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Il Patto Globale per la Migrazione: cosa dice, cosa non dice, e perché non piace a Trump, Salvini e molti altri

L’11 dicembre scorso, a Marrakech, è stato firmato da 164 paesi il Patto Globale per la Migrazione; 12 paesi, tra cui gli Stati Uniti e l’Italia hanno negato la loro firma. Massimo Livi Bacci richiama la natura del patto, sintetizza i suoi contenuti, e spiega perché non piace a Donald Trump e a Matteo Salvini.

Tre anni fa, con rulli di tamburo e colpi di grancassa, venne approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, articolata in 17 grandi “Obiettivi” (OSS) e ben 169 “Traguardi” da raggiungere, appunto, entro il 2030. Nel pletorico menu delle azioni, delle raccomandazioni e delle esortazioni, adottate per guidare lo sviluppo nei prossimi anni, mancavano del tutto (o quasi del tutto) le indicazioni per il governo delle migrazioni. Quasi che queste fossero una questione minore, e non un imponente fenomeno che coinvolge oltre un quarto di miliardo di individui, un potente fattore del cambiamento sociale, una componente importante dello sviluppo e – nelle sue forme patologiche di flussi di profughi e di rifugiati – un fattore, appunto, di insostenibilità dello sviluppo. Chi ha qualche pratica delle organizzazioni internazionali, che operano sulla base di un ampio consenso dei vari paesi, non è rimasto sorpreso: il tema delle migrazioni è rimasto quasi sempre ai margini dei confronti internazionali, perché nessun paese è disposto a mettere in gioco anche una frazione minima della propria sovranità su questo punto. Meglio tenere l’argomento in disparte, meglio non sottoscrivere documenti, sia pur generici e non vincolanti, che accennino alla necessità di una regolazione sopranazionale dei flussi.

Qualcosa si muove nella comunità internazionale

Negli ultimi anni qualcosa si è mosso, sia pur cautamente. L’Organizzazione Internazionale sulle Migrazioni (OIM) è diventata un’agenzia delle Nazioni Unite, con qualche maggiore capacità operativa. E la clamorosa assenza del tema migratorio nell’Agenda 2030, ha spinto le Nazioni Unite, nell’Assemblea Generale del settembre 2016, ad approvare la “Dichiarazione di New York per i migranti e i rifugiati”. Gli Stati Membri hanno riconosciuto la necessità di un approccio globale alla mobilità umana, al fine di proteggere la sicurezza, la dignità, i diritti umani e le libertà fondamentali di tutti i migranti, indipendentemente dal loro status, in ogni momento. Venne pertanto dato il via all’elaborazione del “Global Compact per una migrazione sicura, ordinata e regolare” da adottare in una successiva Conferenza intergovernativa, come effettivamente è avvenuto a Marrakech l’11 dicembre scorso.

Ben venga, dunque, un Migration (o Global) Compact. Secondo le stime delle Nazioni Unite, lo stock di migranti nel mondo (per semplificarsi la vita, le statistiche internazionali, un po’ rozzamente, definiscono tali tutti coloro che risiedono in uno Stato diverso da quello di nascita) era composto da 258 milioni di persone nel 2017 (+69% rispetto ai 152 milioni nel 1990) e si accresce del 2% all’anno, contro l’1% della popolazione mondiale). Ci sono meno di 2 migranti ogni 100 abitanti nei paesi in via di sviluppo, ma ce ne sono quasi 12 (sei volte di più) nei paesi sviluppati (circa 8 in Italia). Se tutti i migranti fossero espulsi o incrociassero le braccia, le economie del mondo sviluppato soffrirebbero un duro colpo, e il tessuto sociale subirebbe gravi lacerazioni.

E poi c’è la componente “patologica”, quella migrazione sospinta dalla violenza, dalle catastrofi, dalle persecuzioni e dalle discriminazioni, che richiede solidarietà umana oltreché un coordinamento internazionale, risorse e capacità di gestione. Si pensi alla migrazione forzata dei Rohyngia (nel Myanmar), all’esodo dalla Siria, alla fuga da stati falliti come la Somalia o la Libia, all’esodo verso nord dal triangolo sconvolto dal crimine formato da Honduras, Guatemala e San Salvador, alla fuga da Haiti dopo le catastrofi naturali o dal Venezuela per la catastrofe economica. Tutti fenomeni che insidiano lo sviluppo, incrinano o lacerano le relazioni tra paesi, mettono in crisi l’ordine internazionale. Che la comunità internazionale, sia pure con colpevole ritardo, inizi a riflettere sulla necessità di porre ordine nel magma migratorio è un fatto positivo. Il Global Compact è un’opportunità da non perdere. Purtroppo un movimento positivo ha conosciuto, nell’imminenza della firma finale, una inattesa frenata. Molti Stati, una dozzina, che pur avevano positivamente contribuito alla costruzione del documento, si sono tirati indietro non apponendovi la loro firma, sulla scia della defezione degli Stati Uniti avvenuta già alla fine del 2017. Si tratta di paesi del Nord del Mondo, oltre al Cile e Repubblica Dominicana : Australia, Austria, i quattro paesi di Visegrad (Cechia, Slovacchia, Polonia e Ungheria), Italia, Svizzera e Israele.

I 23 obiettivi del Patto Globale

Prima di vedere le ragioni che hanno guastato la festa finale (perché ben 164 paesi hanno nondimeno firmato il patto), va sottolineato che il preambolo si chiude con una importante affermazione: “Questo Global Compact non è legalmente vincolante, e si fonda sugli impegni che hanno ricevuto l’approvazione degli Stati membri nella Dichiarazione di New York. Esso incoraggia la cooperazione tra gli attori dei processi migratori, riconoscendo che nessuno Stato può affrontare la questione migratoria da solo, e riconosce la sovranità degli Stati e i loro obblighi nei confronti delle leggi internazionali”.

I 23 obiettivi che costituiscono il documento hanno una natura complessa. Alcuni hanno natura gestionale, riguardando la raccolta di dati e di informazioni, l’identità dei migranti, le rimesse da rendere più facili e meno costose, la portabilità dei diritti sociali acquisiti, la cooperazione nella gestione delle frontiere (1, 3, 4, 11, 22, 23). Altri obiettivi confermano obblighi già contenuti in varie convenzioni, quali la riduzione della vulnerabilità dei migranti, il salvataggio delle loro vite (7, 8) o la lotta al traffico di migranti (9, 10). Si tratta, fin qui, di obiettivi non controversi, magari difficilmente raggiungibili, ma largamente condivi.

Un altro insieme di obiettivi ha natura più complessa e controversa, e riguarda, la gestione dei flussi migratori, per quanto attiene alle modalità legali, alla chiarezza e non arbitrarietà delle procedure, al miglioramento dell’assistenza consolare nel ciclo migratorio, alla detenzione dei migranti solo come soluzione estrema, se modalità meno traumatiche non sono possibili, alla cooperazione per la reintegrazione di migranti di ritorno o espulsi (5, 12, 13, 14, 21). Si raccomanda, ancora, il rafforzamento degli interventi per minimizzare i fattori che generano la partenza dei migranti dai paesi di origine (2).

Una serie di obiettivi riguarda politiche, prevalentemente interne, degli Stati nei confronti dei migranti, quali i giusti criteri per l’assunzione e il lavoro dei migranti, il loro accesso ai servizi di base, l’eliminazione delle discriminazioni, l’investimento nello sviluppo delle qualifiche dei migranti (6, 15, 17, 18). Infine, due obiettivi, pur nella loro genericità, sono indigeribili per i sovranisti-nativisti: quello che invita gli stati a promuovere la piena inclusione e coesione sociale, e quello che invita a “creare le condizioni perché i migranti e le diaspore contribuiscano pienamente allo sviluppo sostenibile in tutti gli Stati” (16, 19). L’ultimo obiettivo (23), generico, riafferma ciò che già c’è nel titolo del Global Compact: “rafforzare la cooperazione internazionale e il partenariato globale per una migrazione sicura, ordinata e regolare”.

Perché il Patto Globale non piace a Trump, Salvini e altri 10

Questi gli obiettivi del Global Compact, che pur nel loro disordine, delineano una civile linea di marcia per la comunità internazionale. Fino alla defezione degli Stati Uniti, poco più di un anno fa, c’era un accordo generale, e ancora nel luglio scorso il testo definitivo del Global Compact era sostenuto da tutti gli stati (ad esclusione degli Stati Uniti). Del resto, trattandosi di un documento non vincolante e rispettoso della sovranità di ciascun paese, questo sostegno appariva scontato. Negli ultimi mesi si è invece scatenata una campagna mediatica fuorviante, alimentata da gruppi di estrema destra e think tanks conservatori-sovranisti, che hanno diffuso le false idee che il Global Compact interferisce con la sovranità degli stati, abolisce la distinzione tra i migranti regolari e quelli irregolari, crea una sorta di “diritto alla migrazione”, sostiene che ogni sorta di migrazione è legittima e invariabilmente un fattore positivo per lo sviluppo. La Missione degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, pochi giorni prima dell’incontro di Marrakech, in una dichiarazione ufficiale, ha sostenuto che il Global Compact implica una sorta di “globalizzazione della migrazione, a spese della sovranità nazionale”, e che i suoi obiettivi saranno utilizzati, a lungo andare, per costruire una sorta di diritto internazionale consuetudinario della migrazione, scavalcando la sovranità nazionale.

I dodici paesi dissidenti – tra i quali rientra, purtroppo, il nostro – pensano forse di gestire i fenomeni migratori in proprio, isolandosi dal contesto internazionale? Questa è pura follia. E’ impossibile gestire la pressione migratoria dal Sud del mondo senza accordi tra paesi di partenza e paesi di arrivo, senza un mix intelligente di aiuti economici, senza rafforzare i rapporti politici, culturali e sociali, senza attivare canali migratori legali, rifiutando regole e normative comuni, trascurando i diritti dei migranti. Purtroppo non tutti la pensano a questo modo.

Note

[1] Tra i 169 target, due soli nominano esplicitamente le migrazioni: il generico 10.7 “Facilitare la migrazione ordinata, sicura, regolare e responsabile e la mobilità delle persone, anche attraverso l’attuazione di politiche migratorie programmate e ben gestite”, e il più specifico 10.7.c, che invita a ridurre le commissioni per le rimesse di migranti.