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Immigrazione, Trump e l’umiliazione di un grande Paese

Sì, potrebbe succedere. Anche se le probabilità sono poche. Potrebbe avvenire che in un qualche giorno del 2017, 154 anni dopo il Proclama di Emancipazione degli schiavi fatto da Abraham Lincoln, e nella stessa Casa Bianca, Donald Trump pronunci il suo “Proclama del Muro e della Deportazione dei Migranti”, in coerenza con le proposte fatte in campagna elettorale. Che ci siano dei politici così cinici e reazionari non stupisce. La storia, anche recente, ce ne offre un nutrito campionario. Ma che un politico possa arrivare al vertice del paese più potente del mondo, con procedure democratiche, e con tali propositi, questa sì, è un’amara sorpresa. Un politico scelto come candidato ufficiale alla Presidenza dal Partito Repubblicano, il partito che fu di Lincoln, che affermò che “all men are created equal” in una democrazia guidata da un “government of the people, by the people, for the people”. Un’umiliazione, per un grande Paese come gli Stati Uniti d’America.

Donald Trump sull’immigrazione

Il tema dell’immigrazione, come purtroppo sappiamo, è un cavallo elettorale vincente dei politici reazionari. E nella lunga campagna elettorale, che ha proiettato Trump da candidato folkloristico a candidato ufficiale del Grand Old Party, dopo aver sconfitto una legione di accreditati politici, il tema della migrazione è stato una costante centrale dei suoi discorsi. Tuttavia se lo spirito razzista, xenofobo e reazionario è evidente in tutti i suoi discorsi, dichiarazioni, interviste, c’è una grande confusione circa i provvedimenti che la sua eventuale amministrazione dovrebbe prendere, e sui meccanismi per renderli effettivi. Nelle ultime settimane sembrava che Trump – per la spinta dei maggiorenti del partito, della parte più moderata del suo elettorale, e del timore di un disastro elettorale nel voto delle minoranze – avesse ammorbidito le sue posizioni più estreme, ma questa impressione è stata smentita dal discorso fatto a Phoenix

il 31 Agosto scorso¹.

Un muro di 3200 chilometri alto 18 metri… pagato dal Messico

Un punto “forte” della sua campagna (e il primo sul suo sito ufficiale) riguarda la costruzione di un muro lungo i 3200 chilometri del confine tra il Messico e gli Stati Uniti.² Ma questo muro dovrà essere costruito a spese del Messico. “Per molti anni – si legge – i governanti messicani hanno tratto vantaggio usando l’immigrazione illegale per esportare il crimine e la povertà negli Stati Uniti…Hanno perfino pubblicato dei pamphlet su come immigrare clandestinamente negli Stati Uniti…I costi per gli Stati Uniti sono stati straordinari….Gli Americani hanno dovuto pagare centinaia di miliardi di dollari in spese sanitarie, di alloggio, di istruzione, di welfare….L’impatto in termini di crimini commessi è stato straordinario…Nel frattempo il Messico continua a godere del flusso di rimesse dei clandestini, ben 23 miliardi di dollari nel 2013”. Scrive ancora Trump sul suo sito: “decisione facile per il Messico: faccia un pagamento una-tantum di 5-10 miliardi di dollari se vuole che 24 miliardi di rimesse all’anno continuino ad arrivare” (si badi che una parte consistente di queste rimesse proviene da messicani immigrati regolarmente!). E finché il muro non viene costruito, si imporranno nuovi gravami e nuovi vincoli sulla collettività immigrata (sequestro delle rimesse provenienti da “salari illegali”, aumento degli oneri per i passaggi di frontiera, o per le importazioni di merci; aumento delle tasse sui visti, ritorsioni giuridico-economiche verso i paesi di provenienza ).

E come sarebbe questo muro? Per il megalomane costruttore, dovrebbe essere lungo 3,200 chilometri (ma poi ha concesso che forse ne bastano meno), alto 65 piedi (20 metri: l’altezza à cresciuta durante la campagna elettorale), di cemento e acciaio. Stime fatte dal New York Times pongono il costo di questo ciclopico muro a 26 miliardi di dollari, assai di più dei 5 o 10 miliardi che Trump si ripropone di richiedere al Governo Messicano. Nemmeno la visita resa al Presidente Messicano Peña Nieto, alla vigilia del discorso di Phoenix, ne ha ammorbidito gli assurdi intendimenti: il Messico pagherà, e si costruirà “un muro impenetrabile, fisico, alto, potente, un bel muro del confine meridionale…con le tecnologie migliori, e sensori sotto e sopra il muro”.

11 milioni di irregolari? Deportiamoli tutti!

Stime molto ben fatte ed accurate pongono il numero degli irregolari (undocumented) negli Stati Uniti oltre 11 milioni, molti dei quali nel paese da decenni, con famiglia, figli, lavori stabili e legali³. La stragrande maggioranza è di origine latino americana, la metà sono messicani. Sono tutti a rischio deportazione, tant’è vero che Obama, fallito il progetto di riforma bipartisan approvato nel 2013 dal Senato ma successivamente bloccato dalla Lower House, è corso ai ripari avvalendosi dei poteri presidenziali e varando l’anno successivo il decreto DAPA (Deferred Action for Parents of Americans), che in pratica protegge gli irregolari genitori di un figlio nato negli USA (e quindi cittadino del paese o comunque legalmente residente nel paese) dalla deportazione, dando loro un permesso di lavoro triennale e rinnovabile. Un analogo decreto (DACA, Deferred Action for Childhood Arrivals) riguarda i minori. Dei decreti beneficerebbero un po’ meno della metà degli irregolari, più della metà dei quali vivono in California, Texas e New York. C’è attualmente un contenzioso riguardante la costituzionalità dei decreti cui, naturalmente, Trump è fieramente contrario.

La questione della deportazione degli irregolari è stata continuamente al centro delle esternazioni trumpiane. La posizione sulla quale ha costruito la sua campagna ed il suo successo con i settori più estremisti dell’elettorato è quella della immediata deportazione di tutti quanti, con l’apporto di un corpo speciale (deportation force) per eseguire questa complessa e costosa operazione. Se questa deportazione di massa (di una popolazione pari a quella del Portogallo) venisse intrapresa, gli ostacoli di natura giuridica, i costi di attuazione, le difficoltà logistiche, le lesioni dei diritti umani sarebbero enormi. Senza considerare gli effetti dirompenti sull’economia e la società. Trump si è in seguito barcamenato ambiguamente sull’argomento, sfuggendo le domande dirette, dando risposte confuse e contraddittorie. Ha affermato, per esempio, che si deporteranno i “cattivi soggetti” (e le forze di polizia sanno benissimo “quali sono i bad guys e i good guys”; che ci sono “due milioni di irregolari criminali”; che “la metà degli irregolari sono criminali”; che gli irregolari sono “stupratori e spacciatori di droghe”. Nel discorso di Phoenix è ritornato ai due milioni di criminali che “cominceremo a deportare nel day one, appena entrato in carica”. Ma anche gli altri saranno deportati nel giro di due anni, nei loro paesi di origine. Ad alcuni – gli onesti lavoratori, con famiglia, brave persone – potrà essere consentito di ritornare ma con le normali procedure. Ma poiché ci sono già 1,1 milioni di domande inevase di immigrati, e dato che Trump vuole abbassare sensibilmente il numero degli ammissibili, è chiaro che le probabilità di rientro per l’irregolare non criminale deportato sarebbero irrisorie.

I riflessi in Europa

Le politiche migratorie sono molto complesse – e quella americana è forse tra le più complesse e intricate – e ci sono molti altri aspetti sgradevoli nelle proposte di Trump (tra l’altro l’eliminazione dei finanziamenti per i minori “non accompagnati”) che potrebbero essere esaminati. Mi sono limitato però ai due aspetti centrali: il muro e la deportazione. Una malaugurata elezione di Trump non avrebbe, presumibilmente, conseguenze dirette di rilievo sull’Europa (salvo rendere più difficile la vita per i visitatori, l’inasprimento delle sanzioni per coloro che non ripartono alla scadenza del visto, i costi ecc.). Ma avrebbe sicuramente molte conseguenze negative indirette: un sostegno ai gruppi xenofobi e ai partiti di estrema destra; una potente giustificazione per le politiche ostili alle migrazioni degli Stati – come quelli del gruppo di Visegrad (Polonia, Rep. Ceca, Slovacchia e Ungheria); passi indietro nelle intese internazionali sui diritti umani; ostacoli ad ogni iniziativa volta a porre regole condivise al primitivo disordine dei flussi internazionali.

Note

¹ Nel sito ufficiale di Trump, c’è una sezione “Immigration Reform that will make America great again”. Si tratta di posizioni espresse all’inizio della campagna, poi spesso modificate, quando non contraddette.

² Già oggi esiste una robusta e invalicabile barriera di quasi 1000 chilometri nei tratti più “vulnerabili” del confine.

³ Trump si è spesso riferito alla cifra di 11 milioni di illegali, ma recentemente l’ha posta in dubbio “potrebbero essere 3 o 30 milioni”. Secondo le ricerche del Pew Center, nel 2014 negli Stati Uniti c’erano 11,4 milioni di irregolari (unauthorized), un numero rimasto stabile nel precedente quinquennio – anche in conseguenza della crisi economica – dopo aver toccato il massimo nel 2007. La metà (5,6 milioni, 49%) provengono dal Messico. Il 60% degli irregolari vive in 6 stati, nell’ordine California, Texas, Florida, New York, New Jersey e Illinois. Gli irregolari sono il 3,5% della popolazione, ma il 5,1 della forza di lavoro.

 

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