1

Un Paese spaccato: lavoro femminile e fecondità nelle regioni italiane

lavoro femminile e fecondità

Anche nell’Italia dei pochi figli, la crescita della partecipazione femminile al lavoro è correlata a tassi di fecondità più elevati, ma solo nelle regioni del Centro-Nord. Mencarini e Vignoli partono da questa ormai assodata evidenza empirica per sostenere che il lavoro delle donne può (come già avvenuto in molti paesi europei) essere un pre-requisito per sostenere o aumentare la fecondità.

Negli anni della crisi, anche in Italia, una delle principali novità è stata il ruolo del lavoro retribuito delle donne, sempre più decisivo sia per le scelte di formare una famiglia e avere dei figli, che per la condizione economica della famiglia stessa. E infatti, ancora di più dell’occupazione femminile, è salito il tasso di attività femminile (cioè la somma delle donne occupate con quelle che cercano lavoro), arrivato a quasi il 60% nel 2017, segnando un netto calo delle inattive. Contemporaneamente però è cresciuta molto la quota di lavori temporanei (quasi il 20% delle donne occupate ha da almeno cinque anni un contratto a termine), che creano incertezza e rinvio rispetto alla scelta di fare figli. Rimane una forte differenza nell’impegno lavorativo tra le donne dai 25 ai 49 anni senza figli (pari ad oltre il 72%) e le madri invece di uno o più figli sotto i 6 anni (pari al 55%). Le differenze sono minori, ma superano sempre i dieci punti percentuali, per le laureate e le donne che vivono al Nord (dati Istat).

Nei paesi europei si fanno più figli dove le donne lavorano di più

È fondamentale, per orientarsi in questi numeri, e trarne le corrette conseguenze per il disegno di politiche sociali, capire quale sia il legame tra lavoro femminile e fecondità. Infatti, se l’aumento dell’istruzione e della partecipazione lavorativa femminile hanno avuto un ruolo nel calo della fecondità in tutto il mondo occidentale fino almeno agli anni ‘80, successivamente la propensione delle donne al lavoro e alla carriera non si è più attuata necessariamente a discapito del ruolo di madri, e la correlazione tra lavoro femminile e fecondità ha mostrato un’inversione di tendenza, diventando positiva a livello aggregato. Tra i paesi europei esiste una relazione positiva tra tasso di occupazione femminile e tasso di fecondità totale: dove la fecondità media molto bassa, sotto 1,4 figli per donna, e il tasso di occupazione femminile inferiore al 60%, si collocano i paesi del Sud Europa, quali Italia, Spagna, Grecia, Malta; dove la fecondità media è superiore a 1,7 e il tasso di occupazione superiore al 70%, troviamo i paesi scandinavi, quelli baltici e il Regno Unito.

È vero anche in Italia, ma solo al centro-nord  

Tuttavia, anche in Italia sta emergendo negli ultimi anni una relazione positiva tra partecipazione lavorativa delle donne e fecondità, come mostra chiaramente la figura 1, che mette in relazione il tasso di occupazione femminile nelle varie regioni italiane e il relativo tasso di fecondità totale (come già segnalato in L’effimero boom delle nascite da Rosina e Del Boca).

Osservando la figura 1 si nota una coesistenza tra la relazione “modernamente positiva” nel Centro-Nord Italia e la permanenza della relazione “tradizionalmente negativa” al Sud e nelle Isole. Se prendiamo in considerazione solo le regioni posizionate nel quadrante in basso a sinistra del grafico troviamo tutte e solo quelle del Sud e le Isole, caratterizzate da un tasso di occupazione femminile sempre più basso della media italiana. Anche in questo gruppo ci sono forti differenze: il tasso di occupazione è inferiore ad una donna su tre in Calabria, Campania e Sicilia, mentre si attesta tra il 40 e il 45% in Basilicata, Molise e Sardegna. E tra queste regioni la fecondità è relativamente più bassa proprio dove il tasso di occupazione è relativamente più alto: la relazione tra maternità e lavoro è rimasta negativa, e fanno più figli le donne che non lavorano. Tra le regioni del Centro-Nord Italia, invece, la relazione è diventata positiva e il tasso di fecondità è relativamente più alto (anche se, tranne nell’eccezione del Trentino Alto Adige, sempre sotto un figlio e mezzo in media) nelle regioni dove più donne sono occupate. Da notare che comunque solo in Emilia Romagna, Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige il tasso di occupazione femminile dai 25 ai 64 anni supera il 65%.

Nascite e lavoro femminile possono crescere insieme

Il fatto che questa inversione della relazione si sia verificata anche in Italia e che la crescita della partecipazione femminile al lavoro sia correlata a tassi di fecondità relativamente più elevati solo dove c’è un contesto favorevole alle famiglie da parte delle imprese e dei servizi suggerisce che anche in Italia nascite e lavoro possono crescere assieme in presenza di adeguati strumenti di conciliazione. Le forti differenziazioni fra regioni nella partecipazione lavorativa femminile, oltre che dalla disponibilità di posti di lavoro (senz’altro, per lo meno nel mercato regolare, molto più bassa al Sud che al Centro Nord) si lega a doppio filo anche alla diversa quantità e qualità di servizi di conciliazione tra lavoro e famiglia (prima di tutto gli asili nido) che, come ben noto, caratterizzano le diverse realtà geografiche (secondo i dati Istat del 2015, la quota dei comuni coperti dal servizio di asili nido variava dall’83% nel Nord-Est e del 27% al Sud, con una copertura sul totale dei bambini sotto i 3 anni massima al Centro, 17,5%, e minima al Sud, 3,7%).

La relazione positiva tra fecondità e lavoro femminile suggerisce che per sostenere le nascite si debba proprio sostenere l’occupazione femminile e quindi favorire le coppie a doppio reddito, dimostrando che la conciliazione non solo è possibile, ma che il lavoro delle donne, invece che un ostacolo alla maternità, può trasformarsi in un pre-requisito per sostenere o aumentare la fecondità.
I paesi che sono riusciti, grazie a politiche sociali e del lavoro più generose, a far sì che l’aumento dell’istruzione femminile si traducesse in aumento dell’occupazione qualificata, sono quelli che sono riusciti a promuovere un nuovo regime socio-demografico, con una fecondità spesso vicina ai due figli per coppia. Al contrario, appare chiaro che nei paesi nei quali l’espansione della forza lavoro femminile è iniziata, ma le infrastrutture istituzionali e le tradizioni culturali non sono state pronte a consentire alle donne sia di lavorare che di avere figli, la fecondità è divenuta bassissima.

Per approfondimenti:

Letizia Mencarini e Daniele Vignoli, Genitori cercasi. L’Italia nella trappola demografica. Egea, 2018 (in uscita).

Articolo pubblicato in contemporanea su inGenere.it