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Covid-19: la curva che ci da speranza

I dati presentati tutti i giorni dalla Protezione Civile suggeriscono un aumento continuo del numero di morti e contagiati che può indurre al pessimismo. Tuttavia ci sono limiti piuttosto gravi delle attuali misurazioni effettuate per giudicarne l’andamento e analisi più approfondite suggeriscono una situazione migliore come ci spiegano in questo articolo Andrea Pisauro e Ilaria Vergantini.

La Figura 1, riporta, sulle ordinate la percentuale di test per il COVID-19 risultati positivi, ossia il rapporto tra il numero dei contagiati e il numero di test effettuati, i cosiddetti tamponi. Sulle ascisse sono riportati i giorni a partire dal 25 febbraio (ascissa uguale a zero). L’ultimo dato riportato si riferisce al 1 aprile. Il dato è cumulativo, cioè ad ogni giorno corrisponde il numero di positivi trovati diviso il numero di test fatti fino a quel giorno.

Da qualche giorno la curva ha smesso di crescere, iniziando a diminuire leggermente. L’abbiamo soprannominata “la curva gialla”. Riteniamo sia un segnale incoraggiante che mostra meglio di ogni altro dato come l’epidemia stia rallentando. Vediamo perché.

La maggioranza delle analisi svolte in queste settimane riguarda il numero totale di persone risultate positive al test sul COVID-19. Un grosso problema con questo approccio è che questo numero dipende moltissimo dal numero di test effettuati. É assai probabile che paesi come la Germania che secondo l’istituto Koch1 (l’agenzia federale tedesca per il controllo delle malattie infettive) fanno fino a 160mila test a settimana, trovino molti più casi positivi di paesi come Italia e Gran Bretagna, dove si testano solo pazienti con sintomi tali da farli arrivare in ospedale. Dunque il numero di positivi riflette principalmente il numero di test fatti.

Un altro filone di analisi si concentra sul numero di morti. Se il tasso di letalità rimanesse costante, il numero di morti permetterebbe in effetti di risalire al numero effettivo di contagiati. Tuttavia anche questo numero rischia di non riflettere bene l’andamento dell’epidemia perché il tasso di letalità non è costante ma dipende dalla capacità del sistema sanitario. Ospedali travolti da un continuo flusso di pazienti ne riescono a salvare di meno di ospedali semivuoti. Per questo la Lombardia ha un tasso di letalità superiore al 10% che è andato aumentando in modo drammatico, mentre il Veneto ha un tasso di letalità inferiore al 5%, relativamente più stabile. Nella Figura 2 abbiamo riportato sulle ordinate la percentuale di morti rispetto alle terapie intensive (TI) in Lombardia e la percentuale del numero di pazienti in terapia intensiva rispetto ai contagiati dall’inizio dell’epidemia a oggi. Si nota che la percentuale dei morti rispetto alla TI, che inizialmente si aggirava intorno al 10%, è salita ad oltre il 30% nelle ultime due settimane, indice che in Lombardia molti pazienti (circa 3 su 4) muoiono senza accedere alla TI perché questa è satura.

Va inoltre ricordato che la registrazione dei decessi causati dal coronavirus è lacunosa ed è molto probabile che il numero di morti in Lombardia sia fortemente sottostimato, come evidenziato dall’altissimo e altrimenti inspiegabile numero di decessi nei primi mesi dell’anno in molti comuni lombardi, solo una parte dei quali è’ stata attribuita al coronavirus.

La percentuale di test positivi invece è una stima probabilmente più robusta dell’andamento dell’epidemia perché misura la probabilità di trovare un infetto all’interno di un certo campione della popolazione. Se il criterio con cui vengono somministrati i test non cambia in modo significativo, questo test rivela l’andamento dell’epidemia. Per stimare in modo più preciso questo rapporto bisognerebbe avere un campione rappresentativo e fare molti test, come è stato fatto in Veneto. Nella maggior parte dei casi questo non avviene e vengono testati solo i soggetti sintomatici con sintomi sufficientemente gravi da giustificare l’invio in ospedale. É plausibile che questo campione dia un’indicazione sull’andamento dell’epidemia più robusto del semplice numero di positivi o di quello di pazienti morti. Ovviamente, i criteri di scelta dei pazienti da testare e le politiche di screening della popolazione possono cambiare nel tempo, inficiando la validità delle tendenze rivelate da questa misura. Inoltre, è presumibile che quando la pressione sul sistema sanitario diminuisce un numero maggiore di pazienti senza sintomi gravi possa essere testato con una conseguente presumibile diminuzione della percentuale di pazienti positivi.

Cosa dice il rapporto tra positivi e test fatti? A livello nazionale sembrerebbe che sia stato raggiunto un picco e infatti la “curva gialla”, ha iniziato a diminuire da circa una settimana, approssimativamente due settimane dopo l’inizio della quarantena collettiva. Un sospiro di sollievo? Non ancora.

Guardando infatti all’evoluzione di questo rapporto nelle diverse regioni (Figura 3, aggiornata al 1 Aprile) emerge che solo nelle regioni del Nord (ad eccezione della Valle d’Aosta) il tasso di positività sta iniziando a diminuire mentre nel resto d’Italia subisce una sostanziale stabilizzazione. Questo suggerisce che si dovrà attendere ancora qualche giorno per vedere l’inizio di una discesa.

 

Sappiamo che i tamponi riportati dalle statistiche non corrispondono precisamente ai pazienti testati, perché prima di essere dichiarati guariti i pazienti vengono testati nuovamente due volte, la seconda per conferma della negatività. Abbiamo pertanto corretto il dato dei tamponi togliendo il numero dei tamponi effettuati per determinare la guarigione dei pazienti (il doppio dei guariti) e i risultati non cambiano in modo significativo.

Capire quali siano i dati da analizzare riveste un’importanza fondamentale perché permette di meglio valutare il risultato delle misure contenitive adottate. A tre settimane dall’inizio della quarantena è possibile dire che il contenimento ha funzionato. É importantissimo però mantenere alta l’attenzione e soprattutto rimanere a casa per dar seguito al trend in discesa rilevato.

Note

¹RKI – Roberto Koch Institut

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