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Promuovere la ricerca e recuperare talenti dall’estero

Conoscenza, ricerca e scienza sono essenziali per lo sviluppo della società. L’Italia ha una debolezza cui deve porre rimedio: non è abbastanza attraente per i ricercatori di altri paesi e non riesce a trattenere molti di quelli che forma nelle proprie istituzioni. Ne parlano Mario Pianta e Massimo Livi Bacci, indicando possibili rimedi, dall’adeguamento del finanziamento del comparto ricerca e università, al miglioramento del trattamento stipendiale, ad una maggiore mobilità, al ringiovanimento del personale. La soluzione di questi problemi passa per un impegno di lungo periodo del governo, ma i soldi del PNRR non  bastano.

Conoscenza, ricerca e scienza sono essenziali per lo sviluppo della società. L’Italia ha una debolezza cui deve porre rimedio: non è abbastanza attraente per i ricercatori di altri paesi e non riesce a trattenere molti di quelli che forma nelle proprie istituzioni. Negli ultimi dieci anni i flussi netti in uscita hanno avuto un’accelerazione, e la mobilità di breve periodo si è spesso trasformata in permanente. Sulla base dei dati Istat sulla sede di lavoro di chi ha ottenuto il dottorato di ricerca, si può stimare che nel periodo 2008-2019 circa 14 mila ricercatori, residenti in Italia prima dell’inizio del dottorato, si siano trasferiti all’estero (MPRA – L’emigrazione dei ricercatori italiani). Pochi sono, invece, gli stranieri con un dottorato che si sono trasferiti in Italia e operano nel settore della ricerca. La percentuale dei PhD italiani che risiede e lavora all’estero è passata dal 6% di chi ha ottenuto il PhD nel 2010 al 13% della coorte del 2018 (ISTAT – L’inserimento professionale dei dottori di ricerca). Si è determinato così un crescente saldo negativo nella mobilità dei talenti, che indebolisce il nostro paese nei confronti di altri paesi con analogo grado di sviluppo. 

La mobilità dei ricercatori: un saldo negativo

I dati Ocse sugli autori di pubblicazioni scientifiche documentano la mobilità internazionale sulla base dei cambiamenti nelle istituzioni degli autori; da quell’analisi risulta che tra il 2002 e il 2016 gli autori che avevano un’affiliation italiana e sono passati a un’istituzione all’estero, al netto degli spostamenti in senso opposto, sono stati 11 mila (OECD iLibrary – pag 128-129). Ad esempio, i trasferimenti verso gli Usa sono stati 10 mila contro 7.800 rientri di ricercatori, e quelli verso il Regno Unito 5.800, contro 4.100 rientri. Nel 2016 le uscite nette dal paese sono state proporzionalmente le più alte tra i paesi della Ue, con l’eccezione di Grecia, Spagna, Slovenia e Lituania. Questi flussi hanno l’effetto di impoverire il sistema ricerca, le università e le imprese italiane, e di fornire ad altri paesi i benefici di un personale molto qualificato, i cui elevati costi di formazione sono stati sostenuti in Italia, privando il paese di una parte delle sue migliori energie sociali e culturali.

Uno studio recente ha analizzato dinamiche e determinanti di questi flussi. L’emigrazione dei ricercatori italiani è il risultato della riduzione dei finanziamenti per la ricerca e per l’università, e delle limitate opportunità offerte dal paese nel settore pubblico e privato. Il futuro – per quanto riguarda le capacità di ricerca e di sviluppo delle conoscenze – dipende molto dall’inversione delle tendenze che si sono affermate nel decennio passato.Un primo obiettivo politico concreto può ravvisarsi nella promozione del rientro stabile dall’estero di un numero consistente di ricercatori nei prossimi anni (ad esempio: 5.000 nei prossimi 5 anni). Per raggiungere tale obiettivo è necessario un aumento delle risorse generali per il sistema ricerca – anche per evitare un’accelerazione dei trasferimenti all’estero nei prossimi anni – e interventi specifici per favorire il loro rientro, che non può prescindere dal necessario   rafforzamento delle strutture nelle quali la ricerca viene effettuata (laboratori, reti informatiche, biblioteche).

Riportare i finanziamento ai livelli pre-crisi, ma il PNRR non basta

Per quanto riguarda lemisure generali, si dovrebbe agire sia con un recupero della spesa per la ricerca, sia con interventi mirati a riequilibrare il turnover negativo del personale. Un obiettivo minimo può individuarsi nel riportare il sistema dell’università e della ricerca pubblica del paese alla sua dimensione precedente la crisi del 2008, in termini di spesa per ricerca pubblica e università, con un aumento strutturale dell’ordine di 2 miliardi di euro l’anno, da destinare soprattutto per il fondo di finanziamento ordinario delle Università e degli enti pubblici di ricerca (FFO, Fondo di Finanziamento Ordinario, e FOE, Fondo Ordinario finanziamento enti di Ricerca), con una distribuzione di risorse a tutto il sistema, limitando gli interventi premiali. 

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) rappresenta un’occasione importante, con i 30,88 miliardi per la Missione 4, Istruzione e ricerca. Tuttavia, di queste risorse, soltanto 7,6 miliardi, distribuiti in sei anni, sono destinati specificamente all’Università e alla ricerca pubblica (escludendo il trasferimento di tecnologia alle imprese).1

Tuttavia non è chiaro se queste risorse siano effettivamente aggiuntive rispetto a quelle indicate negli attuali bilanci di previsione, o siano già in parte in questi comprese.

Anche considerando tutte queste risorse, si raggiunge un aumento di spesa di 1,2 miliardi l’anno, limitato a sei anni, ancora inadeguato a riportare la spesa italiana ai livelli precedenti al 2008, in particolare per quanto riguarda il reclutamento del personale. Senza questo recupero, sarà difficile assicurare una buona funzionalità del sistema della ricerca pubblica e l’emigrazione dei ricercatori potrebbe continuare anche in presenza di incentivi specifici al “ritorno dei talenti”. 

Università e ricerca, un mondo invecchiato

L’altra linea d’intervento riguarda ilturnover del personale universitario, attualmente insufficiente. I professori ordinari, gli associati e i ricercatori nell’università italiana sono 55.400 (dati del 2019); rispetto al 2009 si è registrato un calo di 11 mila unità. In parallelo sono stati introdotti 14 mila assegnisti di ricerca, che non sono attualmente compresi nel personale, hanno salari estremamente bassi e hanno alimentato in modo abnorme il precariato nella ricerca. Data l’elevata età media del personale (Figura 1), il rinnovo del turnover è essenziale: nel 2018, 5.000 docenti avevano più di 65 anni e 7.600 avevano tra 60 e 65 anni (ANVUR – Rapporto Biennale sullo Stato del Sistema Universitario e della Ricerca 2018). Nei prossimi cinque anni sono quindi necessarie 5.000 nuove entrate solo per mantenere i livelli attuali. Più in generale, appare importante ridimensionare drasticamente il ricorso agli assegni di ricerca e consentire una forte espansione dei ricercatori (di tipo B) con prospettive di stabilizzazione – che hanno un costo intorno ai 50 mila euro l’anno per le università – per un totale di almeno 15 mila unità in cinque anni. Sarebbe importante inoltre una riforma delle carriere, riducendo gli anni di precariato dei giovani ricercatori italiani.

In questo contesto, alcune misure possono indirizzarsi in modo specifico ai ricercatori italiani attualmente all’estero. 

Una prima linea d’intervento riguarda i canali di reclutamento. All’interno dei meccanismi di reclutamento del personale universitario (ricercatori,  professori associati e ordinari) si potrebbe inserire una quota significativa di posizioni riservate a chiamate dirette o a concorsi riservati a candidati attualmente all’estero – italiani e di altri paesi. Un canale di reclutamento parallelo, già in parte utilizzato, riguarda i vincitori di progetti ERC (European Research Council). Dal 2007 al 2018 gli italiani vincitori di finanziamenti ERC sono stati 829 e di questi 387 lavoravano all’estero; il rientro in Italia di tali vincitori è molto limitato. I ricercatori italiani vincitori di tali progetti potrebbero essere incentivati a rientrare in Italia se più università fossero messe in condizione di offrire condizioni migliori di ricerca e salari più alti.

Si potrebbe inoltre creare un fondo ad hoc del MIUR per incentivare il reclutamento, raddoppiandolo, attraverso i progetti ERC. Il fondo potrebbe finanziare i candidati italiani che non sono risultati vincitori, ma che hanno ottenuto valutazioni positive (ad esempio, in numero pari a quello dei candidati finanziati dall’ERC). In questo modo, e per il periodo sopra citato, si potrebbero offrire, nell’arco di cinque anni, altre 800 posizioni alle stesse condizioni dei progetti ERC. Se il tetto al finanziamento individuale triennale fosse di 150 mila euro, la spesa sarebbe dell’ordine di 120 milioni di euro in cinque anni. Interventi analoghi potrebbero essere definiti per il comparto degli Enti Pubblici di Ricerca.

Riattivare la mobilità e adeguare i salari

Un’altra via per rendere più efficiente il comparto della ricerca passa per una maggiore mobilità del personale, oggi assai bassaAccanto ai canali di reclutamento riservati ai ricercatori all’estero, e anche allo scopo di facilitare il loro assorbimento,  aumentando l’efficienza complessiva del sistema, vanno incentivati i meccanismi di mobilità tra università e istituzioni di ricerca anche all’interno del paese. Occorre semplificare e incentivare il trasferimento da un’università all’altra, o tra università e enti pubblici di ricerca, offrendo incentivi finanziari agli enti e ai ricercatori coinvolti. Le regole attuali prevedono solo lo ‘scambio’ tra persone con lo stesso ruolo, o ‘prestiti’ su convenzione di docenti da un’università all’altra, con un limite di 5 anni; tali norme potrebbero essere semplificate e estese a una casistica più ampia.

Sarebbe infine auspicabile favorire una maggiore circolazione internazionale degli studiosi con periodi, anche lunghi, di doppia afferenza a istituzioni accademiche e di ricerca italiane e non italiane.

Un fattore che scoraggia il rientro dei ricercatori italiani è la forte differenza tra gli alti salari all’estero e i bassi salari italiani. Un intervento in questa direzione è già stato effettuato dal governo: i ricercatori che rientrano in Italia dopo due anni all’estero pagano, per quattro anni, solo il 10% dell’Irpef dovuta. Per sostenere i bassi salari interni, e ridurre l’incentivo a trasferirsi all’estero, un semplice intervento in questo campo potrebbe riguardare l’eliminazione del cuneo fiscale per i ricercatori italiani. Tali risorse non sarebbero a carico del MIUR o delle università. 

Un rilancio di questo tipo della ricerca italiana richiederebbe risorse finanziarie compatibili con la situazione della finanza pubblica del paese. Tali interventi sono strategici, stante la debolezza strutturale della ricerca e della tecnologia nel settore privato. E’ necessario che il sistema dell’università e della ricerca recuperi competenze attualmente disperse, rilanci lo sviluppo della conoscenza e della formazione superiore, e costruisca una massa critica adeguata al peso economico e al  ruolo internazionale del paese.

Un incontro su questi temi, con la partecipazione della Ministra dell’Università e della Ricerca Maria Cristina Messa, del Direttore della Scuola Normale Superiore Luigi Ambrosio e degli autori è stato organizzato il 9 giugno scorso. Video qui sotto.


Note

1 Le voci principali delle spese per il PNRR nel campo dell’università e della ricerca comprendono:

  • 500 milioni per borse di studio per l’università
  • 500 milioni per didattica e competenze universitarie avanzate
  • 430 milioni per l’estensione dei dottorati di ricerca
  • 1800 milioni per il PNR e i PRIN (Progetti di ricerca di interesse nazionale)
  • 600 milioni per progetti di giovani ricercatori, 
  • 1600 milioni per partenariati tra Università, centri di ricerca e imprese
  • 1580 milioni per potenziare le infrastrutture di ricerca
  • 600 milioni per i dottorati innovativi e gli sbocchi nelle imprese.

Altri 500 milioni sono previsti per attività di ricerca nella missione Salute (Missione 6). Alcuni altri fondi sono compresi nel programma REACT-EU (Recovery Assistance for Cohesion and the Territories of Europe) e nel Fondo complementare.

Per saperne di più

miur.it – Focus “Il personale docente e non docente nel sistema universitario italiano – a.a 2019/2020”

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