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Le mirabolanti prospettive della Nuova Via della Seta

Nuova Via della Seta

Il mirabolante piano svelato dalla Cina nel 2015, denominato Belt and Road Initiative (BRI), aspira a rendere facili e veloci le vie di comunicazione dalla Cina, all’Africa orientale e all’Euro, con giganteschi investimenti di miliardi di dollari. Steve S. Morgan argomenta che la facilitazione degli scambi e il potenziamento delle comunicazioni implicherà una accresciuta mobilità e più intensi scambi umani e migratori tra occidente e oriente.

Nel documento ufficiale diffuso dal Ministero degli Esteri della Cina¹ sul grandioso piano denominato BRI (Belt and Road Initiative) o anche OBOR (One Belt, One Road), si leggono mirabolanti prospettive circa lo sviluppo delle comunicazioni e delle connessioni tra Oriente e Occidente. Oltre alle migliaia di miliardi di dollari di investimenti in infrastrutture per velocizzare gli scambi nei 70 paesi coinvolti – e di cui diremo brevemente – il documento parla anche d’altro. Il capitolo centrale, dedicato alle “Priorità per la cooperazione” contiene una sezione intitolata “i rapporti tra persone” (people-to-people bond) che ha la seguente premessa: “I legami tra individui costituiscono la base per realizzare l’iniziativa. Dovremo sospingere lo spirito di amichevole cooperazione della Via della Seta promuovendo estesi scambi culturali e accademici, scambi di personale, cooperazione dei media, scambi di giovani e di donne, e di servizi del volontariato, in modo tale da rafforzare la cooperazione bilaterale e multilaterale”. Prosegue il documento specificando che “dovremo aumentare gli scambi di studenti tra paesi…”, e “espandere la scala del turismo…”, oltre a rafforzare la cooperazione con scambi di personale medico; “espandere le collaborazioni nella scienza e nella tecnologia, creando centri di ricerca congiunti…”, nonché creare iniziative comuni sui temi “dell’occupazione giovanile, la formazione degli imprenditori, lo sviluppo della formazione professionale…”. E altro ancora. La BRI, dunque, no riguarda solo colossali investimenti in infrastrutture, ma anche lo sviluppo degli scambi umani, e quindi della mobilità e, per conseguenza, delle migrazioni.

Le ambizioni della Cina

Il Ministero degli Affari Esteri così sintetizza le caratteristiche del piano². “A fine 2013 il Governo di Pechino ha lanciato la Belt and Road Initiative (BRI), che oggi costituisce uno degli assi portanti della diplomazia economica cinese. Si tratta soprattutto di un programma di investimenti infrastrutturali che punta a sviluppare la connettività e la collaborazione tra la Cina e almeno altri 70 paesi localizzati in un’area che rappresenta il 30% de PIL mondiale, racchiudendo almeno il 70% della popolazione e possiede oltre il 75% delle riserve energetiche…Verranno realizzati sei corridoi di trasporto, via terra e via mare, che consentiranno alla Cina di differenziare le proprie rotte commerciali, indirizzando il surplus produttivo verso nuovi mercati, di accedere a nuove fonti di approvvigionamento energetico e di espandere l’influenza politica e economica cinese”. Il corridoio terrestre (Silk Road Economic Belt) collegherà i mercati cinesi con quelli europei e la Turchia per via ferroviaria, e col subcontinente indiano tramite Tailandia e Myanmar. Il corridoio marittimo (Maritime Silk Road) collegherà la Cina con il Mediterraneo, attraverso Suez, e gli stati dell’Asia meridionale e dalla costa orientale dell’Africa (Figura 1). Per rendere operanti queste direttrici (è prevista anche una Silk Road Polare), occorreranno massici investimenti in ferrovie, strade e autostrade, oleodotti, elettrodotti, porti, aeroporti, ponti, canali, stazioni intermodali. Ma per tutto questo occorrerà trovare una montagna di soldi: le stime parlano di un monte di investimenti compreso tra 1700 e 4000 miliardi di dollari. E soprattutto occorrerà sviluppare il consenso politico e assicurare stabilità a una vasta parte del globo, composto da paesi profondamenti diversi, spesso in potenziale conflitto.

Sviluppo, commercio e mobilità

Il grande progetto BRI avrà, se realizzato, una notevolissima rilevanza geopolitica. La Cina intende rafforzare la propria leadership in Asia, mediante la potente leva economica, assicurarsi l’appoggio della Russia, avvicinare l’Europa, estendere la propria influenza sulla parte orientale dell’Africa. Ma la proiezione esterna viene interpretata, dai più attenti osservatori, anche in chiave interna, come una grande operazione per accelerare lo sviluppo delle regioni interne ancora prigioniere dell’arretratezza, come una via per mettere a frutto le immense riserve finanziarie accumulate in decenni di frenetico sviluppo, come un modo per liberarsi del surplus di capacità produttiva, esportando nell’area della BRI non solo prodotti, ma soprattutto capacità imprenditoriali e tecnologiche, e le imprese stesse³.

Sui convogli che per mare e per terra legheranno sempre più strettamente Oriente e Occidente, sui canali di comunicazioni, e le altre connessioni che saranno sviluppate da BRI, non passeranno solo manufatti, derrate alimentari, prodotti energetici, ma anche persone, conoscenze e tecnologie. BRI costituirà anche un ambiente di accresciuta mobilità e migrazione. Darà anche impulso a quella “quarta globalizzazione” migratoria diversa dalle prime tre che furono composte soprattutto da persone in cerca di insediamento permanente o di duraturi periodi di residenza[4]. Si tratterà, oltre alle figure tradizionali di lavoratori migranti e dei loro familiari, di studenti, scienziati, tecnici, dipendenti di multinazionali, operatori sociali, viaggiatori per lavoro, turisti, persone legate da parentele ed affetti nei paesi di destinazione. Sugli effetti che BRI potrà avere nei paesi e lungo le direttrici coinvolte, si possono solo fare congetture, utilizzando quel poco che si sa sull’attualità. Si tratta inoltre di paesi che oltre a contenere quasi due terzi della popolazione mondiale, hanno condizioni di vita diversissime, e contrastanti ritmi di sviluppo demografico. Cina e Asia orientale hanno popolazioni in tendenziale ristagno o arretramento, e una popolazione in età attiva in diminuzione, così come la Russia e l’Europa orientale. Rapidissima è invece la crescita delle popolazioni africane. Ma anche la Cina, pur avviata al declino demografico, ha un’enorme popolazione “fluttuante” poco funzionale ad un’economia destinata a moderare gli alti tassi di crescita del passato. Buona parte della mobilità e delle migrazioni è di natura intra-regionale, all’interno della Unione Economica Euroasiatica (EAEU), con Russia e Kazakistan che ricevono flussi di lavoratori cinesi; nella regione della Cooperazione Economica Asiatico-Pacifico (APEC) o dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est Asiatico (ASEAN), dove l’irregolarità e il lavoro nero sono la regola. Esempi sono i lavoratori nel settore delle costruzioni e dei servizi in Tailandia provenienti da Myanmar, e perfino i Vietnamiti impiegati nell’agricoltura nel Guangxi in Cina[5]. Diversa è la migrazione dei cinesi, con contratti di 1-3 anni, che lavorano per imprese, per lo più di proprietà dello stato, coinvolte in grandi opere infrastrutturali in Africa ed altrove. Si tratta di lavoratori al seguito delle centinaia di grandi imprese che costruiscono strade, ferrovie, impianti. Si tratta di manodopera, anche con familiari al seguito, spesso insediata in appositi complessi abitativi temporanei, la cui permanenza, determinata dalla durata del contratto di lavoro, è, come detto, di qualche anno. Una seconda categoria è costituita da piccoli imprenditori, commercianti e negozianti che hanno buon successo e radicamento soprattutto nei grandi centri urbani, dove stanno sorgendo vere e proprie “Chinatown”. Non mancano migranti, poveri contadini, incoraggiati all’emigrazione con la prospettiva di diventare proprietari di terra e di essere assistiti nella vendita dei prodotti.

La diaspora cinese

Restiamo alla Cina, che contribuirà in modo significativo alla mobilità lungo le direttrici BRI, e nei paesi della regione. Affidandoci alle stime delle Nazioni Unite, lo stock migratorio nel 2017 (Tabella 1, Figura 2), sfiorava i 10 milioni (Tabella 1, circa 7,5 milioni se si eliminano i cinesi in Hong Kong e Macao, solo formalmente territori esteri), appena il 4% dello stock totale nel mondo (contro il 19% della popolazione mondiale), meno dell’India (16,5 milioni), del Messico (13,6 milioni) e della Russia (10,6 milioni).


Tra il 1990 e il 2017, la diaspora cinese è aumentata del 136%, con una velocità doppia rispetto al +70% per l’intero stock mondiale. C’è dunque una buona propensione alla mobilità. Nel futuro, oltre alle opportunità economiche che potranno presentarsi, avranno molta importanza le politiche migratorie poste in atto dai vari paesi, che nel lungo periodo sono anche legate alle possibilità d’integrazione. Le migrazioni connesse con il lavoro nei grandi progetti condotti da imprese cinesi, vivono in enclave che hanno pochi o punti contatti con le popolazioni locali. In altri casi le comunità cinesi tendono a formare enclave etniche relativamente chiuse. La Figura 3 fornisce un quadro assai interessante sull’atteggiamento dell’opinione pubblica nei riguardi dei cinesi: una opinione favorevole (oltre il 70% degli intervistati) è espressa in Pakistan, Etiopia, Russia e Nigeria; intermedio (tra il 50 e il 70% di favorevoli) è il caso di Indonesia, Corea del Sud, Brasile, Argentina; mentre in gran parte dei paesi occidentali, compresa l’Italia, l’opinione favorevole è espressa da meno del 50% degli intervistati, col minimo assoluto del 9% in Giappone.

Nel 1990, i cosiddetti “viaggiatori internazionali” cinesi furono circa 1 milione; nel 2006 furono 28,8 milioni; nel 2017 hanno toccato i 131 milioni. Se questo è un indicatore della mobilità, si può intuire quali vigorosi impulsi ai movimenti umani (e alle migrazioni), possa provenire dalla (eventuale) realizzazione delle nuove Vie della Seta.

Note

¹ Ministry of Foreign Affairs, Vision and actions of jointly building silk road economic belt and 21st century maritime silk road, Marzo 2015,

²MAE, La Belt and Road Initiative avvicina Pechino all’Europa, Diplomazia Economica Italiana, Anno XI, 17 Aprile 2018

³ Benjamin Habib e Viktor Faulknor, The Belt and Road Initiative: China’s vision for globalisation,Beijing-style, 2017, ; Bert Hofman, China’s One Belt One Road Initiative: What we know thus far, https://blogs.worldbank.org/eastasiapacific/china-one-belt-one-road-initiative-what-we-know-thus-far

[4] La prima, nel XVI-XVII secolo, dopo il contatto tra Eurasia e America; la seconda, da metà ‘800 alla Prima Guerra Mondiale; la terza, nella seconda metà del secolo scorso.

[5] Hui Wang, The opportunities and challenges of migration in the Belt and Road region.

Nota figura 1 – shukrabar.nagariknetwork.com