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I peccati della carne e la difesa dell’ambiente

Le azioni per frenare il riscaldamento globale coinvolgono le organizzazioni intenazionali, gli stati, le istituzioni e le persone. Steve Morgan riflette sulla possibiità di un cambiamento dei paradigmi alimentari, mediante una riduzione dei consumi di carni comprimendo così le emissioni di gas serra che sono prodotti in abbondanza dagli allevamenti. Una battaglia in salita, perché le popolazioni in uscita dalla fame e dalla povertà danno una forte impulso ai consumi carnei.

Si stanno moltiplicando gli allarmi in tema di riscaldamento globale. Vari indicatori fanno oramai temere che l’obbiettivo di limitare l’aumento della temperatura del pianeta entro 1,5 gradi centigradi non possa essere raggiunto. Nei giorni scorsi, secondo un rapporto dell’Organizzazione Metereologica Mondiale (Wmo) reso pubblico a fine ottobre, l’emissione di gas serra è ulteriormente aumentata nel 2020, nonostante il rallentamento delle attività industriali e di trasporto. Gli impegni di molti stati in termini di controllo delle emissioni vengono disattesi; alla COP 26 (Conferenza sul Cambio Climatico) di Glascow sono rimasti vuoti i seggi di pezzi da novanta come Xi Jinping e Putin, e le prudenti conclusioni stonano con l’urgenza dei problemi. Si moltiplicano inoltre gli eventi metereologici straordinari, e l’opinione pubblica inizia finalmente a percepire l’urgenza di mettere mano a politiche efficaci di controllo delle emissioni. Molto ci si attende dalla tecnologia, dalla cosiddetta transizione energetica verso fonti rinnovabili, dalla possibilità di “catturare” i gas prima che contribuiscano a rafforzare l’effetto serra, dai mutamenti di comportamenti degli otto miliardi di terrestri, avviati ad essere dieci alla metà del secolo. Il Rapporto finale del VI ciclo di analisi dell’IPCC (International Panel on Climate Change), previsto per il prossimo anno, darà ulteriori certezze circa il procedere del cambiamento climatico, e ridurrà ulteriormente la credibilità dei pretesti avanzati per rallentare le azioni urgenti da intraprendere.

Alimentazione e gas serra, il paradigma ambientalista

Tra i numerosi e complessi argomenti che confluiscono nella “questione ambientale” c’è, naturalmente, l’aspetto comportamentale delle popolazioni, con riferimento ai modi di vita, ai consumi, alla generazione di rifiuti inquinanti, al rispetto dell’ambiente. Mentre si può presumere relativamente agevole l’introduzione e l’accettazione di nuove tecnologie – una volta che queste siano state inventate e sperimentate – non altrettanto può dirsi per il cambiamento dei comportamenti collettivi, spesso profondamente radicati nella società. Si consideri il cambio dei consumi alimentari che hanno un diretto impatto sul territorio e sull’ambiente, e che generano una quota importante delle emissioni di gas serra responsabili del riscaldamento globale. Il ragionamento è questo: la produzione di carne, particolarmente quella dei ruminanti (bovini in testa) è responsabile della metà delle emissioni di gas metano (una insidiosa componente del totale dei GHG) e di altri gas nell’atmosfera. Una vigorosa transizione alimentare verso diete povere di carni – soprattutto quelle rosse – determinerebbe un abbattimento di questi gas, oltre a notevoli benefici per l’ambiente e per la salute. 

Alcuni dati permettono di articolare il ragionamento sopra delineato. Anzitutto va ricordato che dei 130 milioni di kmq di terre emerse non coperte da ghiacci, il 12% è occupato da terre coltivate e il 37% da pascoli: insomma circa la metà della superficie del pianeta è impegnata da attività il cui fine ultimo è quello di nutrire l’umanità. Se si scompone l’emissione di GHG secondo la fonte, si stima che il 25% deriva dalla produzione di elettricità e di altre fonti di calore; il 21% dall’industria, il 14% dai trasporti, il 24% dall’agricoltura, il 16% ha altre varie origini. Sono valori basati su complicatissime stime e su dati spesso incerti, ma che consentono di ipotizzare che le emissioni dovute alla necessità di nutrire l’umanità si aggirino attorno a un quarto delle emissioni globali. Una quota importante di questo quarto (più della metà) proviene dai prodotti animali, in primis dalla zootecnia (prevalentemente bovini, ovini e ruminanti in genere) mentre il residuo è dovuto alle colture vegetali. Inoltre la zootecnia è responsabile di circa la metà delle emissioni di metano, dovuta alla fermentazione enterica di miliardi di ruminanti, ed è la principale fonte di protossido di azoto, due gas ad effetto serra molto potenti, in aggiunta a quello predominante dell’anidride carbonica. 

I consumi di carne nel Mondo

Negli ultimi sessant’anni, la produzione di carne si è quintuplicata (Figura 1), da 70 milioni a 350 milioni di tonnellate, mentre la popolazione del mondo si è accresciuta di due volte e mezza, con un conseguente raddoppio del consumo pro-capite. La maggioranza delle popolazioni contadine dell’Italia e del Mediterraneo, come ben si sa, fino ai primi decenni del secolo scorso, mangiavano carne solo nei giorni festivi, come avviene oggi nelle popolazioni più povere dell’Asia e dell’Africa. C’è stata però, nel corso del tempo, una forte trasformazione nella composizione della produzione; nel 1961 al primo posto erano i bovini (41% della produzione); le carni di maiale venivano al secondo posto (35%) e il pollame al terzo (13%); il residuo (11%) era composto soprattutto da ovini. Nel 2018 è il maiale al primo posto, con percentuale invariata; si è dimezzata la quota dei bovini (21%) e triplicata quella del pollame (37%). Questi valori complessivi celano la varietà dei modelli di produzione nei diversi paesi, come messo in rilievo dalla Figura 2.

Cambiare i modelli alimentari è possibile, ma lento e difficile 

Il raddoppio dei consumi carnei avvenuto negli ultimi sessant’anni è in stretta relazione con la crescita del reddito pro-capite, come è posto chiaramente in evidenza nella Figura 3. Il paradigma ecologico auspica che la relazione possa, se non rovesciarsi, almeno appiattirsi e che, in futuro, i consumi carnei diminuiscano sulle mense degli abitanti del pianeta. Questa inversione avrebbe effetti benefici sia per l’ambiente – minori emissioni e minore uso del suolo – sia per la salute, poiché è provato che diete meno ricche di carni (soprattutto quelle rosse) siano più sane, e contrastino molte delle patologie tipiche delle popolazioni o dei gruppi di popolazione più abbienti. Sono numerosi, e sempre più influenti, gruppi di opinione di diversa origine, che propugnano questa inversione. Ma le difficoltà che questa possa avvenire entro un orizzonte finito, sono moltissime.

Contrastano, in primo luogo, preferenze e costumi alimentari profondamente radicati nelle popolazioni che possono cambiare solo con gradualità e lentezza, e sui quali poco possono le politiche dei governi e delle amministrazioni. Inoltre, nella maggioranza delle popolazioni a basso reddito i consumi di carne sono modestissimi, ed un aumento della componente carnea sulle mense produce vantaggi per la salute. E infatti, come testimoniato dalla Figura 3, le preferenze di consumo a favore della carne si impennano quando le popolazioni si sollevano oltre la soglia della povertà estrema. E la loro spinta sarà assai potente, se si tiene conto che esiste un miliardo di abitanti del pianeta sottoalimentati, che lo sviluppo dovrà sollevare dal miserabile stato di nel quale si trovano. Infine nei paesi grandi produttori di carne, le lobby sono politicamente molto potenti, e in grado di contrastare fortemente le spinte ad una trasformazione “ambientalista” dei modelli nutritivi dell’umanità.