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Braccia contro frane

Un territorio dissestato, ad alto rischio idro-geologico, come quello Italiano, ha bisogno di lavoro, molto lavoro, umile ma socialmente utilissimo. Ferruccio Pastore auspica l’avvio di un programma che si avvalga dell’apporto sistematico, guidato e professionalizzante per le migliaia di richiedenti asilo, migranti umanitari e rifugiati, a cui il nostro paese, volente o nolente, ha offerto un approdo.

L’Italia ha un bisogno disperato di lavoro. Obiettivi strategici quali la “messa in sicurezza del territorio” e la “lotta al dissesto idrogeologico”, tanto enfaticamente celebrati quanto blandamente perseguiti, richiedono una mole immensa di lavoro umano, perlopiù manuale, duro, capillare e oscuro. Un tipo di lavoro che difficilmente i giovani italiani, oggi, sono pronti a prestare in misura sufficiente.

Chi invece, in questi anni, ha fornito lavoro di questo tipo, sono state le centinaia di migliaia di richiedenti asilo, migranti umanitari e rifugiati, a cui il nostro paese, volente o nolente, ha offerto un approdo. Ripulire argini invasi dalla vegetazione, svuotare canaline di scolo intasate, ricostruire terrazzamenti e muretti a secco, come nella foto qui sotto riportata. In tante località, dalle valli padane alle aree interne del Mezzogiorno, questi lavori sono stati affidati ai nuovi arrivati, che notoriamente sono soprattutto giovani uomini, forti e capaci, anche se poco istruiti. Sono stati impiegati a decine di migliaia, in programmi di volontariato più o meno “volontario”, ma anche in forma retribuita, da piccole aziende o da cooperative.

Come il lavoro immigrato potrebbe contribuire (di più) all’interesse nazionale

Questo lavoro, umile, poco remunerato e ancor meno riconosciuto, è stato perlopiù visto come una “giusta contropartita”, dovuta dai migranti per l’accoglienza ricevuta, o come un favore concesso. Raramente come un investimento, tanto meno come una risorsa strategica. Invece, se adeguatamente formato e organizzato, questo lavoro – sebbene non reclutato all’estero in maniera programmata, non giunto per canali regolari e poco qualificato – potrebbe rappresentare una risorsa importante per la manutenzione di un territorio tanto bello quanto frammentato e fragile.

Per questo, il “cantiere Italia” che oggi tanti esortano ad aprire, non può essere solo un cantiere tecnico ed economico, ma dev’essere anche un cantiere sociale e culturale, di valorizzazione del lavoro immigrato e di integrazione.

Naturalmente, le obiezioni possibili sono tante. Da un lato, si potrebbe eccepire: “Ma come! Li releghiamo ancora una volta in quelle sacche di lavoro mal pagato, pericoloso e senza prospettive di carriera: i soliti lavori da immigrati! Ancora una volta, un’immigrazione usa-e-getta”. Obiezione sacrosanta, in linea di principio. L’Italia è in assoluto uno dei paesi europei dove, sebbene i tassi di occupazione degli immigrati rimangano relativamente alti (IX Rapporto annuale “Gli stranieri sul mercato del lavoro in Italia”), la segregazione professionale è più forte e il sotto-inquadramento più grave e sistematico.

Tuttavia, bisogna vagliare questa obiezione alla luce di una situazione effettiva, in cui i ghetti lavorativi sono già una realtà, spesso in forme illegali (per quanto sotto gli occhi di tutti). In queste condizioni, un grande programma di attivazione professionale per finalità pubbliche potrebbe contribuire a contrastare le dinamiche marginalizzanti, senza rinunciare a obiettivi di upskilling ulteriore nel medio-lungo periodo.

Un programma intelligente: costoso all’inizio, redditizio a lugo termine

Da un altro lato, si potrebbe chiedere: “Ma quanto costerà tutto questo!”. Certo, formare, coordinare e gestire un’operazione di questo tipo avrebbe un costo importante. Ma pur sempre una modesta frazione delle decine di miliardi che, secondo alcune stime, sarebbero necessarie per un serio piano nazionale di protezione del territorio. Il piano nazionale di “mitigazione”, approvato nel febbraio 2019, ha stanziato 3 miliardi, ma tutti sono consapevoli che si tratta solo di una pezza.

Non bisogna dimenticare, infine, che già adesso l’inserimento lavorativo dei titolari di protezione ha un costo per le casse pubbliche. Perlopiù sotto forma di tirocini extra-curriculari, mediante borse-lavoro che vanno a sostenere piccole imprese italiane, soprattutto agricole e artigiane, con effettive ricadute formative modeste o nulle. Un “Cantiere Italia” aperto al lavoro immigrato cambierebbe il segno di questa spesa, rendendo il concetto di utilità pubblica più robusto e inclusivo. Più robusto, in quanto più inclusivo.

Foto
Claudio Fontana – Rebbio (Como), 2017: Richiedenti asilo e rifugiati imparano a riparare muretti a secco di consolidamento dei pendii