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Dal brexit all’Italexit?

Anziani (più) attivi

Secondo gli analisti del dopo Brexit la presenza di oltre 11 milioni di ultrasessantacinquenni, pari al 24% dei circa 47 milioni di britannici chiamati al voto il 23 giugno, avrebbe decisamente influito sulla vittoria dei “leave”, essendo quest’ultimo l’orientamento prevalente entro la componente più anziana dell’elettorato britannico. Sussiste infatti – stando ai dati forniti dai sondaggisti – una significativa correlazione inversa tra l’età degli elettori e la percentuale di “remain” (il coefficiente di correlazione lineare vale -0,93), anche se non è escluso che sul risultato finale abbia largamente influito un maggiore astensionismo proprio in corrispondenza delle fasce d’età più propense a restare nell’UE (i più giovani). Schermata 2016-07-08 alle 15.41.02Non a caso, applicando le stime sulla composizione del voto per fascia d’età al corrispondente totale dei potenziali elettori si ottiene una leggera supremazia dei “remain” per circa 150 mila voti, mentre la realtà dei fatti ha premiato i fautori del “leave” con un vantaggio di 1,3 milioni di consensi (8% in più).

Decidere per l’altrui futuro

D’altra parte, allorché si considera la percentuale di “remain” in funzione non già degli anni vissuti dalle diverse componenti dell’elettorato (l’età), bensì in relazione agli anni che ancora resterebbero loro da vivere (la speranza di vita) la correlazione cambia di segno e si accresce di intensità (il coefficiente di correlazione sale a +0,95). Chi ha più “vita attesa” davanti a sé sembra assai meno disposto a sostenere un cambiamento i cui effetti si manifesteranno per gran parte della propria esistenza. Dal 73% di orientati a restare nell’UE tra i 18-24enni con (mediamente) oltre 60 anni di futuro, si scende al 40% tra coloro che appartengono all’elettorato più anziano e hanno poco più di 12 anni di aspettativa di vita. Alla luce degli eventi, il pur nobile principio “ogni testa, un voto (One person, One vote)”, costringerà il popolo dei perdenti a vivere mediamente più a lungo una decisione che non ha condiviso. E che sarebbe stata diversa se ogni elettore avesse potuto far confluire nella propria urna tanti voti quanti saranno i suoi anni di vita futura verosimilmente condizionati dalla scelta che è chiamato ad esprimere. Ciò avrebbe portato a conteggiare – alle condizioni di sopravvivenza del nostro tempo – un totale di 878 milioni di consensi (anni-vita) per il popolo del “remain” e 716 milioni per quello dei “leave”: da una sconfitta con quattro punti percentuali di differenza, i primi sarebbe passati a una vittoria con un vantaggio per più di dieci.

Una lezione da non sottovalutare

Sul piano strettamente demografico, l’esperienza della Brexit – e l’eco delle analisi che hanno accompagnato i risultati del voto – inducono a prendere atto del fatto che l’invecchiamento della popolazione, tradizionalmente al centro del dibattito sugli scenari socio-economici (pensioni e sanità più di ogni altro), è capace di lasciare il segno anche rispetto alle strategie politiche ai più alti livelli. Siamo ben consapevoli che l’età rappresenta solo il marcatore più evidente dei molti fattori che possono aver condizionato e differenziato il risultato della consultazione britannica – urbanizzazione, localizzazione geografica, istruzione, esclusione sociale e così via – e che hanno indubbiamente interagito con le grandi problematiche del nostro tempo, con la crisi economica e l’immigrazione (reale e potenziale) ai vertici del comune sentire. Ma la lezione della Brexit è che se la struttura per età si configura come variabile sempre più determinante anche nei processi che democraticamente segnano le scelte e gli orientamenti di un Paese, allora l’invecchiamento demografico è destinato a consegnare il futuro in mano a chi – pur con un bagaglio fatto di saggezza ed esperienza – è naturalmente più portato a vivere nel presente o, al più, è incline a muoversi con un visione che si protrae nel breve periodo. E qui nasce il dilemma: come conciliare le strategie, le scelte e gli investimenti che possono dare frutti solo a lungo termine con la necessità di mantenere consenso entro una società che sarà sempre più vecchia?

Se si riflette sull’Italia di oggi, dove la percentuale di ultrasessantacinquenni nel complesso dei potenziali elettori raggiunge il 28% e supera il dato britannico di ben quattro punti percentuali, quale potrebbe essere il comportamento della nostra popolazione di fronte a un analogo referendum sulla permanenza in Europa? Qualora dovessimo semplicisticamente applicare alla composizione per età degli attuali elettori italiani le percentuali (tassi) di favorevoli e contrari osservate nel Regno Unito avremmo, unicamente a seguito dell’effetto combinato tassi-struttura per età, il 48,6% dei potenziali elettori disposto a restare e il 51,4% orientato ad uscire. Se (forse esagerando) aggiungessimo al tutto un coefficiente di astensionismo differenziale calibrato sul modello britannico vedremmo il popolo dei “remain” sempre più in basso: il 46,5% degli italiani punterebbe a restare nell’UE e il 53,5% ad uscirne.

Ma questo è solo un gioco di simulazione; e poi . . . “niente panico, non siamo inglesi”.

Per saperne di più

Alessandro Rosina, Paolo Balduzzi Voto giovane, voto da ponderare? (Neodemos – 01.12.2011)

Here’s what would have happened if Brexit vote was weighted by age  (The conversation.com – 04.07.2016)

Alessandro Rosina, Paolo Balduzzi Lezione inglese sul voto dei giovani (La voce.info – 28.06.16)

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