La distanza culturale, si dice, può ostacolare l’integrazione degli stranieri. Ma cos’è esattamente la distanza culturale? Gustavo De Santis, Mauro Maltagliati e Alessandra Petrucci provano a misurarla, con un metodo originale. Nonostante la scarsità di buoni indicatori empirici, i risultati appaiono robusti e rivelano tre cose: 1) all’interno di tutti i gruppi, Italiani compresi, l’eterogeneità è notevole; 2) gli stranieri con provenienza diversa sono diversi tra loro e 3) la lunga permanenza in Italia sembra favorire la convergenza culturale degli stranieri.
Si parla spesso di distanza culturale, soprattutto quando si cerca spiegare ciò che non si riesce a capire nei comportamenti umani, ma il concetto rimane alquanto vago. Quando si parla di gruppi poi (nel nostro caso gruppi nazionali: italiani e stranieri residenti in Italia) ci si basa spesso su un presupposto che è probabilmente falso, quello dell’omogeneità interna.
Non troppo chiaro, vero? OK, cerchiamo di spiegarci con un esempio. Consideriamo la figura 1 e ammettiamo che i cinque cluster culturali che abbiamo formato, da A a E, “abbiano senso”, ovvero che identifichino correttamente cinque diverse tipologie di orientamento culturale (pur se si ignorano le caratteristiche culturali di ciascuna di queste tipologie, che del resto, in una prima fase almeno, non servono. Ma dopo …).
Sull’asse y si leggono le proporzioni: tra gli Italiani (del Sud e delle due isole principali) si trova un 30% di individui di tipo A, ~25% di tipo B, … ~17% di tipo E. Il fatto che le proporzioni siano sempre molto vicine ci induce a concludere che i due gruppi (di Italiani) sono molto simili tra di loro.
Di contro, i Cinesi residenti in Italia hanno una distribuzione tra tipologie nettamente distinta: solo il 4% circa è di tipo A, il 28% di tipo B, … e ben il 45% di tipo E. I ‘Musulmani’ (con cui, in mancanza di informazioni individuali sugli orientamenti religiosi si intendono qui gli immigrati provenienti da paesi prevalentemente musulmani) sembrano essere una via di mezzo, caratterizzati come sono da una relativamente elevata quota di persone assimilabili alle tipologie B (~30%) e C (~31%).
Due cose emergono da questa analisi:
- Non sembra potersi parlare di “cultura nazionale”, nel senso di netta prevalenza di una specifica tipologia. Ogni gruppo nazionale è eterogeneo, e ha (almeno) cinque di queste tipologie. Ciò che cambia è la proporzione dei membri di quel gruppo (nazione, area di origine, …) più o meno identificabili come appartenenti a ciascuna tipologia.
- Sulla base di queste proporzioni, si può tentare una stima della distanza relativa tra i gruppi (nazionali).
Una applicazione al caso italiano (2011-2013)
I gruppi e le proporzioni della Figura 1 derivano da una elaborazione dei dati di due rilevazioni Istat, simili tra loro, condotte in Italia tra il 2011 e il 2013, una focalizzata sugli stranieri e l’altra relativa alla popolazione generale (De Santis, Maltagliati, Petrucci 2021). Una sintesi dei risultati principali è presentata nella Figura 2, che usa la distribuzione tra tipologie per calcolare distanze (euclidee: in pratica il teorema di Pitagora applicato a N dimensioni) tra gruppi, e poi “schiaccia” queste distanze su un piano cartesiano (in questo caso, fortunatamente, con poca perdita di informazione).
Commentiamo rapidamente la Figura 2. Gli Italiani formano un gruppo omogeneo, relativamente al contesto osservato beninteso. Emerge tuttavia un chiaro gradiente da nord a sud. Gli Italiani del nord appaiono culturalmente più vicini agli immigrati provenienti dai paesi europei confinanti o quasi (Francia, Germania, Europa centro-settentrionale). Gli Italiani meridionali, al contrario, appaiono più vicini alle altre nazionalità immigrate, a partire da quelle del bacino del Mediterraneo.
Nella Figura 2 si sono evidenziati, con chiazze di colore, paesi di regioni omogenee, come quelli dell’America Latina, o della penisola indiana. Il fatto che siano vicini, in figura, significa che i loro membri appaiono culturalmente simili, e cioè hanno una comparabile distribuzione tra le cinque tipologie culturali citate all’inizio (i cinque cluster, da A a E).
I Cinesi residenti in Italia sono il gruppo di immigrati culturalmente più lontano dagli Italiani secondo le nostre stime, il che appare coerente con la percezione generale della componente cinese in Italia, e anche con quanto emerge da altre fonti (es. ISTAT 2020).
Infine, le persone di origine straniera, ma che in seguito hanno acquisito la nazionalità italiana (IT2), si trovano in questa posizione particolare, nella mappa della Figura 2: sono un po’ staccate dagli Italiani di origine italiana, ma sono più vicine a loro di qualsiasi altro gruppo straniero che vive in Italia.
Cosa c’è dietro (o meglio, dentro) ai cluster
La costruzione dei cluster si è basata sugli 11 indicatori empirici indicati nella figura 3 (quanto spesso si usano gli oggetti indicati, o si svolgono le attività indicate, o si parla di politica). OK, OK, lo ammettiamo: non è di cultura in senso stretto che si parla qui. Si tratta piuttosto del modo di usare il tempo (soprattutto il tempo libero), che è però fortemente influenzato dalla cultura, oltre che da altri aspetti che non ci è stato però possibile tenere sotto controllo (es. risorse). Ci sarebbe piaciuto considerare anche altre variabili “culturali”, ma non è stato possibile far meglio considerata la nostra esigenza di fondere due diverse indagini, una centrata sugli stranieri (Istat 2016a) e una sulla popolazione generale (Istat 2016b).
Dalla Figura 3 si capiscono anche, sommariamente, le caratteristiche dei cluster. Ad esempio, i componenti del cluster C (possiamo definirli Avulsi?) fanno poco o nulla di tutte le attività indicate, e sono simili in questo ai membri del cluster B (Semi-avulsi), appena di poco più attivi (era il caso degli immigrati provenienti da paesi prevalentemente islamici, ricordate?).
I componenti del cluster E (Navigators) usano molto PC e navigano in internet, vanno abbastanza spesso al cinema, a sentire musica dal vivo e a ballare, ma non parlano mai di politica (i Cinesi della fig. 1). I componenti del cluster A (Attivi) sono abbastanza o molto attivi su tutti i fronti indicati, e parlano molto di politica: parecchi italiani sono così (v. ancora Fig. 1). Ci sono infine i componenti del gruppo D, gli Impegnati (o … Milipochi, visto che la loro frequenza relativa è scarsa, soprattutto fuori dall’Italia): parlano tanto di politica, si tengono decentemente informati, e disdegnano le attività tipiche della modernità (PC, internet e sale da ballo).
Permetteteci però di insistere su questo punto: in qualunque gruppo nazionale si trovano individui di tutti i cluster (cioè, di tutti i tipi indicati – alla faccia dell’omogeneità nazionale, dei “tratti tipici”, e via dicendo): è solo la loro frequenza relativa che cambia.
Cosa si ricava da tutto questo?
In primo luogo, conviene mettere in guardia i lettori da interpretazioni troppo frettolose, anche perché la nostra ricerca presenta diversi limiti in termini, ad esempio, di indicatori empirici disponibili per valutare “l’orientamento culturale” degli intervistati. I criteri di clusterizzazione sono in parte arbitrari ed è impossibile tenere sotto controllo le covariate, come ad esempio età, sesso, istruzione, e reddito. Per questi problemi, si rimanda all’articolo originale (De Santis, Maltagliati e Petrucci 2021).
Per gli aspetti di sostanza, la principale mancanza (dei dati, non dell’analisi) riguarda probabilmente l’impossibilità di comprendere il ruolo relativo del tempo e della selezione sui nostri risultati. Prendiamo ad esempio gli Italiani con origine straniera. L’acquisizione della cittadinanza italiana è un processo lungo e oneroso. Pertanto il gruppo “IT2” ha, in media, una permanenza in Italia più lunga di quella di qualsiasi altro gruppo. Il fatto che queste persone (divenute italiane successivamente) siano culturalmente le più vicine agli italiani fin dalla nascita può essere interpretato in due modi principali:
- Erano selezionate fin dall’inizio, ed è proprio questa affinità ai nativi che le ha indotte a rimanere a lungo in Italia e, infine, a diventare esse stesse italiane,
- si sono abituate gradualmente al “modo di pensare italiano”, e la loro vicinanza alla fine del processo indica che le persone possono cambiare, e lo fanno: una convergenza culturale è quindi possibile – anzi, è già in atto.
In ogni caso, le distanze culturali non sembrano costituire ostacoli insormontabili quando si tratta di integrare gli stranieri in un paese ospitante. Coloro che le evocano possono adesso iniziare anche a cercare di misurarle, se vogliono (e, ovviamente, se i dati empirici lo consentono).
Ringraziamenti
Questa ricerca ha beneficiato di due fonti di finanziamento:
1) JPI MYBL / CREW Project (Joint Programme Initiative: More Years Better Life, 2016 Call. CREW: Care, retirement and wellbeing of older people across different welfare regimes». MIUR Decree: n. 3266/2018; Official Bulletin no. 32 7. Feb 2019), and
2) MIUR-PRIN 2017 (Ministero dell’università, Prot. N. 2017W5B55Y).
Per saperne di più
De Santis G., Maltagliati M., Petrucci A. (2021) So Close, So Far. The Cultural Distance of Foreigners in Italy. Social indicators Research, online first https://link.springer.com/article/10.1007/s11205-021-02676-w
ISTAT (2016a) Condizione e integrazione sociale dei cittadini stranieri: file per la ricerca,
ISTAT (2016b) Aspetti della vita quotidiana: file per la ricerca,
ISTAT (2020) Identità e percorsi di integrazione delle seconde generazioni in Italia Cultural identity and integration of second generations in Italy, Rome.