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Immigrati poveri … o poveri immigrati ?. (Seconda puntata)

(Riassunto della prima puntata [1] : un’indagine ISMU sugli immigrati in Lombardia rivela le loro precarie condizioni economiche)
Casa e lavoro
Anche in relazione alla condizione abitativa si conferma la forte associazione con la variabile “numero di componenti” che porta a far sì che la minore incidenza della povertà corrisponda paradossalmente alle situazioni apparentemente peggiori, almeno rispetto ai nostri standard, come la coabitazione con altri immigrati o la sistemazione sul luogo di lavoro. Considerando il titolo di godimento e depurando i tassi di incidenza dall’effetto della dimensione familiare, si osserva tuttavia come la situazione migliore spetti ai proprietari di case (solo 1 famiglia su 4 si trova al di sotto della linea di povertà). Seguono gli stranieri che si trovano in affitto, per i quali anche l’indicatore non standardizzato segnala un trend di forte riduzione della povertà. Le situazioni più problematiche sono quelle di chi vive in affitto senza un regolare contratto o come ospite non pagante da parenti, amici o conoscenti (l’indicatore standardizzato supera anche il 60% di incidenza e l’intensità della povertà arriva a sfiorare il 30%).
La condizione professionale è un fattore estremamente influente sul rischio di trovarsi in condizioni di povertà. Chi esercita una professione (indipendentemente dalle modalità contrattuali) appare, ovviamente, favorito rispetto ai disoccupati o agli inattivi. L’effetto sulla povertà dovuto alla modalità contrattuali è più intenso fra i lavoratori irregolari occupati in modo instabile (oltre il 50% dei quali vivono in famiglie povere), mentre appare più favorevole la condizione dei lavoratori autonomi (l’indicatore scende al 26%), i quali sono però caratterizzati da un trend in leggera ma costante crescita nel biennio 2004-2006, così da essere superati dai lavoratori parasubordinati, per i quali l’indicatore standardizzato rispetto alla dimensione familiare è pari al 24%. Nel caso della condizione lavorativa, la standardizzazione è utile a rendere evidenti tutte le difficoltà cui andrebbe incontro chi lavora in modo irregolare se solo decidesse di metter su famiglia, come spesso fa chi lavora continuativamente. Ma le ristrettezze economiche e il rischio di povertà scoraggiano le aspirazioni familiari di chi non lavora con continuità.
Poveri rispetto a chi?
Questo è quanto emerge, in estrema sintesi, allorché si estendono all’universo degli immigrati i criteri di valutazione dello stato di povertà propri del complesso della popolazione residente. Ma cosa accadrebbe se si ipotizzasse una loro collocazione a sé stante e una soglia di ingresso in povertà appositamente calcolata sulla sola popolazione immigrata? La tabella 1 riporta i risultati legati al calcolo della soglia di povertà ricavata sulla base dei dati sul consumo mensile riguardanti il solo collettivo degli stranieri. Circoscrivendo l’attenzione unicamente a questi ultimi, il valore della soglia nel 2006 si riduce a soli 463 €/mese (in aumento di 7 euro rispetto al corrispondente valore calcolato per il 2005 e pari a meno della metà della soglia italiana utilizzata nel corso delle analisi precedenti) e in tal modo la percentuale di famiglie al di sotto di tale linea scende a meno del 3%. Si può poi graduare la povertà in quattro categorie, secondo una consuetudine che introduce una fascia di riferimento del 20% in più o in meno rispetto alla soglia. La concentrazione di quasi tutti gli stranieri facenti parte del campione del 2006 avviene nella categoria dei “sicuramente non poveri” (il 93,8%, +6,7% rispetto al 2004) mentre la categoria speculare, i “sicuramente poveri”, racchiude appena l’1% dei casi, anche se per costoro l’intensità della povertà supera il 50%.

Tabella 1: Incidenza della povertà calcolata in riferimento alla soglia individuata sulla sola popolazione straniera presente in Lombardia. Anno 2006

Livelli di povertà

 

Incidenza

 

var.% dell’incidenza 2006-2004

 

consumo equivalente

 

(a) variazione % rispetto alla soglia di 462,85€

 

sicuramente povero (consumi inferiori all’80% della soglia)

 

1,0

 

-2,0

 

299,9

 

-54,3

 

appena povero (consumi tra l’80% e il 100% della soglia)

 

1,8

 

-1,9

 

423,2

 

-9,4

 

quasi povero (consumi tra il 100% e il 120% della soglia)

 

3,3

 

-2,7

 

512,7

 

9,7

 

sicuramente non povero (consumi oltre il 120% della soglia)

 

93,8

 

+6,7

 

1182,3

 

60,9

 

Totale

 

100,0

 

 

1137,2

 

59,3

 

Intensità della povertà
Integrazione anche negli standard di vita
In conclusione, le tre esperienze di analisi della povertà nell’universo degli immigrati, realizzate in Lombardia mediante i dati raccolti dalle indagini 2004-2006 dell’Osservatorio ISMU, hanno mostrato una realtà in evoluzione. L’incidenza della povertà relativa tra gli stranieri, grazie ad un aumento dei redditi e quindi dei consumi, sembra progressivamente in calo, ma rimane su livelli allarmanti. In particolare, l’evidente tendenza a una riduzione della povertà si scontra con la volontà degli stranieri, in parte già espressa, di formare o ricomporre una famiglia in Italia. Si è visto che rispetto al 2004 la percentuale di famiglie che non supera la soglia di povertà è scesa di circa 4 punti, attestandosi sotto al 40%. Tale riduzione sarebbe però stata molto più intensa (circa 8 punti percentuali) se la struttura delle famiglie per dimensione dei nuclei familiari fosse rimasta invariata tra il 2004 e il 2006. Si ravvisa dunque come due fondamentali fattori di integrazione risultino antitetici: il radicamento attraverso la formazione di una famiglia in Italia riduce le opportunità degli stranieri al benessere materiale.
Come si è visto, se ci si basa sull’uso di una loro soglia specifica di povertà, gli immigrati poveri si riducono a un’esigua minoranza: ma è corretto agire così? Dopo tanta enfasi sull’integrazione e sull’importanza che essa si realizzi pienamente e rapidamente, si può legittimare la separazione tra le due popolazioni, usando metri di giudizio esplicitamente e radicalmente diversi? Non sarebbe assai più logico e doveroso ritenerle assolutamente equiparabili? Questo è un problema che rimane aperto ed al quale si affianca una considerazione finale dettata dall’evidenza empirica.
Certo, l’uso della spesa per consumi come indice di benessere può essere un po’ fuorviante. Gli stranieri in Italia hanno una fortissima tendenza al risparmio, in parte perché mandano soldi a casa, nella terra d’origine, e in parte perché accumulano capitale, sperando di farsi un giorno raggiungere dalle famiglie. A un reddito decente, insomma, possono corrispondere consumi bassi, perché sono alti i risparmi.
Ma, anche cambiando indicatore, l’incidenza della povertà tra gli stranieri resterebbe certamente elevata, verosimilmente non lontana dal 40% rilevato dall’ISMU. Eppure, se ci guardiamo intorno non troviamo certamente 4 poveri ogni 10 immigrati. Sicuramente gli immigrati sono piuttosto visibili, si notano facilmente, ma ciò che non si nota affatto è la presenza al loro interno di una tale quantità di poveri. Cosa giustifica questa apparente contraddizione? Forse pesa su questo la diversa concezione dello stile di vita, dove i punti fondamentali non sono né il consumo, né i parametri economici. E’ possibile che, nell’universo degli immigrati, valga un’impostazione di vita un po’ diversa dalla nostra. La disponibilità complessiva di risorse è indubbiamente bassa, ma la completa rinuncia ai beni di lusso e una buona ripartizione delle spese sulle voci strettamente necessarie consente comunque di preservare condizioni nel complesso accettabili.
Insomma, non è detto che, a fronte di tanti immigrati statisticamente poveri, si debba necessariamente gridare: “…poveri immigrati”!
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