Il percorso a ostacoli della cittadinanza
Molti dei travagli che costellano l’accesso alla cittadinanza di migliaia di immigrati potrebbero essere attenuati, come argomentano Gianpiero Dalla Zuanna e Navneet Kaur, con semplici ritocchi alle legge vigente.
La concessione della cittadinanza può sembrare una formalità giuridica, un argomento di dispute dottrinali, oppure un terreno di mero scontro ideologico. Al contrario, la concessione della cittadinanza è un processo lungo e irto di ostacoli, che in questi anni ha reso la vita inutilmente complicata a migliaia di persone che sono italiane di fatto, ma non di diritto.
Quella che segue è la storia di Navneet Kaur, una giovane donna indo-italiana recentemente laureatesi a Padova con una tesi sulla legge italiana sulla cittadinanza e sui tentativi, abortiti, di riformarla. Navneet, che ho seguito nel suo lavoro di tesi, ha conosciuto tutte le difficoltà di vivere stabilmente in Italia senza averne la cittadinanza. Ho chiesto a Navneet di raccontare ai lettori di Neodemos le proprie esperienze, tanto più interessanti in quanto non derivano da situazioni e accadimenti drammatici, tanto numerosi nel mondo della migrazione, ma dalle vicende legate ad un normale processo migratorio.
Il racconto di Navneet
Per diversi anni ho sentito parlare di cittadinanza, una parola spesso utilizzata in famiglia quando iniziavano i soliti discorsi sui vari documenti, appuntamenti e permessi necessari per vivere; una parola che sentivo spesso in televisione e alcune volte anche a scuola, ma senza mai capire veramente cosa fosse.
Mio padre ha lasciato l’India quando io avevo appena un anno, ha deciso di emigrare in Italia dove già aveva qualche conoscenza. L’inizio del suo progetto migratorio è stato caratterizzato, come spesso accade, da diversi lavori precari, ci sono voluti parecchi anni per raggiungere una posizione lavorativa dignitosa. Una volta raggiunta la stabilità economica, ha deciso di completare il proprio progetto migratorio e di usufruire del ricongiungimento familiare.
Per completare il percorso del ricongiungimento familiare sono stati necessari un paio di anni, un lavoro stabile, una casa e svariati documenti, in Italia e in India. Io, mia mamma e mio fratello siamo arrivati in Italia nell’estate del 2005, ignari del travaglio che ci avrebbe aspettato anche qui, fatto di appuntamenti in questura, in prefettura, al consolato e in altri vari uffici. Ricordo ancora molto bene il momento del rinnovo del permesso di soggiorno, una delle esperienze che più caratterizza la vita di un immigrato in Italia. Si partiva da casa prestissimo, bisognava trovarsi di fronte all’ufficio immigrazione della questura prima degli altri, se non si riusciva a consegnare la documentazione necessaria quella mattina, si doveva ritornare il giorno dopo; questo significava un altro giorno libero da richiedere al datore di lavoro, gli spintoni, l’attesa, lo stress, la confusione, l’arroganza del personale. La prima vera conquista è stata la carta di soggiorno la quale, con la sua scadenza illimitata, ha portato a termine gli infiniti viaggi in questura.
Navneet cresce e prende coscienza…
Il momento nel quale ho realizzato cosa fosse la cittadinanza, risale a quando la mia professoressa di inglese delle superiori mi telefonò domandandomi se fossi interessata a svolgere un tirocinio in Inghilterra, per la durata di un mese. La proposta mi aveva elettrizzato parecchio, mi sentivo onorata di sapere che la professoressa avesse scelto me, ma la disillusione è arrivata presto, perché quando ho riferito di avere la cittadinanza indiana, la responsabile del progetto ha affermato di preferire uno studente di cittadinanza italiana. In quel momento, per la prima volta, realizzai cosa rappresentasse quel documento, sinonimo di opportunità e di diritti.
E’ stato poi un susseguirsi di episodi, come dover pagare come una turista extracomunitaria per entrare nei musei, non poter viaggiare liberamente in Europa o svolgere molti lavori e piccole mansioni di mio interesse. Tutti elementi che a prima vista pensavo fossero normali difficoltà, essendo sempre stata convinta di essere uguale ai miei coetanei italiani.
La difficile normalità degli immigrati
Quella della mia famiglia, è soltanto una delle tante storie di acquisizione della cittadinanza che definiscono il progetto migratorio della componente straniera in Italia. Sono diversi i documenti necessari per la domanda di cittadinanza italiana, come ad esempio l’atto di nascita (tradotto dalla lingua originale prima in inglese e poi in italiano), il certificato penale, la dimostrazione di avere un reddito minimo, o di risiedere in Italia ininterrottamente per dieci anni.
Il primo membro della mia famiglia a richiedere la cittadinanza italiana è stato mio padre, con una domanda che includeva anche me e mio fratello, poiché ancora minorenni. Purtroppo come accade spesso, per via della lentezza burocratica del nostro Paese e i due anni minimi previsti per la valutazione della domanda (dal 2019 sono divenuti quattro…), mio padre ottenne la cittadinanza italiana nell’anno in cui diventai maggiorenne. Avvenne allora che sia io, sia mio fratello, anch’egli diventato maggiorenne, dovemmo inoltrare la richiesta separatamente. Ho ricevuto la risposta alla mia domanda dopo tre anni, sono stata invitata a ritirare il decreto di concessione presso la prefettura. Dopo una settimana bisognava presentarsi presso il comune di residenza per consegnare il decreto e fissare l’appuntamento con il sindaco per prestare il giuramento. Ora sono cittadina italiana, ma è stata veramente un cammino lungo e complicato.
Purtroppo, il procedimento per l’acquisizione della cittadinanza è spesso costellato di inciampi – ad esempio mio fratello ne ha avute alcuni per via del nome – che per essere risolti hanno richiesto l’intervento dell’ambasciata indiana; altri amici di famiglia invece, hanno avuto problemi a dimostrare la residenza ininterrotta di dieci anni, altri ancora a dimostrare un reddito minimo.
È ora di cambiare
La storia di Navneet, nella sua normalità, mostra come nel nostro paese il passaggio dalla condizione di “straniero” a quella di “cittadino italiano” sia molto lungo, costoso e inutilmente faticoso, e segna profondamente la vita di moltissimi stranieri e dei loro figli. Tutto ciò dovrebbe far comprendere l’urgenza di superare l’obsoleta legge n.91 del 1992, come Neodemos ha illustrato in un dossier dedicato. È difficile pensare che con questi chiari di luna la legge sullo ius culturae, nella scorsa legislatura approvata alla Camera e naufragata in Senato, possa essere approvata dal Parlamento.
Forse, però, potrebbe essere possibile un ritocco marginale all’attuale quadro normativo, per rendere la vita più semplice alle migliaia di Navneet Kaur che vivono in Italia. Come accade già oggi in Germania, si potrebbe portare a otto gli anni il tempo di residenza richiesti per far domanda di cittadinanza, in luogo dei dieci attuali. Inoltre, dopo due anni si potrebbe introdurre il silenzio-assenso, visto anche che – sempre in Germania – il tempo medio di attesa è di sei-nove mesi… Così, la cittadinanza potrebbe arrivare dopo dieci anni effettivi di residenza permanente, in luogo dei quattordici attuali, e i minori potrebbero ricevere la cittadinanza per trasmissione dei genitori, dopo un tempo di residenza allineato a quello degli altri grandi paesi europei di immigrazione. Sarebbe una modifica di legge semplice e – credo – condivisibile da larga parte dell’opinione pubblica.