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Il ritorno della famiglia tradizionale in Albania (*)

Dopo la caduta del comunismo, la società albanese ha dovuto fronteggiare gli sconvolgimenti provocati dall’improvvisa apertura del paese al resto del mondo e dalla scomparsa dell’economia pianificata, mentre l’economia di mercato, che avrebbe dovuto prenderne il posto stenta a decollare. Tra il 1989 e il 2001 si sono persi molti posti di lavoro (da 1 440 000 a 1 040 000), soprattutto nell’industria (da 330 mila a 60 mila), e la disoccupazione è cresciuta rapidamente, nonostante le forti correnti emigratorie, dirette in particolare verso i paesi vicini: Grecia e Italia. Le prime vittime di questi bruschi cambiamenti sono stati i giovani in cerca del primo impiego, mentre le coorti più anziane sono nel complesso riuscite a conservare il loro posto di lavoro.[1]


La famiglia tradizionale riconquista spazi
Tra i molti meccanismi di adattamento al nuovo stato di cose che si sono sviluppati in Albania, vi è stato anche il ritorno verso quelle forme di organizzazione familiare tradizionale che il comunismo aveva combattuto. E le conseguenze si vedono: la ricerca di un lavoro passa adesso essenzialmente attraverso le reti familiari e la partecipazione femminile al mercato del lavoro è diminuita fortemente: tra il 1989 e il 2001, la quota di donne inattive a 25-29 anni, ad esempio, è passata dal 13 al 22% in città e dal 6 al 52% in campagna. Un altro indice rivelatore è la differenza media di età tra gli sposi, che, oltre certi valori “fisiologici”, si può interpretare come un indice della posizione di relativa inferiorità della donna nella coppia. Questa differenza è sempre stata elevata in Albania, dove le ragazze si sposano piuttosto presto, ma era calata da 6.2 à 4.3 anni nell’era comunista, tra il 1948 e il 1990, e ha invece ripreso a crescere recentemente, fino a raggiungere 5.6 anni nel 2003. In Italia, tanto per confronto, la differenza è di circa 3 anni, in media.
Il ritorno alla sfera familiare è favorito dal fatto che i comportamenti tradizionali non erano scomparsi sotto il comunismo: erano solo rimasti leggermente nascosti sotto la superficie. Il matrimonio rimane quindi precoce, in particolare per le ragazze (a 23 circa, in media; in Italia è oltre i 29); è l’unico contesto in cui sono ammesse la sessualità (soprattutto femminile) e la riproduzione – e infatti la quota dei nati al di fuori del matrimonio è molto modesta e stabile (0.5%), contrariamente a quel che avviene nei paesi vicini (tab. 1); la contraccezione è affidata quasi esclusivamente ai metodi tradizionali; i figli sposati continuano a vivere con genitori (nel 2001, a 20-24 anni, il 60% degli uomini sposati e quasi il 50% delle donne sposate abitavano ancora con i genitori, o i suoceri); la coabitazione senza matrimonio è fortemente minoritaria, ecc.
Insomma, la disorganizzazione dello Stato e la debolezza delle forze di mercato (in particolare nella sfera del lavoro e degli alloggi) hanno rinforzato il “terzo polo” istituzionale, la famiglia, restituendole il suo ruolo tradizionale, di centro di potere economico e decisionale, ma anche di fonte sostegno e solidarietà verso i membri più deboli.
Altrove è diverso
Ma non dappertutto la fine del comunismo ha portato a questi sviluppi. L’Ungheria, ad esempio, rappresenta un caso di transizione economica più equilibrata[2], anche se, nell’operare il confronto bisogna ricordare che questo paese è sensibilmente più ricco (il reddito pro-capite è circa 3 volte tanto), ed è anche più avanti nella transizione demografica, con fecondità e mortalità più basse che non in Albania.
In Ungheria, comunque, il peso economico del settore agricolo continua a diminuire, i servizi crescono, la disoccupazione resta modesta. I giovani preferiscono restare un po’ più a lungo all’interno dei percorsi formativi, rendendosi probabilmente conto delle difficoltà che dovranno affrontare nella ricerca, adesso più concorrenziale, di un lavoro. Le scuole professionali costituiscono, non a caso, un’alternativa importante all’insegnamento generalista, dato che i mestieri che vi si apprendono sono quelli richiesti sul mercato del lavoro.
D’altro canto, lo Stato, benché con meno vigore di prima, continua a giocare un ruolo importante nella protezione sociale, garantendo sussidi e altre forme di sostegno ai più deboli – giovani compresi. Insomma, al contrario di quel che avviene in Albania, i sistemi economici e educativi sostanzialmente “tengono”, e questo rende meno necessario il ruolo protettivo della famiglia, e ne indebolisce il valore simbolico. Avviene così che le ragazze si sposano più tardi (dai 25 anni, in media, del 1990 agli oltre 29 di oggi), non rinunciano a lavorare, e, in circa un caso su tre, mettono al mondo un figlio senza essere sposate (tab. 1).

Tab.1. Quota di nascite da genitori non sposati, in alcuni paesi europei: 1985-2003 (per 100 nascite)
Paesi
1985
1990
1995
2000
2001
2002
2003
Albania
0.5
0.5
Grecia
1.8
2.2
3.0
4.0
4.3
4.4
4.8
Ungheria
9.2
13.1
20.7
29.0
30.3
31.4
32.3
Italia
5.4
6.5
8.1
10.2
11.1
12.3
13.7
Macedonia
6.6
7.1
8.2
9.8
10.4
10.7
11.2
Serbia e Montenegro
10.7
12.7
16.4
20.4
20.2
D’altro lato, le incertezze della globalizzazione e la precarietà del lavoro spingono i giovani ungheresi a preferire relazioni coniugali meno impegnative, e questo spiega lo sviluppo della coabitazione e il ritardo nel matrimonio e nella nascita del primo figlio.
E’ semmai a livello individuale, quasi in sordina, che la famiglia svolge il suo ruolo, di ancora di salvezza nelle situazioni di difficoltà: ad esempio, le ragazze con i più bassi redditi da lavoro optano più facilmente per il matrimonio che non per la coabitazione, e diventano madri relativamente presto. Ciò che in Albania sembra essere un sistema che s’impone universalmente tra le nuove generazioni, in Ungheria è solo una delle possibili scelte, quasi un ripiego, per coloro che hanno avuto meno successo, a scuola o sul mercato del lavoro.
L’Albania tra passato e futuro
Contrariamente agli esempi degli altri paesi, che, di fronte alle incertezze economiche, rinviano il matrimonio e, almeno inizialmente, scelgono forme di coppia più flessibili, in Albania i giovani continuano a sposarsi come un tempo, e le coppie di fatto rimangono quasi sconosciute: nel 2001, ad esempio, tra i giovani di 15-29 anni, solo lo 0.2% viveva in coppia senza essere sposato. Ciò che è avvenuto in Albania – un ritorno al passato, sotto molti profili, o almeno una forte resistenza ai cambiamenti che altrove si affermano – sembra indicare che, di fronte alle incertezze di un mercato del lavoro non ancora ben oliato, di fronte all’indebolimento dello stato sociale, la famiglia diviene l’istituzione di riferimento, quasi un bastione contro le difficoltà, talvolta notevoli, della vita quotidiana. Il ritorno alla coabitazione tra diverse generazioni ne è un esempio lampante: si proteggono i giovani dalle asperità del mercato del lavoro, si garantisce loro un alloggio, e, al tempo stesso, si tutelano i vecchi dallo sfaldamento del sistema previdenziale.
La fine del comunismo albanese ha sancito la fine dell’isolamento e l’apertura del paese verso il resto del mondo. I grandi cambiamenti che ne sono seguiti hanno avuto però anche alcuni aspetti negativi. Tra questi l’esposizione, forse troppo improvvisa e violenta, delle generazioni più giovani alle forze del libero mercato e della globalizzazione. Ma anche la fine della lotta che il comunismo aveva combattuto contro gli eccessi del sistema familiare, e contro le ineguaglianze che esso genera, simbolizzate, nella famiglia tradizionale dei Balcani, dall’assoggettamento delle donne.

[1] Danaj E., Zhllima E., Guxho A., Lika M., Festy, P. (2005) Becoming an adult. Challenges and potentials of youth in Albania, INSTAT, Tirana.
[2] Róbert P., Bukodi E. (2005) “The Effects of the Globalization Process on the Transition to Adulthood in Hungary”, in H.-P. Blossfeld, E. Klijzing, M. Mills, K. Kurz (eds), Globalization, uncertainty and youth in society, London, Routledge, Globalife.
(*) Traduzione del testo originale in versione francese a cura di Gustavo De Santis
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