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Clima e popolazione

Attorno al tema delle relazioni fra cambiamento climatico, riscaldamento globale e “sovrappopolazione” il dibattito è acceso da tempo (Cohen, 1995). Molti studiosi e operatori politici si sono concentrati sui paesi più popolosi del pianeta (Cina e India), additandoli quali principali responsabili dell’inquinamento globale. Secondo altri, invece, sarebbero i paesi sviluppati (Ps) i veri responsabili del riscaldamento globale, a causa dei passati e attuali consumi, ben maggiori di quelli dei paesi emergenti o in via di sviluppo (Pvs).

Crescita economica ma decrescita ambientale

Nel recente passato, i leader delle grandi potenze economiche (Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia) hanno espresso la loro riluttanza a vincolarsi a obiettivi globali di riduzione delle emissioni di gas serra se i Pvs non avessero fatto lo stesso (Anup 2010).

Non riferendosi direttamente a problemi di sovrappopolazione, nella pubblicazione di Worldwatch State of the World 1998, Brown scriveva: “Mentre gli indicatori economici come investimenti, produzione e commercio sono costantemente positivi, i principali indicatori ambientali sono sempre più negativi. Le foreste stanno diminuendo, le falde acquifere sono sempre più profonde, l’erosione del suolo sta aumentando, le paludi stanno scomparendo, i fiumi hanno sempre meno acqua, la temperatura s’innalza, le barriere coralline stanno morendo, sempre più specie animali e vegetali stanno scomparendo dalla faccia della terra. L’economia globale così come è organizzata oggi non può continuare ad espandersi ancora per lungo tempo se l’ecosistema dal quale dipende continua a deteriorarsi con questo ritmo”.

Il riscaldamento globale è uno degli effetti più macroscopici del deterioramento ambientale. Il mantenimento della temperatura della biosfera terrestre attorno a valori medi adatti alla vita è dovuto principalmente all’azione combinata di cinque fattori:

  1. Calore interno del pianeta
  2. Irraggiamento solare, che fornisce l’energia per l’effetto serra ed elementi correlati alle variazioni dell’attività solare e delle macchie solari.
  3. Effetto delle correnti oceaniche e dell’evaporazione marina (e dei fenomeni ad essa correlati)
  4. Presenza dell’atmosfera, che attenua gli sbalzi di temperatura giornalieri e stagionali
  5. Effetto serra naturale, che amplifica l’effetto termico dell’irraggiamento solare

Schermata 2016-01-08 a 09.57.09La variazione quantitativa di uno o più di questi fattori può causare un riscaldamento o un raffreddamento globale dell’atmosfera e superficie terrestre. A tali fattori naturali, secondo la teoria del global warming, si aggiunge l’influenza dell’uomo che attraverso l’uso di combustibili fossili immette nell’atmosfera grandi quantità di CO2, metano e altri gas che aumentano l’azione dell’effetto serra e generano surriscaldamento, oltre a numerose altre anomalie climatiche (Figura 1).

“Gli indicatori del clima in Italia”

E’ il titolo di un rapporto periodicamente realizzato da ISPRA, in collaborazione e con i dati degli organismi titolari delle principali reti di osservazione presenti sul territorio nazionale. Dall’ultimo rapporto, del 2014, emerge che il 2013 è stato un anno più caldo della media climatologica. Nel mondo, il 2013 è stato in assoluto uno degli anni più caldi dell’ultimo mezzo secolo: l’anomalia della temperatura media sulla terraferma, rispetto al trentennio climatologico di riferimento 1961-1990, è stata di +0.88°C e situa il 2013 al 4° posto dell’intera serie dal 1961. In Italia, il 2013 è stato il 22° anno consecutivo con temperatura media più elevata della norma e, con un’anomalia media di +1.04°C, si colloca al 10° posto nell’intera serie. Complessivamente, nel 2013 gli indicatori di temperatura e precipitazione sono stati derivati da circa novecento stazioni distribuite sull’intero territorio nazionale.

Schermata 2016-01-08 a 09.55.46Un esempio emblematico è rappresentato dalla Regione Sardegna. Il 18 novembre 2013 sulla Sardegna è transitato un fronte freddo associato ad un ciclone extratropicale che da alcuni giorni stazionava sul Mediterraneo occidentale. Sulla regione sono stati registrati fino a 469.6 mm di pioggia presso la stazione di Monte Nuovo S. Giovanni (Orgosolo, NU), bacino del Cedrino e del Posada, con intensità massime fino a 99 mm/h a Orgosolo e 83 mm/h a Oliena (NU). Valori estremi sono stati misurati anche nei bacini del Flumedosa, dell’Olbia-Arzachena e del Medio Campidano (figura 2). Il centro abitato di Olbia è stato in buona parte sommerso dalla piena dei torrenti che attraversano la città e sono stati colpiti anche numerosi centri minori, come Arzachena (OT), Oliena (NU), Dorgali (NU), Torpè (NU), Galtellì (NU) e Uras (OR). L’alluvione ha provocato 17 vittime e l’allagamento di centinaia di edifici pubblici ed abitazioni; ha distrutto centinaia di automezzi, provocato il crollo di ponti e l’interruzione di strade e ferrovie, con danni complessivi per circa 650 milioni di euro. Tale evento è stato secondo solo a quello che si verificò tra il 14 e il 19 ottobre 1951, determinato da una configurazione analoga del flusso atmosferico ma con carattere di maggiore stazionarietà rispetto al 2013. Anche in quel caso le zone più colpite furono i rilievi orientali della Sardegna, che ricevettero tra 400 e 500 mm di pioggia in 24 ore per due-tre giorni, per un totale anche superiore ai 1000 mm.

Il principio di “responsabilità comuni ma differenziate”

Malgrado gli autorevoli, anche se indubbiamente faziosi, pareri dei leader politici mondiali, il mondo scientifico ha convenuto che, a causa del modo in cui i gas serra si sono accumulati nell’atmosfera per decenni, sono stati i Ps di oggi i responsabili del cambiamento climatico. Di conseguenza, è apparso logico non costringere i Pvs agli stessi obiettivi di contenimento delle emissioni dei Ps. La strada suggerita è diversa: i Pvs sono stati spronati a seguire un percorso di sviluppo diverso, caratterizzato dall’utilizzo di tecnologie più pulite e sostenibili. Tale modello è definito il principio di “responsabilità comuni ma differenziate”. Riassumendo, la questione della “giustizia climatica ed equità” si potrebbe sintetizzare nei punti seguenti: il mondo intero ha l‘obbligo di ridurre le emissioni di gas serra nocivi; i gas serra si accumulano nell’atmosfera per decenni e secoli, cosicché sono ancora presenti nell’atmosfera terrestre enormi quantità di emissioni dei paesi industrializzati; mentre i Pvs sono in crescita e quindi aumentano le loro emissioni, la strada dello sviluppo è per essi relativamente recente, e sarebbe quindi ingiusto imporre loro delle sanzioni nella stessa misura delle nazioni industrializzate, visto che 1977, per esempio, ai tempi del protocollo di Kyoto l’emissione di un cittadino statunitense era pari a quella di 19 indiani.

Non solo popolazione ma politiche responsabili

Sebbene una teoria “malthusiana” della relazione tra crescita demografica e ambiente suggerisca che al crescere della popolazione aumenti il degrado ambientale, questa ipotesi appare eccessivamente semplificatrice: fattori come la politica e l’economia (cioè il modo in cui sono utilizzate le risorse e per quale scopo) hanno determinato il degrado ambientale e la sostenibilità. Ad esempio, i Ps consumano circa l’80% delle risorse mondiali, mentre il resto della umanità condivide l’altro 20%. Cina e India non sono stati i paesi che hanno maggiormente contribuito all’effetto serra nei passati decenni: mentre la quantità totale delle loro emissioni è elevata (la Cina viene al secondo posto dopo gli Stati Uniti, per esempio), le loro emissioni pro-capite sono significativamente minori.

Un ulteriore problema però, è che paesi come la Cina, l’India e il Brasile crescono in prosperità e in potere d’acquisto. Essi consumeranno più beni e servizi e, data la loro popolazione complessiva (oltre 2,5 miliardi), se dovessero seguire il modello di sviluppo dei Ps, potrebbero causare gravi rischi per l’intero pianeta.

Nel corso del tempo sono via via emerse nuove tecniche che rendono oggi possibile uno sviluppo sostenibile, finalizzato a “traghettare” la terra verso le prossime generazioni. Gli investimenti in tecnologie alternative sono quindi importanti, e sono in alcuni casi già attuati in molti paesi in transizione, tra cui ad esempio la Cina e il Brasile.

La Conferenza sul clima di Parigi nel dicembre 2015

Ma veniamo alla recentissima notizia positiva. Dopo anni di sforzi alla ricerca di una visione comune e di azioni positive per affrontare il problema dell’emissione dei gas serra e del surriscaldamento globale, finalmente lo scorso 12 dicembre a Parigi è stato firmato un accordo sul clima, definito “storico” sia da Fabius (Ministro degli Esteri della Francia) che da Hollande (Presidente della Repubblica).

Ma non si tratta solo di parole: è stato infatti confermato il fondo da 100 miliardi di dollari per i paesi in via di sviluppo come aiuto al fine di prendere le dovute misure per arginare l’inquinamento. L’accordo prevede un piano quinquennale concordato da tutti i Paesi per limitare il surriscaldamento globale. L’intesa limita il riscaldamento a un livello «ben al di sotto dei 2° entro il 2020, forse fino agli 1,5°». E ancora i piani nazionali per il taglio dei gas serra saranno sottoposti a revisione ogni 5 anni. Fabius ha sottolineato che «da qui al 2020 sarà un punto di partenza, un nuovo obbiettivo con un’altra cifra dovrà essere stabilito nel 2025». Ha poi concluso citando Nelson Mandela: «Nessuno di noi agendo da solo può raggiungere il successo, il successo è portato da tutte le nostre mani riunite».

Per saperne di più

Anup S. (2010) “Global warming and population” December, in

Cohen, J. (1995) How many people can the Earth support?, New York

ISPRA (2014) – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, Gli indicatori del clima in Italia nel 2013