35 italiani in quale condizione lavorativa immaginano di trovarsi a 45 anni, oltre 1 su 4 vede alto il rischio di essere disoccupato contro 1 coetaneo tedesco su 10 (Tab. 1).

C’è, in Italia, rispetto alle altre economie avanzate, una bassa domanda di qualità. Questo è dovuto in parte ad un sistema che considera i giovani manodopera da pagare il meno possibile anziché leva su cui investire per aumentare competitività e crescita delle aziende. Va quindi ribaltata, prima di tutto, la prospettiva di lettura della relazione tra nuove generazioni e crescita del Paese. Non sono tanto i giovani che hanno bisogno di lavoro, ma il lavoro che ha bisogno dei giovani per diventare vero motore di sviluppo e competitività del paese.

Domanda e offerta di competenze

Sull’incontro tra offerta e domanda di competenze per lo sviluppo innovativo del Paese soffriamo sia di arretratezza che di inefficienza (coerente con il basso investimento in ricerca e sviluppo nel primo caso, e con inadeguate politiche attive del lavoro nel secondo). Abbiamo meno giovani e meno laureati rispetto agli altri paesi, ma anche quelli dinamici e ben preparati non riusciamo ad inserirli nel modo e nel posto giusto all’interno del mondo del lavoro.

L’Italia avrebbe quindi necessità, da un lato, di fare un salto tecnologico per diventare più competitiva e aumentare la qualità del contributo del capitale umano delle nuove generazioni alla crescita. D’altro lato tale salto va alimentato dalla formazione e dalla efficace inclusione di nuove competenze, che la scuola italiana fatica a formare in modo solido e diffuso; che il sistema dei servizi per l’impiego fatica a mettere in connessione con le aziende; che le aziende stesse faticano ad attrarre e a valorizzare.

Una delle chiavi principali dello sviluppo del Paese sta proprio nello spostamento al rialzo del rapporto tra valorizzazione del capitale umano e competitività delle aziende, al cui centro sta l’aumento della qualità dell’offerta e della domanda di competenze. Come evidenzia il rapporto dell’ Ocse 2017 (National Skills Strategies) “l’Italia sta avendo più difficoltà rispetto ad altri paesi avanzati a completare la transizione verso una società dinamica, fondata sulle competenze”.

Alcuni esempi virtuosi

E’, pertanto, necessario e urgente incentivare e alimentare un processo all’interno delle stesse imprese (ancor più quelle medio-piccole), in cui domanda di competenze digitali e capacità di stare sul mercato vengono spinte verso l’alto. Tale processo è elemento cruciale di un circolo virtuoso di mutuo sostegno tra crescita economica, competitività del sistema produttivo, apertura al mercato internazionale, opportunità di lavoro di qualità.

Alcuni progetti che vedono la collaborazione tra pubblico e privato, come il programma “NEETwork” (promosso da Fondazione Cariplo in collaborazione con regione Lombardia) e i programmi “Crescere in digitale” e “Eccellenze in digitale” (promossi da Google Italia in collaborazione con Unioncamere) mostrano come due potenziali fragilità italiane, ovvero i Neet e le PMI (ma anche molti enti dell’arcipelago no profit), possano in realtà rafforzarsi assieme se si crea un circolo virtuoso tra dotazione delle competenze dei primi e domanda di digitalizzazione delle seconde.

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