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Le mutilazioni genitali femminili in Italia: un aggiornamento

I flussi migratori che hanno interessato il nostro paese negli ultimi decenni hanno portato alla ribalta anche in Italia il tema delle mutilazioni genitali femminili (MGF). In occasione della presentazione in questi giorni del rapporto sulla popolazione del mondo dedicato quest’anno anche alle MGF Patrizia Farina, Livia Elisa Ortensi e Thomas Pettinato propongono una stima del fenomeno in Italia e mettono in luce le motivazioni che le sorreggono.

Le mutilazioni genitali femminili nel mondo: una buona notizia

Le mutilazioni genitali femminili¹(MGF) sono pratiche di rimozione o modifica di parti esterne dei genitali femminili compiute per ragioni non terapeutiche e per questo sono considerate una violazione dei diritti umani (WHO 2008). Si stima che il numero di donne che convive con una mutilazione genitale ammonti a circa 125 milioni e che ogni anno quattro milioni di bambine siano a rischio di subirla², soprattutto in alcuni paesi africani. Anche se il numero di donne coinvolte è in crescita trainato dalla veloce crescita demografica dei paesi principalmente coinvolti, le statistiche disponibili³ mostrano che la mobilitazione internazionale contro questa pratica ha indotto una chiara tendenza alla diminuzione dell’incidenza del fenomeno nelle giovani generazioni. Questa buona notizia è stata senza dubbio favorita dal fatto che le MGF sono uscite dal cono d’ombra in cui sono state confinate per divenire uno dei target del quinto obiettivo di Sviluppo sostenibile, la parità di genere. Tale collocazione è del tutto ragionevole: la pratica è gestita dalle donne ma è sorretta da un sistema di valori e norme che esercitano una funzione culturale e identitaria (Shell-Duncan et al 2016). È tuttavia chiaro l’inserimento di queste pratiche all’interno di una precisa divisione del potere basata sul genere, confermata sia dalle fonti internazionali (WHO) che dalla letteratura sull’empowerment (Boyle 2002). L’attenuazione del desiderio femminile, l’aumento del piacere maschile, ma soprattutto la sicurezza della fedeltà matrimoniale e la preservazione della verginità sono fra le motivazioni dominanti di natura sessuale. Sono anche ben consolidate svalutazioni del corpo femminile, quando si giudicano i genitali esterni parti sporche poco gradevoli o “maschili”. Il ruolo culturale di rito di passaggio all’età adulta, l’adesione nei confronti delle figlie finalizzata alla loro integrazione sociale – incluso il valore sul “mercato matrimoniale” e alla protezione dalla stigmatizzazione sono potenti motivazioni di natura essenzialmente sociale (DHS e MICS).

Le stime per l’Italia

I flussi migratori che hanno interessato l’Italia negli ultimi decenni hanno portato alla ribalta il tema delle MGF anche nel nostro paese. Per questo motivo in tempi e con metodologie differenti sono state realizzate diverse stime sulla numerosità delle donne escisse e sulla prevalenza fra alcune delle provenienze femminili più numerose. L’ultima indagine[4] condotta nel corso del 2019 rivela la presenza al primo gennaio 2018 di 87mila e 600 donne escisse, di cui 7600 minorenni. (Tabella 1)

La numerosità dipende certamente dall’intensità dei flussi migratori dai paesi dove è diffusa la pratica, ma anche dalla prevalenza del fenomeno fra le diverse comunità migranti. La proporzione di donne mutilate supera l’80% fra le maliane, le somale, le sudanesi e le burkinabé (grafico 1); altre provenienze non superano invece il 30%. In tutti i casi si osserva che il confronto fra maggiorenni e minorenni mostra una sostanziale riduzione fra le seconde a conferma di quanto si sta verificando anche nei paesi di origine. Il grafico riporta anche un’informazione relativa al rischio delle minorenni. A fronte di un valore assoluto che ammonta a circa 4600 unità si osservano rischi molto differenziati. Fra le nazionalità ad alta prevalenza solo le giovani somale corrono rischi elevati di subire una mutilazione mentre le maliane, sudanesi e burkinabé rischiano meno delle bambine egiziane.

Il supporto alla pratica

Le stime proposte e i rischi potenziali di subire la mutilazione sono il frutto di norme sociali e istanze che trovano spazio anche in emigrazione. Nel complesso solo il 9% delle donne è favorevole alle mutilazioni e di queste il 97% ha subito la mutilazione. Il dato è confortante nella sua esiguità relativa[5] a cui va associata la proporzione di chi è attivamente impegnata nel contrasto in Italia e/o nel proprio paese e a un quarto che non crede nella pratica e che coerentemente non intende mutilare le proprie figlie. È invece negativo il fatto che non poche donne non si oppongono alla pratica avanzando un principio di libera scelta che in verità sottrae risorse al movimento di contrasto, molto attivo in Italia e nel resto del mondo. (Tabella 2)

La coerenza delle intenzioni

Il massimo favore nei confronti della pratica, comunque non superiore al 13% nella stima 2019, si manifesta fra le donne che hanno prevalenze alte: burkinabé, egiziane, nigeriane (grafico 2) confermano come la dimensione identitaria della pratica rimanga per loro importante. Fanno eccezione il gruppo somalo, per oltre il 55% dei casi attivo nel contrasto alla pratica, e quello etiope poiché a fronte di una proporzione di favorevoli relativamente elevata (12,3%) mostra anche alti livelli di attivismo contro la pratica (55%).

L’opinione nei confronti delle mutilazioni è coerente rispetto ai comportamenti concreti. Infatti, quasi la metà delle donne con figlie non mutilate è attiva nel contrastarle mentre il 25% che ha figlie mutilate le sostiene. Del resto, proprio dove si mostra il consenso più elevato si registra anche la maggiore numerosità di figlie che pur essendo nate in Italia hanno subito MGF. Va peraltro sottolineato fra queste (meno del 4%) poco più di tre quarti è stata sottoposta a pratiche non invasive come la manipolazione, la goccia di sangue o il taglio senza asportazione dei tessuti. La medicalizzazione della pratica è considerata una possibile risposta. In Italia ben due terzi fra le favorevoli la farebbe alle proprie figlie in condizioni di sicurezza[6]. L’opzione è l’esito di un conflitto. Da un lato infatti molte donne vorrebbero adeguarsi alla norma sociale in favore della pratica, dall’altra ne comprendono gli effetti dannosi per la salute e cercano di superarli attraverso pratiche meno invasive.

L’importanza dell’empowerment e le motivazioni

Nel complesso si osserva un’opposizione alla pratica superiore al 70%, con valori massimi raggiunti da chi non ha subito o pensa di non aver subito la pratica (92%), a testimonianza di una irreversibilità del fenomeno da una generazione a quella successiva. È plausibile che le donne non mutilate siano cresciute in un ambiente familiare che non ha riconosciuto la mutilazione come pratica culturale e ciò si è esteso alle figlie e ha un effetto protettivo nei confronti della terza generazione femminile. Altrettanto protettiva risulta l’istruzione in quanto tanto più è alto il livello raggiunto, tanto meno è intenso il favore (86% fra le laureate). L’effetto empowerment si osserva anche fra le lavoratrici che in percentuale molto elevata si dichiara contraria alla pratica. Le scelte intermedie sono decisamente minoritarie anche se si scorge il tentativo di coniugare norma sociale e consapevolezza del danno. L’adesione alla pratica in condizioni di sicurezza si presenta con percentuali relativamente più alte soprattutto fra le donne meno istruite e a loro volta mutilate.

Le opinioni in merito al mantenimento della pratica sono sorrette da particolari motivazioni che la letteratura sintetizza in quelli elencati nella tabella 3.

Fra le donne intervistate i motivi maggiormente indicati riguardano la dimensione sociale nelle vesti dell’adeguamento alla tradizione e alle norme che da queste scaturiscono. Un secondo blocco, comunque significativo, è rappresentato invece da motivi attinenti all’“adeguato comportamento” delle donne che ne moltiplica il valore sul mercato matrimoniale e in generale nella società. Preservare la verginità, essere appetibili sul mercato matrimoniale perché “adeguate” oltre a un generico richiamo a comportamenti più disciplinati rientrano infatti nella sfera del controllo delle donne e della loro posizione in seno alla comunità. Le donne favorevoli alla pratica adducono principalmente motivi culturali (45%) e legittimano di più la funzione di controllo nei confronti delle giovani inserite in una società percepita insicura.

Ancora pochi sforzi…

In definitiva, l’indagine rivela un’elevata variabilità della prevalenza di donne con MGF ma il numero di bambine a rischio ha dimensioni relativamente contenute. La pratica trova nutrimento soprattutto nella dimensione culturali e nelle dinamiche sociali delle comunità stesse. Per questa ragione le azioni di contrasto devono essere concepite e organizzate con iniziative condivise dalle comunità, che coinvolgano leader autorevoli capaci di “rompere” una norma sociale che in emigrazione si nutre del timore di venire emarginate e quindi indebolite. Questa metodologia di intervento ha dato buoni frutti nei paesi di origine delle migranti e sebbene dia risultati nel medio o lungo periodo è il solo tipo di intervento che assicura l’abbandono definitivo della pratica. Anche nel nostro paese.

Per saperne di più

AIDOS (a cura di) Riconsiderare le mutilazioni genitali femminili (mgf) come una questione di genere e sviluppo, Aidos, 2015.

Boyle, E. H., Female Genital Cutting. Cultural conflict in the global community, John Hopkins University Press, 2002

Carrillo D., Pasini N. (a cura di), Migrazioni Generi Famiglie. Pratiche di escissione e dinamiche di cambiamento in alcuni contesti regionali, FrancoAngeli, Milano, 2009.

Catania L.,Abdulcadir O., Ferite per sempre Derive e Approdi, 2005.

DHS programme

Farina, P., Ortensi L. E. e Menonna, A., Estimating the number of foreign women with female genital mutilation/cutting in Italy, European Journal of Public Health, 2016

Flamini S., Polcri C., Bagaglia C., Pellicciari M., Mutilazioni genitali e salute riproduttiva della donna immigrata in Umbria, Regione Umbria, 2014

L’albero della vita (a cura di) Il diritto di essere bambine. Dossier sulle Mutilazioni Genitali Femminili, 2011Misiti M., Rinesi F., Conoscenze e immagini delle Mutilazioni Genitali Femminili: un’indagine sugli operatori dei servizi territoriali del Lazio in Rivista di Sessuologia, Vol. 36 – n. 2-3, 2012

Parsec (a cura di) Linee guida per il riconoscimento precoce delle vittime di Mutilazioni Genitali Femminili o altre pratiche dannose per operatori dei Cpsa (Centri di primo soccorso e accoglienza) Cda (Centri di accoglienza) e dei Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo)”, 2018

Shell-Duncan, B. et al, A State-of-the-art synthesis on Female Genital Mutilation/Cutting. What Do we know?, Evidence to End FGM/C. Research to help girls and women thrive, Population Council, 2016

Simonelli I., Le mutilazioni genitali femminili Rappresentazioni sociali e approcci sociosanitari, i Quid n. 11, Prospettive Sociali e Sanitarie, 2014

UNFPA- UNICEF Joint Program on the Elimination of Female Genital Mutilation Annual Report 2018, last access September 2019

UNICEF (2020)

WHO, Elimination Female genital mutilation. An interagency statement, 2008 available at Note

¹ Questo Rapporto utilizza il termine mutilazione pur essendo chiaro che il termine non chiarisce le diverse forme della pratica, né è totalmente rispettoso del sentimento di chi ne è portatrice. D’altronde, a giudizio di chi scrive altre definizioni quali “taglio” o “sopravviventi” non risolvono la questione.

² L’Organizzazione Mondiale della Sanità distingue 4 tipi di mutilazione: parziale o totale rimozione del clitoride e/o del prepuzio; parziale o totale rimozione del clitoride e delle piccole labbra, con o senza l’escissione delle grandi labbra; restringimento della vagina tramite apposizione delle labbra minori e/o maggiori precedentemente tagliate, con o senza escissione del clitoride (infibulazione); tutte le procedure di manipolazione dei genitali a fini non terapeutici incluse ad esempio le manipolazioni.

³ Principalmente indagini DHS – Demographic Health Surveys, finanziate da USAID, e indagini MICS – Multiple Indicators Cluster Surveys, dell’UNICEF, che sono fra le più ampie e rappresentative fonti di dati dei paesi in via di sviluppo

[4] L’indagine è stata realizzata dall’Università Milano Bicocca per conto del Dipartimento pari opportunità. L’indagine ha coinvolto 2200 donne ed è stata effettuata mediante campionamento per centri. La prevalenza è stata stimata direttamente per le maggiori nazionalità e indirettamente per quelle esigue (Ortensi et al, 2015).

[5] Per quanto non totalmente confrontabile con la presente indagine, quella condotta nel 2016 indicava un supporto esplicito pari al doppio rispetto al valore odierno.

[6] In “sicurezza” in Italia come nei paesi di origine significa medicalizzazione, pratica che si è fatta largo in alcuni paesi insieme all’anticipo dell’età alla mutilazione. Cfr Unicef (2018)

 

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