L’Europa, l’Italia e l’immigrazione
L’immigrazione ha acquistato in questi ultimi mesi un ruolo centrale nella discussione politica del nostro paese, soprattutto per gli interventi del nuovo governo che hanno determinato una ulteriore contrazione degli sbarchi. Come mostra Corrado Bonifazi nel suo contributo, la situazione non può però essere ridotta solo a questo aspetto e il ruolo dell’immigrazione va inquadrato nelle tendenze complessive di sviluppo della nostra società.
L’Europa degli stati nazionali non ha mai amato particolarmente gli immigrati. Tranne poche e circoscritte eccezioni, anche quando sono state utilizzate politiche attive di reclutamento l’idea di base era che gli immigrati sarebbero poi tornati nel loro paese, una volta venute meno le esigenze che avevano spinto a richiamarli. D’altra parte è solo nell’ultimo quarto del secolo scorso che l’Europa nel suo complesso si è trasformata in un continente d’immigrazione, con una bilancia migratoria positiva in tutte le sue aree. Di conseguenza l’immigrazione non entra nel mito costitutivo dei paesi europei che, in effetti, negli ultimi cinquanta anni hanno puntato soprattutto a limitarla e a porla sotto stretto controllo. Anche se dal punto di vista pratico il risultato è stato ben diverso delle intenzioni, visto che se consideriamo l’UE a 15 più Svizzera e Norvegia il numero di stranieri residenti è passato dai 12,5 milioni del 1975 ai 28,6 del 2007, salendo anche negli anni della crisi economica per arrivare a 36,7 milioni nel 2015. Un aumento di questa portata dimostra come l’obiettivo politico di una migrazione zero cozzi nettamente, non solo con una offerta di migranti crescente, ma anche (e soprattutto) con una intensa domanda di immigrati che le società d’arrivo europee continuano ad esprimere.
Le tendenze recenti
È in questo quadro che va letta la politica della “fermezza” del nuovo governo italiano, che appare purtroppo in sostanziale sintonia con il modus operandi degli altri paesi europei che, difatti, non si sono certo affrettati ad aprire i propri porti per la “chiusura” di quelli italiani, nonostante l’esiguità numerica degli ultimi arrivi. L’anomalia di questi anni è stata la generosa politica di salvataggio in mare dei migranti che cercavano di attraversare il Canale di Sicilia attuata dai governi italiani, a partire dall’ottobre del 2013 con l’operazione Mare Nostrum e alla cui base c’è la forte emozione suscitata nella pubblica opinione dall’affondamento di fronte all’isola di Lampedusa di un barcone in cui perirono più di trecentocinquanta migranti (Neodemos 7/10/2013 In memoriam e l’e-book Le migrazioni internazionali ai tempi della crisi). Emozione che, evidentemente, le ultime tragedie del mare ancora non hanno provocato.
Sul piano degli sbarchi i risultati di questo cambiamento di rotta, che si avvia con gli accordi con le fazioni libiche del governo Gentiloni, sono evidenti, con il flusso che diminuisce notevolmente già nell’agosto del 2017 e si riduce ulteriormente con la stretta del nuovo governo (Fig. 1). Parallelamente sono cresciute le intercettazioni in Grecia e Spagna, nonostante la distanza e le diverse frontiere che li separano, rendano i 3 punti di ingresso della UE sul Mediterraneo tutt’altro che interscambiabili. In ogni caso è evidente che l’industria dell’immigrazione irregolare sta riorganizzando le proprie rotte e le proprie strategie alla luce delle scelte del nuovo governo italiano, preparandosi ad affrontare il nuovo scenario sulla cui durata nel lungo periodo è per altro lecito nutrire diversi dubbi. Restano, infatti, inalterate le cause alla base dei flussi migratori: i 66 milioni di persone sotto protezione internazionale rimangono ancora lontani dalle proprie case, come lontane sono le soluzioni dei conflitti che li hanno spinti a fuggire; la crescita demografica dell’Africa subsahariana continua con inalterato vigore e da qui al 2050 aggiungerà alla popolazione di questa parte del pianeta 1,2 miliardi di altre persone di cui 700 milioni in età lavorativa; le rotte dei migranti e degli altri traffici illegali continuano a confluire verso la Libia, la cui stabilità politica è tutt’altro che raggiunta. E gli avvenimenti di questi ultimi giorni, con la ripresa delle partenze, l’affondamento di alcuni gommoni che trasportavano i migranti e il conseguente corollario di morti e dispersi dimostrano come il problema non sia per nulla risolto.
Gli italiani, la politica migratoria e gli sbarchi
La stretta operata dal Ministro Salvini appare aver incontrato, almeno sinora, il favore di una parte consistente della pubblica opinione. Se nel risultato elettorale del 4 marzo l’immigrazione è stato un fattore importante ma probabilmente non decisivo, lo è diventata successivamente, come mostrano le intenzioni di voto che vedono infatti una crescita sostanziosa della percentuale di elettori intenzionata a votare per la Lega e, fatto ancora più significativo, della permanente quasi irrilevanza dei partiti a sinistra del Pd che più decisamente contrastano tali politiche. Accanto alla stretta sugli arrivi il nuovo governo ha inserito nel Decreto Sicurezza e Immigrazione una serie di provvedimenti che riguardano la condizione degli stranieri presenti in Italia. L’abolizione della protezione umanitaria, l’esclusione dai registri anagrafici dei richiedenti asilo, le restrizioni del sistema di accoglienza, gli ostacoli burocratici posti alle procedure di acquisizione della cittadinanza e le altre modifiche della normativa attuale sono tutti interventi tesi a rendere più difficili e complessi i processi di integrazione.
Siamo sulla stessa linea seguita in passato dal Centro-Destra, con la legge Bossi-Fini (a cui è però seguita la più grande sanatoria della storia italiana con 647 mila regolarizzati) e con i due pacchetti sicurezza dell’ultimo Governo Berlusconi. Un atteggiamento che ha trovato nuova spinta nella crescita dei sovranisti, la cui pubblicistica vede nell’immigrazione il male assoluto, frutto del disegno globalista per introdurre forza lavoro a basso costo per sostituire i lavoratori locali e creare una società priva di radici e legami tesa al sincretismo religioso. C’è da chiedersi se la maggioranza degli italiani concordi con questa lettura dell’immigrazione e soprattutto se sia nei suoi auspici una società chiusa in sé stessa che tiene ai margini i nuovi arrivati e i loro discendenti.
Quanto è avvenuto negli ultimi trent’anni va in tutt’altra direzione: tra il 1991 ed oggi il numero di stranieri regolarmente residenti è cresciuto addirittura di 14 volte, passando da 356 mila unità a 5 milioni. Se a quest’ultima cifra aggiungiamo il milione e mezzo di naturalizzati arriviamo a 6,5 milioni di persone, che significa quasi l’11% della popolazione. Tutto questo è avvenuto sicuramente con difficoltà e problemi, soprattutto nelle aree di maggior disagio, ma la società italiana ha mostrato in questi anni una capacità di inclusione che probabilmente neanche sapeva di avere, forse anche perché di questa immigrazione abbiamo qualche bisogno e contribuisce a risolvere qualche problema.
I risultati di un sondaggio Demos-Repubblica (fig. 2) offrono da questo punto di vista informazioni interessanti. Nonostante dieci anni di crisi economica, la straordinaria crescita dell’immigrazione che abbiamo appena visto e il fatto che nei tre anni precedenti gli sbarchi avessero già superato il mezzo milione di unità, la maggioranza degli italiani all’inizio del 2017 era ancora favorevole alla politica di accoglienza seguita dal governo italiano. Il sondaggio del giugno dello scorso anno vede, invece, prevalere chi vorrebbe puntare sui respingimenti, con uno scarto che nella rilevazione di ottobre diventa di 12 punti percentuali.
Il cambio di tendenza è sicuramente significativo e segnala un disagio diffuso, su cui chi vuole trovare negli immigrati (irregolari prima, regolari poi) il capro espiatorio di tutti i mali del paese è facilitato. Resta però altrettanto ampio il campo d’azione di chi, al contrario, ritiene che l’immigrazione debba essere una componente importante nella vita del nostro paese a cui va assegnato un ruolo preciso nella società italiana. Non minimizzando i problemi, che spesso riguardano gli italiani più deboli e fragili, non dimenticando la straordinarietà delle trasformazioni già determinate nella società italiana dall’immigrazione e magari evitando anche di puntare solamente sui buoni sentimenti e sulla presunta modestia dei numeri.