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Scuola interculturale e COVID-19: da dove ripartire? *

Il 16 aprile l’Istat ha pubblicato un report dal titolo “Identità e percorsi di integrazione delle seconde generazioni in Italia” che racconta i risultati di un’indagine svolta nelle scuole secondarie italiane. Cinzia Conti e Salvatore Strozza partono dai dati esposti nel volume per avviare una riflessione sulle azioni che sarà necessario mettere in atto per far ripartire le politiche di inclusione scolastica ai tempi del Corona Virus.

È difficile immaginare un quando, ma anche un come per il ritorno a scuola dei nostri ragazzi. Nel frattempo l’Istat ha pubblicato il 16 aprile un report dal titolo Identità e percorsi di integrazione delle seconde generazioni in Italia sui dati di un’indagine sulle seconde generazioni realizzata nel 2015. L’ebook rappresenta un buon punto di partenza per chiedersi cosa stia succedendo, cosa sia successo e cosa possiamo aspettarci che succeda ai ragazzi con background migratorio iscritti nelle scuole italiane di secondo grado. Sicuramente in questo momento la preoccupazione di tutti è la tutela della salute e in primis di quella dei ragazzi. Il ritorno alla “normalità” però porterà necessariamente a occuparsi nuovamente delle vulnerabilità che il corona virus non avrà cancellato, anzi. Per non trovarsi spiazzati, per non dover rincorrere la realtà, come spesso è successo nel nostro Paese, è quindi opportuno interrogarsi sin da ora su come, non tanto il virus, quanto le misure per il suo contenimento abbiano influenzato e influenzeranno nei mesi a venire (durante quella che viene chiamata fase 2) i percorsi di integrazione dei giovani con background migratorio.

Qual era la situazione prima della pandemia

Il rapporto dell’Istat mette in luce le tante difficoltà che incontrano a scuola i ragazzi con background migratorio. Un primo rilevante elemento di fragilità è il ritardo negli studi. Solo il 49% degli alunni stranieri nati all’estero viene inserito nella classe corrispondente alla propria età; quasi il 39% viene iscritto, al momento del primo accesso, nella classe precedente e il 12,2% addirittura in classi in cui l’età teorica di ingresso è di almeno due anni inferiore a quella del ragazzo (Tabella 1). A questo ritardo si aggiungono spesso le bocciature. Gli alunni stranieri, al termine dell’anno scolastico, vengono respinti con maggiore frequenza di quelli italiani. Infatti, mentre solo il 14,3% degli alunni italiani ha dovuto ripetere uno o più anni scolastici, per gli alunni stranieri la quota sale al 27,3%. Anche i voti medi ottenuti in pagella dagli stranieri sono più bassi di quelli dei ragazzi italiani. Difficoltà che in molti casi si ricollegano a una scarsa conoscenza della lingua italiana o quantomeno ad una conoscenza inadeguata rispetto a quella richiesta per studiare. Se infatti tra gli albanesi il 78,9% dichiara una comprensione molto buona dell’Italiano, solo il 24,2% dei cinesi comprende l’italiano molto bene. Se si passa poi alla lingua scritta solo il 55,9% degli albanesi dichiara una conoscenza molto buona dell’italiano, la quota tra i cinesi non supera il 18%.

Anche la rete relazionale nel tempo libero dei ragazzi stranieri risulta più “fragile” specialmente per alcune collettività. Tra i ragazzi stranieri la quota di coloro che dichiarano di non frequentare amici e/o amiche nel tempo libero è quasi doppia rispetto a quella dei coetanei italiani (7,9% contro il 4,2%) (Figura 1). In particolare, le differenze più consistenti si osservano tra le ragazze: nel 9,5% dei casi le giovani straniere non frequentano amici nel tempo libero, contro solo il 4,1% delle italiane. Una fragilità relazionale che in un Paese come il nostro si può facilmente tradurre in una vulnerabilità rispetto al mercato del lavoro. Conosciamo infatti l’importanza delle reti informali nella ricerca di un’occupazione.

L’indagine Istat non fornisce informazioni sugli abbandoni scolastici, ma è noto che l’interruzione degli studi è tra i ragazzi stranieri più frequente che tra quelli italiani e dalla rilevazione dell’Istat emerge anche la scelta chiaramente più frequente tra i primi di percorsi formativi orientati verso gli istituti tecnici o professionali.

Cosa ci si può aspettare che sia successo

Le scuole hanno reagito come hanno potuto all’imposizione del distanziamento sociale, mettendo in atto la didattica a distanza, senza che fosse chiaro a tutti gli attori chiamati in causa cosa si intendesse per “didattica a distanza”. Ogni scuola si è organizzata a suo modo. Ogni insegnante, facendo grandi sforzi, ha cercato di adeguarsi con gli strumenti più diversi, in base alle proprie esigenze, a quelle dei ragazzi, alle dotazioni tecnologiche a disposizione. Ne è venuta fuori un’esperienza complessa e diversificata. Sicuramente gli adolescenti sono la popolazione più abituata e ricettiva rispetto a esperienze “a distanza”, inclini già da molto tempo all’uso delle chat, dei social network e dei tutorial nel loro tempo libero. C’è stato, in questo periodo, un passaggio importante in cui quegli strumenti limitati ai momenti dello svago e del gioco hanno fatto improvvisamente e coercitivamente irruzione nel mondo della scuola. Era un passaggio che forse sarebbe dovuto avvenire molto tempo prima per appianare un gap tra la generazione degli alunni e la generazione dei professori, ma le modalità – come la completa mancanza di preparazione e l’assenza di una fase di transizione – in cui si è realizzato mettono a rischio i più fragili. C’è infatti da chiedersi quanto questa didattica a distanza e a tempo ridotto abbia potuto funzionare con ragazzi in difficoltà, con chi conosce poco l’italiano, con chi magari già meditava alla fine del primo quadrimestre di abbandonare gli studi. L’indagine Istat ci dice anche che i ragazzi stranieri hanno una grande familiarità con internet e i social, anzi i giovani stranieri, specie quelli nati all’estero, già nel 2015, erano la “punta avanzata” della generazione dei “nativi digitali” e usavano internet più dei loro coetanei italiani, ma sarà bastato questo a non perderli per strada?

La scuola non deve perdere il suo ruolo di collante sociale

La scuola non è solo un luogo di apprendimento, ma è da sempre un luogo da socializzazione. La scuola è inoltre l’agente sul quale per anni si è costruito, investito, lavorato per la mobilità sociale. Tenere i ragazzi a scuola significa comunque dare della chance di vita, come la lezione di don Milani ci ha insegnato ormai molti anni fa. Lo sanno bene tutti gli insegnanti che lavorano in zone di forte disagio e che lottano ogni giorno, al di là del rendimento, perché i ragazzi non abbandonino la scuola. Per i giovani con background migratorio, vulnerabili tra i vulnerabili, la scuola è il luogo dove imparare meglio la lingua italiana, dove conoscere altri ragazzi, dove – pur con tutte le difficoltà – mettersi alla prova e trovare una via per la costruzione di una propria identità.

Il Paese non può rinunciare per nessun motivo a questa funzione essenziale svolta dalla scuola, quella di agente di socializzazione. Al momento non si hanno scenari certi di quello che sarà. Ponendosi in quello più semplice di rientro a scuola “normale” a settembre, bisognerà recuperare un quadrimestre di “assenza” della scuola. Sarà necessario affrontare il problema degli abbandoni (potenzialmente aumentati da questa lunga pausa), trovare strategie – che non siano solo promuovere tutti – perché il ritardo non risulti aumentato; riprendere, potenziandolo, un apprendimento linguistico spezzato e favorire l’istaurarsi di reti di relazione. Per questi ragazzi sarà essenziale non dimenticare di recuperare gli aspetti di meta-apprendimento. In sostanza sarebbe miope pensare solo al recupero del “programma” ministeriale che comunque per alcuni potrebbe essere più difficoltoso. In questo periodo di didattica a distanza rischia di pesare anche il coinvolgimento dei genitori nelle attività scolastiche e il supporto che la famiglia è in grado di dare, oltre alla disponibilità di risorse tecnologiche, con un aumentato rischio di disuguaglianza.

Non è detto però che a settembre ci troveremo di fronte a questo scenario, dobbiamo valutare anche ipotesi meno ottimistiche. Potrebbe essere necessario continuare almeno per qualche altro mese con il distanziamento sociale: lezioni on line, entrata in classe in numero ridotto con turni, etc. E allora, ancora di più, bisognerà senz’altro agire per garantire a tutti l’accesso alle risorse online perché non è detto che tutti abbiano strumenti adeguati per accedere agevolmente alla didattica va web e il disagio economico potrebbe avere un peso non irrilevante nel determinare condizioni assai diverse per gli studenti, in contrasto con il dettato costituzionale all’articolo 24: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.”. Sarà necessario anche immaginarsi percorsi per non incentivare lo scoraggiamento e l’abbandono in coloro per i quali i percorsi scolastici possono essere più difficili. Allo stesso tempo si dovrà trovare il modo, magari ascoltando la voce stessa dei ragazzi e i loro suggerimenti, perché la scuola non perda, anche in questa complessa situazione, il suo ruolo di facilitatore dell’inclusione sociale. Aspettiamo con interesse i risultati della nuova indagine dell’Istat sugli studenti delle scuole secondarie che verrà realizzata nel 2021 per comprendere gli effetti del corona virus sull’inclusione sociale dei giovanissimi con background migratorio.

Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle degli autori ma non coinvolgono le istituzioni di appartenenza

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