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L’età di pensionamento delle donne: siamo sicuri che l’Europa abbia ragione?

A seguito della sentenza della Corte di Giustizia Europea del 13 novembre 2008 si discute in questi giorni circa la necessità di modificare la legge 1992 sulle regole di pensionamento relative al pubblico impiego, innalzando l’età pensionabile delle lavoratrici pubbliche a 65 anni ed equiparandola a quella degli uomini. Il provvedimento interessa in prima persona le lavoratrici pubbliche più anziane che non ricadono nell’ambito della riforma Dini del 1995 e la cui pensione sarà erogata secondo il regime retributivo. Ma la portata del provvedimento è più vasta in quanto la riforma Maroni ha reintrodotto età di pensionamento diverse tra uomini e donne anche nel regime contributivo e perché la riforma Dini del 1995, non prevedendo coefficienti anagrafici differenziati tra uomo e donna, non riconosce il fatto che le donne hanno una speranza di vita superiore dopo il pensionamento, e quindi di fatto le avvantaggia.


Ore di lavoro degli uomini e delle donne

La norma del 1992 oggi in discussione riprende una caratteristica del sistema pensionistico degli anni 50 che a sua volta si rifaceva al r.d. n. 636 del 1939. In quel contesto sociale, la donna lavoratrice era impiegata prevalentemente in attività agricole o a cottimo e il sistema pensionistico riconosceva il fatto che tali attività si intrecciavano con quelle più prettamente domestiche. Con il passare del tempo la differenziazione dell’età pensionabile a favore delle lavoratrici è stata mantenuta, costituendo di fatto una compensazione del lavoro svolto tra le mura domestiche, nella cura dei familiari sia anziani sia bambini, un lavoro spesso condotto in regime di supplenza alla carenza di servizi offerti dalle amministrazioni pubbliche.

Oggi l’Europa chiede di equiparare l’età pensionabile di uomini e donne in nome della parità di trattamento tra i sessi nella vita professionale. Si propone quindi una breve analisi della vita lavorativa di uomini e donne in Italia e in Europa.

Tab.1: Tempo dedicato dalla popolazione occupata al lavoro domestico ed extradomestico (ore e minuti al giorno)

Donne IT FR DE UK
Lavoro retribuito 4:39 4:32 3:52 4:06
Lavoro domestico 3:51 3:40 3:11 3:28
Totale 8:30 8:12 7:03 7:34
Uomini IT FR DE UK
Lavoro retribuito 6:13 5:44 5:05 5:42
Lavoro domestico 1:10 1:53 1:52 1:54
Totale 7:23 7:37 6:57 7:36
Differenza = Donne-Uomini IT FR DE UK
Lavoro retribuito -1:34 -1:12 -1:13 -1:36
Lavoro domestico 2:41 1:47 1:19 1:34
Totale 1:07 0:35 0:06 -0:02

Fonte Eurostat, 2006. “How is the time of women and men distributed in Europe?”, Statistics in focus.  Popolazione di età compresa tra i 20 e i 74 anni. Anno 2002. Dati riferiti a un giorno medio settimanale.

 

In base ai dati dell’Eurostat, relativi al 2002 (Tavola 1), in media una donna italiana dedica 8:30 ore al giorno al lavoro sia retribuito (cioè quello svolto fuori casa) sia domestico, un’ora in più rispetto a un uomo italiano. Anche in Francia le donne lavorano di più degli uomini (circa mezz’ora) mentre questo non avviene nel Regno Unito e in Germania. Una donna italiana lavora in media circa 15 minuti in più di una francese, 1:30 ore di una tedesca e un’ora in più di una donna inglese. In Italia, le donne lavorano quindi più dei loro colleghi maschi e sicuramente più della media delle donne europee.

Ma questa differenza tra ore giornaliere lavorate da uomini e donne italiani quanto incide sulla quantità di lavoro complessiva offerta durante la vita lavorativa? Supponiamo che un uomo cominci a lavorare a 30 anni. Considerando la somma del lavoro retribuito e domestico, e assumendo che in un anno questa persona lavori 47 settimane, dopo 35 anni di lavoro avrà lavorato 85.019 ore. Una donna che inizi a lavorare a 30 anni e lavori ogni giorno un’ora in più (per le stesse 47 settimane all’anno) avrà lavorato la stessa quantità di ore del suo collega maschio (85.019 ore) dopo 30 anni: in altre parole, dopo 30 anni di lavoro (retribuito e domestico) una donna ha già lavorato quanto un uomo che abbia lavorato invece 35 anni.

 

Ma il lavoro domestico è lavoro?

Le motivazioni addotte dall’Europa sono fondamentalmente due:

1. Dato che nel sistema retributivo la pensione è calcolata sulla base della retribuzione, la possibilità di andare in pensione a 60 anni per le donne costituisce una forma indiretta di retribuzione e viola l’articolo 141 del Trattato che sancisce l’assenza di ogni discriminazione nella retribuzione tra uomini e donne a parità di lavoro. Si potrebbe tuttavia argomentare che lo Stato italiano, in quanto datore di lavoro, non potendo provvedere direttamente con la fornitura di servizi alla persona, assegna un valore anche al lavoro domestico svolto dalle donne. E se le donne lavorano ogni anno molte ore in più rispetto ai loro colleghi maschi, quella che appare una discriminazione non può invece essere vista come un meccanismo di compensazione? Nell’esempio, la quantità di lavoro offerta nella vita lavorativa da uomini e donne è esattamente la stessa.

2. Lo stesso articolo 141 del Trattato consente agli Stati membri di adottare vantaggi specifici per le donne al fine di garantire una piena eguaglianza tra sessi nella vita professionale. La Corte però non riconosce che differenziare per sesso l’età di pensionamento costituisca un aiuto alla vita professionale. Se ne deduce quindi che per la Corte il lavoro domestico non costituisce parte della vita professionale. Ma se non è lavoro, che cos’è?

Sicuramente oggi in Italia in molti, soprattutto tra le nuove generazioni, avvertono la necessità di una riforma del sistema pensionistico che sia più equa e adegui l’età pensionabile alle aspettative di una vita più lunga. Una riforma in tale direzione è senz’altro necessaria, ma la riforma dovrebbe innalzare l’età pensionabile sia degli uomini sia delle donne e lasciare alle donne la facoltà di un pensionamento anticipato, proprio in ragione del fatto che esse svolgono una quantità di lavoro superiore a quella degli uomini.

Si potrebbe sostenere che la rimozione del vantaggio normativo della legge del 1992 possa incentivare le donne a ricercare un maggiore equilibrio tra lavoro domestico e retribuito, spingendole a ottenere una ripartizione più equa del lavoro domestico. Resta però da dimostrare che la rimozione di questo vantaggio pensionistico riesca a innescare una tale spirale virtuosa. Invece, in una società dove lo Stato fatica a garantire l’assistenza alle persone più deboli (quali gli anziani e i bambini), il rischio che si corre è che tale provvedimento costringa la forza lavoro femminile ad aumentare ulteriormente la quantità di lavoro svolto, senza tener conto del fatto che le donne italiane lavorano oggi molto di più degli uomini e delle donne europee.

 

 

Le opinioni espresse nel presente articolo sono esclusivamente riferibili all’autore e non coinvolgono l’Istituto di appartenenza

 

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