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Le politiche di popolazione in Kenya

L’Africa sub-sahariana è una regione popolosa, con fecondità e mortalità ancora molto elevate, con forti tassi di crescita e forte pressione emigratoria (V. anche Dove emigrare è una necessità, di Letizia Mencarini). Nella sua area orientale, si distingue però il Kenya, un po’ per le sue rilevanti dimensioni demografiche, un po’ per le caratteristiche della sua recente evoluzione, economica e demografica, un po’ per la ricchezza delle fonti disponibili e un po’, infine, perché si tratta di uno stato che ha applicato sin dagli anni settanta politiche di contenimento delle nascite. 

Da politiche demografiche a politiche di popolazione
Le politiche volte alla riduzione del tasso di crescita della popolazione messe in atto dal Governo del Kenya hanno contribuito a modificare, seppur lentamente, i desideri ed i comportamenti riproduttivi delle coppie. Inizialmente, gli interventi erano mirati essenzialmente all’offerta di pianificazione familiare e hanno registrato un sostanziale fallimento perché quasi tutta la società, basata su norme tradizionali, favorevoli a un’elevata discendenza, non era culturalmente pronta al controllo volontario delle nascite, che anzi considerava come immorale e non appartenente alla propria cultura. La svolta comincia a partire dai primi anni Ottanta quando, dopo la morte di Kenyatta, il nuovo presidente Moi si rivolge alla Banca mondiale per chiedere fondi per programmare politiche di popolazione. Nel 1982 nasce così il National Council for Population and Development (NCDP) e la Banca Mondiale stanzia ventitre milioni di dollari. Il nuovo organismo collabora con il Governo per la creazione di una nuova politica di popolazione caratterizzata da un approccio multisettoriale, fondato sulla convinzione che la crescita della popolazione possa essere meglio frenata da uno sviluppo globale, che riguardi tutti i gli aspetti della vita dell’uomo. Le sinergie messe in atto e le varie campagne d’informazione lanciate dal governo keniota hanno reso possibile l’attuazione di vari Development Plans, sempre più articolati e ambizioni, volti in particolare alla tutela della salute e all’ausilio alla pianificazione familiare (Macro International Inc. 1989).
La transizione demografica
Anche in seguito all’attuazione di tali politiche, nel corso degli anni Novanta si è registrata una ininterrotta riduzione dell’incremento medio annuo della popolazione: dai valori iniziali del 1950 prossimi al 3%, si è arrivati al massimo del 4% negli anni ’80, per poi diminuire sino al 2,6% stimato attualmente.Ovviamente, tale rallentamento della crescita deriva dall’andamento della dinamica naturale. Il successo dell’approccio globale delle politiche di popolazione ha determinato innanzitutto il miglioramento progressivo delle condizioni di sopravvivenza: dal 1950 ai primi anni ’90 la durata media della vita è passata da 42 a 59 anni e la mortalità infantile si è ridotta fortemente da valori prossimi al 150 per mille a valori intorno a 70. In parallelo, però, non è scattato il calo della fecondità, in quanto le donne keniote, ancora fino ai primi anni ’80 mettevano al mondo in media più di 7 figli. In seguito però è iniziato il trend discendente, sino a raggiungere un valore del TFT (tasso di fecondità totale) pari attualmente a un po’ meno di 5 figli per donna (Tabella 1; figure 1 e 2)
Tab. 1. Indicatori demografici per il Kenya e per l’Africa Sub-Sahariana (A.S.S.)
TFT

 

q0

 

e0

 

Kenya

 

A.S..S.

 

Kenya

 

A.S..S.

 

Kenya

 

A.S..S.

 

1950-1955

 

7.51

 

6.73

 

147.1

 

177.4

 

42.3

 

37.6

 

1965-1970

 

8.12

 

6.79

 

104.4

 

143.7

 

50.7

 

43.6

 

2005-2010

 

4.96

 

5.13

 

64.4

 

93.3

54.1

 

50.0

 

Pop. (milioni)

 

r

 

Kenya

 

A.S..S.

 

Kenya

 

A.S..S.

 

1950

 

6.1

 

180.1

 

2.78

 

2.21

 

1970

 

11.3

 

292.7

 

3.62

 

2.75

 

Legenda. TFT= numero di figli in media per donna; q0=mortalità infantile (nel primo anno di vita); e0 = durata media della vita, misurata in anni; r=tasso di incremento demografico medio annuo, per 100.
Le ragioni dell’alta fecondità e la sua evoluzione
Il modello di famiglia numerosa deriva dall’importanza della discendenza nelle religioni indigene africane, che ai figli attribuisce un elevato valore simbolico e culturale, oltre che economico. Non a caso, la fecondità è uno degli strumenti con cui la donna può affermare la propria posizione economica e sociale, poiché la nascita dei figli le permette l’accesso alla proprietà del marito.
Negli ultimi quindici anni, però, sotto l’impulso dello sviluppo socio-economico, si sono osservati cambiamenti nella struttura della società, e anche nella concezione della famiglia e dei figli. La diffusione delle religioni monoteiste, ad esempio, riducendo l’influenza degli spiriti ancestrali, ha attenuato l’importanza dei legami familiari, in particolare tra la famiglia nucleare e le rispettive famiglie d’origine. Ma ancor più forte è stato probabilmente l’effetto dell’incremento dell’istruzione: secondo le stime dell’UNESCO, il Kenya nel 2002 ha raggiunto tassi di alfabetismo molto elevati, e, tra la popolazione di 15 anni e oltre, sanno leggere il 90% degli uomini e il 79% delle donne. Anche la crescita dell’urbanizzazione e delle attività lavorative non agricole ha inciso sui desideri di fecondità (oggi scesi a circa 4 figli per donna), rendendo più desiderabili famiglie di dimensioni contenute. Il divario tra i desideri e la realtà (circa 5 figli per donna) si è notevolmente attenuato, in Kenya come in altri paesi, grazie soprattutto al controllo volontario delle nascite. Dall’indagine sulla popolazione e la salute del 2003 (Demographic and Health Survey 2003) si evince che esiste una discreta diffusione dei mezzi contraccettivi: quasi il 30% di tutta la popolazione femminile utilizza qualche metodo, e la percentuale sale per le donne sposate (41%) e per le non sposate sessualmente attive (54,4%). Certo, restano ancora grandi difficoltà in una parte delle donne nel raggiungere la dimensione familiare voluta, a causa di un’erogazione dei servizi di pianificazione familiare non sufficientemente capillare e di informazioni in materia di contraccettivi ancora inadeguate. Ricordiamo, infine, che tutto questo avviene in un contesto di grande eterogeneità, anche in termini di fecondità, in funzione del livello di istruzione, della residenza urbana o rurale, dell’appartenenza territoriale ed etnica, del reddito, dello status sociale.
I problemi irrisolti
Molti sono i problemi ancora irrisolti, in Kenya, e, tra questi, uno dei principali è la povertà. La Banca Mondiale stima che più della metà della popolazione keniota viva in condizioni di povertà, con un’incidenza è che è apparsa in crescita negli ultimi anni, e con forti differenziazioni etniche e territoriali. Il problema della povertà, unitamente alla riduzione della sopravvivenza nell’ultimo decennio, in seguito alla diffusione dell’HIV (UNAIDS 2006 stima circa 1,3 milioni di sieropositivi, anche se decresce la prevalenza tra le donne incinte) costituisce senza dubbio il maggior interrogativo per il futuro del Kenya.
Per saperne di più
O. Bussini, Politiche di popolazione e migrazioni, Morlacchi Editore, Perugia, 2006 (www.morlacchilibri.com)
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