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Come si misurano i tassi di copertura dei servizi per l’infanzia?

Qualche settimana fa è stato pubblicato un rapporto dell’Unione Europea sullo stato di attuazione dei cosidetti obiettivi di Barcellona relativamente all’offerta di servizi formali per i bambini in età prescolare, distinti per due fasce di età: sotto i tre anni e tra i tre anni e l’età di ingresso nella scuola dell’obbligo[1].
 
I dati della Commissione Europea
I paesi membri dovrebbero raggiungere entro il 2010 almeno il 33% di copertura nella prima fascia di età e il 90% nella seconda. Secondo la definizione della Commissione europea, per servizi formali bisogna intendere tutti i servizi di tipo collettivo, inclusi i micronidi, ma anche la cura di uno o più bambini da parte di persone “professionalmente certificate”. L’Italia appare ancora lontana dall’obiettivo per quanto riguarda i bambini più piccoli, ma molto più vicina di quanto non emerga solitamente (fig. 1). I dati della Commissione danno un tasso di copertura del 26% nel 2006, di cui il 10% con servizi a tempo parziale e il 16% con servizi superiori alle 29 ore settimanali. Questo dato indicherebbe un grande miglioramento rispetto al 2000, quando la disponibilità di nidi, pubblici e privati, riguardava solo il 7,4% della popolazione infantile.
 
Che cosa si misura esattamente e come?
I dati tuttavia non sono confrontabili nel tempo, per diversi motivi. Il primo è che la definizione adottata dalla Commissione di “servizi formali” include un raggio più ampio di servizi che non il nido. Il secondo, e più importante, è che la Commissione (più precisamente, il Social Protection Committee) non si riferisce al livello di copertura offerto dai servizi disponibili, ma a quello che emerge dal lato degli utilizzatori. Il dato del 26%, infatti, è tratto dall’indagine campionaria EU-SILC (http://www.istat.it/strumenti/rispondenti/indagini/famiglia_societa/eusilc/) sulle condizioni socio-economiche della popolazione.
Sono note le difficoltà che si incontrano ad avere dati attendibili sui servizi quando questi sono organizzati su base e con responsabilità locale e anche in combinazioni istituzionali (pubblico, privato, misto) e organizzative (servizio collettivo, servizio personalizzato e/o a domicilio) diverse. Tuttavia il ricorso a dati campionari sugli utenti avrebbe una parziale giustificazione solo se si trattasse di un’indagine mirata sulla popolazione appunto dei potenziali utenti: in questo caso sulle famiglie con bambini in età pre-scolare. L’indagine EU-SILC riguarda un campione rappresentativo dell’intera popolazione, non delle famiglie con figli piccoli, che costituiscono al suo interno un sottocampione di numerosità ridotta sulla cui rappresentatività si possono nutrire dubbi. Vale la pena di segnalare a questo proposito che l’Istat, sulla base dei dati delle Indagini Multiscopo con un campione più ampio, stimava per il 2004 un tasso di utilizzo dei nidi da parte della popolazione sotto i tre anni dell’11,7%. Nonostante il forte aumento della offerta di mercato in questi anni, non è verosimile che nell’arco di due-tre anni l’utilizzo dei servizi sia più che raddoppiato.
 
Alcuni rischi a livello di policy making
Considerando queste difficoltà, l’utilizzo della fonte EU-SILC per verificare il raggiungimento degli obiettivi di Barcellona sembra inopportuno. Un paese come l’Italia, che a livello di politiche pubbliche ha investito pochissimo negli ultimi anni nei servizi per la prima infanzia (fig. 2), può sentirsi giustificato a continuare a non investire, o a investire pochissimo, perché l’obiettivo appare vicino, quando potrebbe essere vero il contrario.
Ma c’è anche un altro motivo per cui l’indicatore utilizzato dalla Commissione europea non appare soddisfacente: la mancata distinzione tra servizi pubblici e privati, oltre che tra servizi collettivi e servizi individuali. Se a Barcellona gli stati hanno preso l’impegno di garantire un determinato livello di copertura, è innanzitutto il loro sforzo che va tenuto sotto osservazione. Tale sforzo può realizzarsi in forma di fornitura diretta, o in forma di convenzione con un soggetto terzo, o ancora di incentivazione al mercato, ma sempre riservandosi il controllo di qualità. Se ci si affida solo o prevalentemente al mercato, non solo la garanzia di copertura per gli utenti può essere più fragile, ma anche non vi è alcuna garanzia né sulla qualità né sul costo.
Tra le righe, questi problemi emergono nel rapporto della Commissione, senza tuttavia diventare elemento critico della scelta dell’indicatore. Ad esempio, il rapporto osserva che in molti paesi, inclusa l’Italia, una quota molto ampia di servizi per la primissima infanzia è a tempo parziale, anche se, stante la fonte, non è chiaro se sia una scelta di utilizzo dei genitori o una caratteristica dell’offerta. Persino nella scuola materna, frequentata dal 90% dei bambini dai tre anni fino all’ingresso nella scuola elementare, solo il 66% ha un orario di 30+ ore settimanali. Il rapporto osserva anche che sia il costo per i genitori sia la qualità dei servizi per la prima infanzia variano non solo da paese a paese, ma anche a seconda che si tratti di servizi pubblici (o sotto controllo pubblico) o privati. Anche il livello di preparazione delle persone che si prendono cura dei bambini varia sia tra paesi sia tra tipologie di servizio (servizi collettivi o singole lavoratrici individuali, tipo “madri di giorno”). Infine il rapporto osserva che la crescente diversificazione dei servizi offerti, talvolta incoraggiata dalle stesse politiche pubbliche, se aumenta la possibilità di scelta dei genitori, rende sempre più difficile il compito di sorveglianza e valutazione della qualità. Questi problemi aumenteranno ulteriormente se, come sta avvenendo in diversi paesi in cui la maggior parte delle mamme lavora, si cercherà di fare fronte ai bisogni di cura della prima infanzia prolungando i congedi remunerati ai genitori, affinché stiano a casa, per prendersi cura dei figli molto piccoli. Tra l’altro, il diffondersi di quest’ultima opzione mette ulteriormente in dubbio l’adeguatezza dell’indicatore utilizzato per quanto riguarda la definizione di “servizio formale”. Al momento esclude baby sitters non certificate (qualsiasi cosa voglia dire essere certificate) e nonni o altri parenti o amici. Ma se una mamma è pagata più o meno generosamente per stare a casa si tratta di servizio formale o no? Rientra o no tra i livelli di copertura?
Vale la pena di osservare che si tratta di elementi dell’offerta – qualità e forma organizzativa – che non incidono solo sulle possibilità di conciliare lavoro e genitorialità, specie per le donne, ovvero sulla principale questione che interessa la Commissione. Essi incidono anche sulla qualità delle cure ricevute dai bambini e sul grado in cui queste si pongono come strumenti di egualizzazione delle condizioni dei bambini o viceversa di conferma delle disuguaglianze. Per quanto riguarda le possibilità di conciliazione, ovviamente, è diverso avere un servizio a tempo parziale o a pieno tempo, più o meno finanziariamente accessibile, oltre che di maggiore o minore qualità. Fa anche differenza se si ricevono servizi o invece denaro, perché tutte le ricerche hanno mostrato come i trasferimenti in denaro abbiano un effetto di conferma se non di incentivazione delle disuguaglianze di genere.
Ma, per quanto riguarda i bambini, la crescente diversificazione dell’offerta senza un intenso controllo della qualità può costituire un potente elemento di conferma delle disuguaglianze sociali.
 


[1] Report from the Commission to the European Parliament, the Council, the European Economic and Social Committee and the Committee of the regions. Implementation of the Barcelona objectives concerning childcare facilities for pre-school-age children.
http://ec.europa.eu/social/main.jsp?langId=en&catId=89&newsId=404&furtherNews=yes

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