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Donald Trump, gli immigrati e gli anni Venti negli Stati Uniti

Quanto è accaduto nel primo quadrimestre del 2025 sembra un remaking di quel che avvenne negli Stati Uniti un secolo fa. I dazi imposti e poi congelati ricordano l’esasperato isolazionismo dopo la Grande guerra, mentre le deportazioni di migranti riecheggiano il momento in cui si sommarono gli effetti della prima “Red Scare” e dell’odio anti-immigrati. Un ripetersi della storia che Matteo Sanfilippo esamina in questo articolo.

L’esperienza degli anni venti del Novecento

Dal 1920 il governo statunitense perseguitò gruppi di italiani, greci, ebrei, russi, ucraini e finlandesi, accusandoli di nascondere nel loro seno cellule terroristiche. Di recente Emilio Franzina (2025) ha rilevato come il caso Sacco e Vanzetti coincida «cronologicamente con l’incedere della campagna xenofoba restrizionista» e con la chiusura degli sbocchi migratori statunitensi (La fine della Merica e altri saggi di storia dell’emigrazione italiana, Sette Città 2025).

La prima grande caccia alle streghe comuniste (1919-1920) spinse il governo statunitense a utilizzare le leggi speciali dell’appena concluso periodo bellico, in particolare quella sul Literacy Test (1917). Questa disposizione prevedeva l’aumento della tassa d’ingresso negli Stati Uniti e il rinvio di persone con difetti fisici o mentali, nonché di alcolizzati, poligami, anarchici e rivoluzionari di qualsiasi tipo. Inoltre stabiliva che non potesse entrare chi, con più di 16 anni, non fosse capace di leggere in inglese o in qualsiasi altra lingua. Ben presto, però, si cercò qualcosa di ancora più efficace. Nel 1921 fu introdotto l’Emergency Quota Act, che restringeva gli ingressi. Nel 1924 fu la volta dell’Immigration Act, che proibiva l’immigrazione dall’Asia e dall’Africa, istituiva la Border Patrol per controllare gli ingressi alle dogane portuali (non vi erano in quel momento problemi ai confini di terra) e stabiliva che l’entrata fosse riservata a chi aveva il visto di un consolato statunitense. Nel 1929 le quote per ogni gruppo di immigrati furono ulteriormente ridotte e soprattutto legate al censimento del 1920, quando gli immigrati erano già calati di numero.

L’attuale strategia di controllo degli ingressi è diversa da quella di un secolo fa: oggi sono considerati pericolosi gli immigrati dell’America latina e non quelli europei. Inoltre la loro pericolosità non è imputata all’adesione politica, ma all’ingresso illegale e all’aver aperto la strada alle gang dei rispettivi paesi di origine. Già durante le sue prime due campagne presidenziali Trump ha biasimato quella che ha definito l’immigrazione “criminale”. Nell’ultima ha trasformato la battaglia contro di essa nel perno del proprio programma, puntando sulla rabbia dei “bianchi poveri” e la paura delle precedenti generazioni immigrate. Come si vede dai risultati elettorali, la nuova immigrazione dall’America latina e dai Caraibi non è amata dagli ispanofoni che sono negli Stati Uniti da tempo. Per essi, come per i bianchi poveri, i nuovi arrivati sono concorrenti sul mercato del lavoro e aumentano delinquenza e disordine, causando danni nei quartieri più miseri.

Grazie al supporto popolare, la lotta contro l’“invasione” dei nuovi migranti è senza requie: rastrellamenti, deportazioni (anche di persone entrate legalmente), rifiuto di concedere la cittadinanza a chi nasce sul suolo statunitense ma non ha almeno un genitore che ne sia già cittadino, rifiuto di accettare i profughi. Sono inoltre rafforzate la vigilanza alle frontiere, con il Messico e con il Canada, e le prerogative dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE), l’agenzia federale dipendente dal Dipartimento della Sicurezza Interna. Al contempo l’amministrazione Trump propone ai concittadini il completo dominio sulle Americhe, promettendo, come nel secolo scorso, di abbandonare gli altri scenari geopolitici e di ridurre la spesa militare e diplomatica. 

In questo il nuovo presidente ha ancora una volta l’appoggio dei concittadini. Nei nostri anni Venti come nel medesimo decennio del Novecento gli statunitensi vorrebbero rinchiudersi nel proprio continente, ovviamente posto sotto il loro completo dominio, e praticarvi una sorta di autarchia economica, di qui i dazi. Inoltre vorrebbero meno immigrati e più controllo su di essi. Spererebbero infine in meno spese militari, diplomatiche e sociali, quindi in meno guerre e in meno assistenza ai profughi. In entrambi i casi spingono a tale scelta lo choc delle di poco precedenti pandemie (la Spagnola nel 1918-1920; il Covid-19 nel 2019-2021) e i precedenti conflitti: la Grande guerra vede gli Stati Uniti impegnati nel 1917-1918 con oltre 100.000 defunti; il conflitto afghano provoca poche morti statunitensi, ma dura dal 2001 al 2021. Inoltre in entrambi i secoli i capitalisti statunitensi vogliono giocare partite economiche azzardate. Si rammentino le speculazioni finanziarie dei “Roaring Twenties”, che portarono al crollo del 1929, e si pensi alla scommessa odierna sulle criptovalute. 

Un carattere di fondo della storia degli Stati Uniti

Potremmo fermarci e decretare che il 2025 è una riedizione del 1925, ma il discorso sugli anni Venti negli Stati Uniti dall’Ottocento a oggi è ancora più complesso. Per affrontarlo meglio dobbiamo tornare alle origini della Repubblica statunitense. Gli Stati Uniti nacquero il 4 luglio 1776, quando alla Convenzione di Filadelfia s’incontrarono i rappresentanti delle 13 colonie britanniche stanche di una madrepatria lontana e tirannica. La definitiva separazione fu ratificata con il Trattato di Parigi del 1783. Nei successivi decenni la nuova nazione costruì la propria infrastruttura politico-amministrativa e vagliò come proteggersi dalle minacce europee, sentendosi accerchiata dai domini britannici a nord (quelli che poi formarono il Canada) e da quelli spagnoli a sud e sud-ovest (dalla Florida alla California, passando per l’attuale sud-ovest statunitense). Nel 1803 l’avvio delle guerre napoleoniche permise a Thomas Jefferson di comprare da Napoleone un enorme territorio (Louisiana Purchase), che si estendeva da New Orleans ad aree oggi canadesi, lungo il corso del Mississippi. Non paghi nel 1812 gli Stati Uniti invasero le colonie britanniche in Canada. Furono, però, respinti e truppe nemiche sbarcarono sul territorio statunitense, incendiando Washington e minacciando New Orleans nel 1814.

Alla fine la guerra si risolse in un pareggio con il trattato di Gand del 24 dicembre 1814, ma la notizia arrivò oltre oceano nel mese successivo, quando il generale Andrew Jackson aveva liberato New Orleans. Poco dopo finirono anche le guerre napoleoniche e al termine di esse decine di migliaia di soldati britannici smobilitati decisero di migrare oltre oceano. Molti andarono in Canada o nelle neonate colonie australiane, ma tanti optarono per gli Stati Uniti. Questi ultimi, all’arrivo si trovarono quindi di fronte antichi nemici. Nel 1819 cercarono di limitare gli arrivi con lo Steerage Act, che prevedeva la netta riduzione del numero dei passeggeri sulle navi. Tale strategia non riuscì pienamente, mentre si palesava la paura dell’arrivo di cattolici irlandesi e inoltre si attribuivano ai migranti le epidemie che colpivano la nazione, per esempio quella di febbre gialla del 1820 a Savannah in Georgia. L’insieme di questi timori preparò l’esplosione di sentimenti “nativistici”, cioè anticattolici e antimigranti, negli anni Trenta.

Nello stesso lasso di tempo la nazione vide affermarsi un nuovo modello di politica estera e interna. Il secondo e il terzo decennio dell’Ottocento furono politicamente dominati dal Partito Repubblicano di Thomas Jefferson e in particolare da James Monroe, segretario di Stato dal 1811 al 1817 e presidente dal 1817 al 1825. Monroe dichiarò nel messaggio presidenziale del dicembre 1823 che gli Stati Uniti non si interessavano a quanto accadeva in Europa: questa dunque non doveva più intervenire in America Latina. Il Regno Unito accettò, perché pensava che la dichiarazione fosse soprattutto antispagnola, e non si oppose alla possibilità, più tardi concretizzatasi, che l’America Latina divenisse il “cortile” degli Stati Uniti. La cosiddetta Dottrina di Monroe è ancora oggi uno dei temi di politica estera più discussi negli Stati Uniti e Trump l’ha rilanciata, proponendo d’includere nel cortile il Canada e la Groenlandia, così da controllare l’Artico.

Alla fine del secondo mandato di Monroe, il generale Jackson si presentò alle presidenziali, ma non fu eletto. Preparò meglio le successive elezioni e presiedette gli Stati Uniti dal 1829 al 1837. Non possiamo considerare la sua presidenza come un frutto degli anni Venti, visto che per gran parte si svolse nel decennio successivo. Tuttavia negli anni Venti impose un nuovo modello di governo. Non appena entrato nella Casa Bianca, Jackson cacciò tutti gli uomini del Partito Repubblicano dall’amministrazione pubblica e impose lo “spoils system”. Come spiegò un suo senatore, William Marcy, dopo le elezioni al vincitore dovevano andare le spoglie del vinto.

Non è il caso di insistere sui paralleli con il presente, che comunque sono notevoli: Jackson infatti fu il primo presidente “populista”. Pare invece più importante sottolineare come lo stesso sviluppo iniziale della Repubblica statunitense fece sì che isolazionismo e chiusura agli immigrati, quanto meno quelli ritenuti pericolosi, siano connaturati alla natura della nazione sin dai suoi inizi. L’isolazionismo ha comportato nel passato catastrofi non indifferenti: abbiamo ricordato la crisi del 1929 e la Seconda guerra mondiale; vale la pena di menzionare come il populista Jackson erose l’accordo nazionale tra Nord e Sud preparando così la Guerra civile del 1861-1865. Dopo ognuna di queste crisi, nell’Otto come nel Novecento, gli Stati Uniti si sono riaperti al mondo esterno e hanno cercato d’incrementare la popolazione, accettandovi i migranti. Quando, però, le guerre e le pandemie hanno causato difficoltà, gli statunitensi sono tornati a preferire chi punta sull’autarchia, anche demografica. I nostri anni Venti riecheggiano dunque veramente quanto accaduto nei secoli passati e si sono mossi verso uno degli estremi di questo ciclico chiudersi, aprirsi, poi richiudersi e quindi riaprirsi. Questa spiegazione non ci consola. Però, non deve essere dimenticata, quando e se riprenderà l’oscillazione verso l’altro estremo del ciclo. Noi europei tendiamo a considerare l’Occidente come un tutt’unico, un’Europa estesa oltre i confini del Vecchio Mondo. L’Occidente invece è un insieme politico, culturale e geografico che nel tempo è cambiato e ha compreso o escluso più realtà, come ci ha mostrato Tiziano Bonazzi (Quale Occidente, Occidente perché, Rubbettino 2005). Se l’Occidente è l’erede dell’Europa, gli Stati Uniti sono nati distaccandosi da quest’ultima e nell’Ottocento hanno asserito con forza che il Vecchio Mondo doveva tenersi lontano dal Nuovo. A tale dichiarazione di principi sembrano oggi far nuovamente riferimento e dunque quanto vediamo è semplicemente il riemergere di una costante della storia statunitense.

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