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Il destino demografico dell’occidente tra quantità e qualità

L’Occidente sta entrando in una fase di declino demografico che continuerà per tutto il resto del secolo.  Ma la questione centrale non è l’essere in valore assoluto tanti o pochi. A fare la differenza nel mondo in cui vivremo nei prossimi decenni, come evidenzia Alessandro Rosina in questo contributo, è soprattutto come verranno gestiti due rapporti relativi: quello tra le diverse aree del pianeta e quello tra le diverse generazioni.

L’ascesa demografica dell’Occidente

La combinazione di tre grandi rivoluzioni nate in Europa (scientifica, industriale e demografica) consentono oggi all’umanità di poter vivere più a lungo, di aver accesso a maggiori risorse materiali, di usare tecnologie sempre più efficienti per comunicare e viaggiare, di aver più ampie scelte sul proprio destino sociale. Si tratta di conquiste che i Paesi occidentali hanno potuto sperimentare per primi e che hanno consentito di ottenere un vantaggio competitivo rispetto al resto del mondo. Tecnologia più avanzata e maggiori risorse economiche hanno favorito, in una prima fase, la crescita della popolazione grazie alla riduzione della mortalità (prima infantile e poi nelle fasi successive di vita). A sua volta la crescita demografica ha aumentato la forza lavoro ma ha anche stimolato ulteriore miglioramento tecnologico come risposta alla tensione tra popolazione e risorse. Ha aumentato la necessità di relazioni e commercio con il resto del mondo. Ha inoltre alimentato l’emigrazione verso altri continenti. Il riscontro maggiore di questo processo più che sul peso demografico dell’Europa o dei Paesi occidentali sul totale degli abitanti del Pianeta lo si può ottenere dal numero di coloro che usano l’inglese come strumento per comunicare.

La demografia è quindi parte integrante dei meccanismi che hanno portato alla crescita dell’Occidente nello scenario mondiale, ma il peso stesso della popolazione è tra i maggiori fattori che ne hanno consolidato il ruolo. Come sottolinea Massimo Livi Bacci in “Storia minima della popolazione del mondo”, due Paesi con stessa ricchezza pro-capite tendono ad avere una popolazione che all’interno dei confini vive mediamente in condizioni di analogo benessere materiale. Ma se il primo Paese ha cinque volte la popolazione del secondo, può contare molto di più nelle relazioni con gli altri Paesi. Se gli Stati Uniti d’America improvvisamente si trovassero con una popolazione dell’ammontare di quella della Svizzera, avrebbero molta meno possibilità di usare le proprie risorse economiche per rapporti di aiuto verso altri Paesi, iniziative internazionali, investimento su nuove tecnologie, oltre che forza militare. È, infatti, la combinazione tra livelli di ricchezza, dimensione della popolazione, attrazione di talenti esterni, che consente poi di aver anche un ruolo più rilevante verso l’esterno.

Il declino demografico dell’Occidente

L’Occidente si trova ora in una nuova fase della rivoluzione demografica: quella in cui, dopo la riduzione della mortalità, la fecondità non solo è diminuita ma si è portata su valori inferiori a quelli del rimpiazzo generazionale (che corrisponde, come ben noto, a circa due figli per donna). Il continente europeo, nel suo insieme, è crollato sotto tale soglia a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. L’attuale dato dell’Unione europea è poco superiore a 1,5. Gli Stati Uniti sono riusciti più a lungo a mantenersi vicini al valore di rimpiazzo, ma nell’ultimo decennio hanno subito una sensibile riduzione.

Come conseguenza di queste dinamiche i Paesi occidentali hanno perso la loro capacità di crescita demografica endogena per il resto di questo secolo. La persistenza di tale condizione ha come conseguenza la riduzione del loro peso sulla popolazione mondiale. Se nel secolo scorso la differenza era tra diversi ritmi di crescita nelle varie aree del mondo, nel resto di questo secolo sarà invece sempre più evidente il contrasto tra aree in (più o meno forte) crescita e aree in declino.

In questa prospettiva, l’Europa è il continente che più si sta rimpicciolendo. Se all’inizio del secolo scorso il peso sulla popolazione mondiale era superiore al 25%, oggi è inferiore al 10%. Proprio in questi anni, anche tenendo conto del contributo dell’immigrazione, tale continente sta entrando in una lunga fase discendente della curva demografica. Raggiunti i 747 milioni di abitanti, secondo le previsioni delle Nazioni Unite (con base 2019), è previsto tornare sotto 700  milioni poco dopo il 2050 e via via poi continuare a declinare. Quelle che vengono indicate come “More developed regions” (Europa, Nord America, Australia/Nuova Zelanda e Giappone) hanno di fatto esaurito la fase di crescita e sono destinate a stabilizzarsi sotto 1,3 miliardi di abitanti per poi diminuire. Nel frattempo, entro il 2050, nel resto del Pianeta si aggiungeranno altri 2 miliardi di abitanti.

Il destino demografico dell’Occidente

Gli Stati Uniti dovrebbero iniziare la propria parabola discendente dopo la metà del secolo. Ma queste proiezioni risultano ottimistiche, in particolare per il fatto che la fecondità degli USA si è ridotta in modo considerevole negli ultimi anni e la pandemia ha ulteriormente agito negativamente. Le ipotesi delle Nazioni Unite (scenario centrale) sono basate su un numero di figli per donna statunitense assestato attorno a 1,8. Ma nel 2019 risultava già sceso a 1,7 e le stime per il 2020 sono ancora più basse (1,6). Dati che hanno alimentato nel dibattito pubblico americano un’intensa discussione su cause e conseguenze del declino demografico. Nella classifica dei Paesi più popolati, dominata da India e Cina, gli USA nei prossimi decenni dovranno cedere il terzo posto del podio alla Nigeria. Entro il 2050 la Russia slitterà dal nono al 15esimo, la Germania, il Paese UE più popoloso, dal 17esimo scivolerà al 25esimo.

Ma se il rapporto relativo tra i vari Stati è in grande mutamento, c’è un altro rapporto in profonda trasformazione in questo secolo: quello tra giovani e anziani. Tale cambiamento sta interessando in modo particolare i Paesi occidentali, all’interno dei quali la popolazione più matura è in continuo aumento mentre le nuove generazioni già da tempo sono in progressivo indebolimento quantitativo. Nei Paesi più sviluppati, sempre secondo le Nazioni Unite, entro il 2050 gli over-65 arriveranno a superare gli under-25, mentre su scala globale i più giovani continueranno a essere oltre il doppio rispetto ai più anziani.

Più nello specifico, gli Stati occidentali non andranno solo incontro a una riduzione della popolazione ma al loro interno si ridurrà ancor più, in senso assoluto e relativo, la componente più dinamica, quella giovane-adulta che maggiormente alimenta i processi di sviluppo economico e innovazione.

La transizione dalla quantità alla qualità

Queste dinamiche vanno però anche viste all’interno di una transizione più ampia che porterà tutta la popolazione del Pianeta a esaurire la sua spinta alla crescita. Verso la fine del secolo il tasso di fecondità mondiale è previsto scendere attorno ai due figli per donna. I diversi tempi in cui tale processo si realizza nelle varie aree del globo fanno però la differenza. I Paesi occidentali, come abbiamo visto, hanno anticipato la fase di declino, mentre l’Africa è ancora all’apice della sua crescita. Questo significa due cose. La prima è che si passerà progressivamente dalla quantità della crescita, che ha dominato il Novecento (non solo dal punto di vista demografico), alla crescita della qualità. Ovvero diventa trainante nei processi di sviluppo più la qualità del capitale umano e la sua valorizzazione, in tutte le fasi della vita, che il peso in sé della fascia attiva. La seconda è che, però, ancora per lunga parte di questo secolo la quantità farà la differenza. Lo farà, anzi, ancor più che in passato perché i ritmi di crescita tra aree del mondo e tra generazioni non sono mai stati così divergenti. Questo, allora, significa anche che quando gli accentuati squilibri di questa fase saranno superati e la crescita della popolazione risulterà di fatto stabilizzata in tutto il Pianeta, la configurazione geopolitica sarà nel frattempo cambiata e i Paesi leader non saranno necessariamente quelli attuali. Il limite dell’Occidente è che, nel pieno di questa fase di transizione mondiale, il suo peso è quello che maggiormente si riduce. Il vantaggio è l’essere obbligato già da subito ad agire sulla leva qualitativa (formazione continua, uso delle nuove tecnologie abilitanti, capacità di mettere in relazione culture diverse, soft power, sviluppo sostenibile) che è quella che nel lungo periodo farà la differenza.

(*) Versione rivista di un articolo pubblicato da ISPI