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E Brexit sia!

Dopo tre anni di un animato dibattito politico che ha raggiunto vette decisamente surreali, anche per noi italiani, la scelta degli elettori del Regno Unito di uscire dall’Unione Europea è stata formalmente ratificata. Cosa concretamente questo comporterà per le migrazioni europee da e per il Regno Unito non è ancora definito, ma, come ci spiega Corrado Bonifazi,  è facile prevedere che questo sarà uno dei punti più controversi delle trattative in corso.

Brexit e migrazioni

Il principio della libera circolazione all’interno dell’Unione è diventato con gli anni uno dei cardini della costruzione europea e trova nella “Cittadinanza europea” e nell’abolizione dei controlli di frontiera all’interno dell’area di Schengen le sue manifestazioni più evidenti. Dall’altro lato, non c’è dubbio che proprio la volontà di controllare e ridurre i flussi intra-europei sia stata una delle armi vincenti dei leavers, che hanno proprio nell’attuale premier britannico Boris Johnson uno dei loro leader più autorevoli. Senza dimenticare che il Regno Unito è stato sempre uno dei paesi che più ha frenato nel processo di costruzione di una politica migratoria europea, cercando in ogni occasione di mantenere le proprie prerogative in questo campo, tanto da restare fuori anche dall’area Schengen. Ritenere quindi che alla fine delle trattative tra il governo di Sua Maestà e la Commissione la situazione resti immutata, come molti osservatori ritenevano possibile prima delle ultime elezioni britanniche, appare ormai poco credibile. Il rilevante successo dei conservatori ha dato infatti forza alle posizioni meno concilianti, rendendo più probabile anche per gli spostamenti delle persone una hard Brexit.

Quanto e in che modo cambierà il regime attuale è invece al momento difficile da prevedere. Non c’è dubbio che la Brexit e, in generale, la crescita di partiti e movimenti “anti-immigrati” un po’ in tutta Europa siano il segno più vistoso della crisi di un modello di gestione del fenomeno migratorio di stampo neo-liberista che in questi anni non è stato in grado di affrontare con successo la sfida che i processi di globalizzazione economica, la crisi economica e quella del debito sovrano hanno posto alle società europee. I perdenti della globalizzazione si ritrovano sicuramente tra quei ceti medi ed operai che oggi sperano di trovare una soluzione ai loro problemi anche da un maggior controllo delle frontiere. La crisi “migratoria” è quindi una delle tante crisi che oggi caratterizzano la scena europea e potrebbe trovare soluzione solo all’interno di un ripensamento complessivo delle strategie europee in campo economico e sociale. Una situazione che la pandemia in corso ha reso ancora più problematica, aumentando la difficoltà di ricercare soluzioni praticabili e condivise.

La Brexit e il sistema migratorio europeo

Quello che sicuramente rappresenta però la Brexit in campo migratorio è una battuta d’arresto, se non una inversione di tendenza, in quel processo di costruzione di un sistema migratorio europeo che è partito nei primi anni cinquanta con le trattive per la costituzione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Un processo che si è sviluppato nei decenni seguenti e che ha avuto tra i suoi momenti fondamentali: il trattato di Roma del 1957 con l’introduzione del principio della libera circolazione dei lavoratori, gli accordi di Maastricht e di Schengen, l’introduzione della cittadinanza europea e il processo di allargamento della UE. Il risultato, che oggi ci appare scontato ma che è tutt’altro che scontato, è un’area di libera circolazione, unica al mondo, che copre quasi l’intero continente. Non è un caso che se scomponiamo i dati dell’immigrazione per motivo i free movement interni all’Unione Europea sono i flussi più consistenti in quasi tutti i paesi.

La dimensione del fenomeno e i possibili sviluppi

In concreto la Brexit modificherà la situazione dei migranti europei nel Regno Unito, ma anche dei britannici che vivono in altri paesi europei. Secondo i dati riportati nell’edizione 2019 dell’Atlas of Migration della European Commission nel Regno Unito vivevano nel 2018 3.860.000 EU mobile, come vengono definiti i migranti intra-UE dalla Commissione, pari al 5,8% della popolazione totale, decisamente di più dei 2,4 milioni di migranti extra-UE (pari al 3,7% della popolazione).

Alla stessa data 900.000 britannici vivevano in un altro paese della UE o dell’EFTA: 285.000 in Spagna, 144.000 in Francia, 109.000 in Irlanda, 93.000 in Germania e così via. Sono cifre consistenti che dimostrano la delicatezza della questione e che avranno sicuramente il loro peso nelle trattative tra governo britannico e Commissione. Non va comunque dimenticato che la scelta della Brexit avviene in un contesto caratterizzato da una forte crescita dell’immigrazione: secondo i dati del Sopemi la popolazione straniera nel Regno Unito è infatti passata dai 4,2 milioni del 2008 ai 6 milioni del 2018. Un aumento del 43% che ha riguardato soprattutto i cittadini di altri paesi dell’Unione: i polacchi sono infatti passati da 500.000 a 829.000, i rumeni da 32.000 a 478.000 (con una crescita di 15 volte), gli italiani da 96.000 a 311.000, i portoghesi da 95.000 a 195.000 e gli spagnoli da 66.000 a 156.000. (tutti i dati)

Al di là però della retorica comunitaria che li considera diversi dagli altri migranti, questo insieme presenta profonde diversità lungo precise linee etniche, sociali ed economiche. La principale distinzione è tra migranti ad alta qualificazione e bassa qualificazione. I primi, le eurostars che si muovono tra le eurocities, sono la parte “alta” del fenomeno e, stando agli intendimenti del governo inglese, non dovrebbero essere toccati dalla Brexit. I secondi sono sicuramente la parte più consistente, costituita soprattutto dai migranti provenienti dai paesi dell’Europa orientale e ora anche da quelli della parte meridionale dell’Unione. In un contesto di forte precarizzazione, i giovani italiani, spagnoli, portoghesi e greci si ritrovano infatti insieme a polacchi e rumeni a fornire lavoro per le occupazioni precarie, flessibili e mal pagate del terziario del Regno Unito. È per questa fascia che i cambiamenti dovrebbero essere più rilevanti, con l’introduzione di un sistema a punti che renderebbe molto più difficile il trasferimento dei lavoratori poco qualificati. Una proposta che ha sollevato già più di una perplessità tra i sindacati e i partiti di opposizione e che andrà vista anche alla luce di quanto sta accadendo in questi ultimi mesi.

Non va poi dimenticato che la libera circolazione ha catalizzato verso la Gran Bretagna anche flussi consistenti di persone immigrate nei paesi dell’Europa meridionale e che hanno nel frattempo acquisito la cittadinanza degli stati d’arrivo. In tal senso è significativo che la destinazione principale degli italiani nati in Bangladesh o in Pakistan che emigrano sia proprio il Regno Unito.

Sull’altro fronte, non va dimenticato che in un passato recenti decine di migliaia di pensionati britannici hanno deciso di investire i propri risparmi acquistando una casa in Spagna o in Portogallo, dove si sono trasferiti e dove hanno programmato di trascorrere la vecchiaia. Anche per loro la Brexit apre un nuovo incerto scenario.

In definitiva, una situazione complessa, non univoca, in cui la Brexit, sommandosi all’attuale blocco delle frontiere, ha molte possibilità di peggiorare le condizioni di vita dei migranti di oggi e di quelli di domani.