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Le prospettive demografiche dell’Africa (II parte) una natalità insostenibile

Abbiamo discusso, nella prima parte di questo scritto, il legame tra arretratezza e alta mortalità in molte parti dell’Africa. Una sopravvivenza precaria è un fondamento anch’esso precario per lo sviluppo. Tuttavia, soprattutto con il contenimento della devastante epidemia di AIDS, la situazione è in via di miglioramento, come dimostrano i dati più aggiornati. E questo fa sperare che anche i comportamenti riproduttivi possano presto concorrere a rendere più matura la esuberante demografia del continente.

Una natalità con pochi freni

Schermata 2015-12-04 a 10.49.37A fronte di una sopravvivenza arretrata, ma in miglioramento, sta una natalità ancora elevatissima (Tabella 1). Il ricorso ai metodi di controllo delle nascite, sia quelli tradizionali, sia quelli moderni, è limitato. L’età ai primi rapporti sessuali, alla prima unione e alla nascita del primo figlio è ovunque molto bassa. Nell’intera regione a sud del Sahara, il numero medio di figli per donna è stato superiore a 6 fino agli anni ’90 ed è sceso a 5,1 nel quinquennio 2010-15. In alcuni paesi, come la Nigeria (il paese più popoloso del continente), il Niger, i due Congo, il Mali, la Somalia, il Chad, le donne hanno 6 o più figli – il triplo di quanti ne occorre mettere al mondo perché la popolazione si mantenga stazionaria. In questi paesi la limitazione volontaria delle nascite è quasi inesistente. Diversa è la situazione nei paesi del nord Africa e dell’Africa meridionale, nei quali la fecondità è per lo più compresa tra 2 e 3 figli per donna. La persistenza dell’alta fecondità rende urgenti politiche sociali adeguate, maggiore istruzione, valorizzazione del lavoro della donna, l’introduzione di misure di welfare per sottrarre le generazioni più anziane dalla completa dipendenza dai trasferimenti operati dai figli; l’introduzione o il rafforzamento di programmi di pianificazione familiare al fine di ridurre la proporzione delle donne che non hanno accesso ai metodi di regolazione delle nascite (o che addirittura non ne conoscono l’esistenza).

Le conseguenze dell’alta natalità

Si è fatto riferimento alle proiezioni demografiche delle Nazioni Unite, basate su ipotesi che raccolgono il consenso della maggioranza degli esperti e che, nel passato, si sono rivelate assai affidabili. Tra il 2015 e il 2050, secondo un’ipotesi “media” (che prevede una riduzione del numero dei figli per donna da 4,7 a 3,2 , ed un aumento della speranza di vita da 58 a 69 anni), la popolazione africana raddoppierebbe da 1,2 a 2,5, miliardi. Tuttavia molte sono le incertezze, come dimostra il caso della Nigeria, dove nonostante che i piani del Governo mirino ad una sostenuta riduzione della fecondità, questa risulta “inchiodata” ad oltre 6 figli per donna, senza segnali di riduzione. Se nulla cambiasse rispetto ad oggi, la popolazione della Nigeria passerebbe dai 180 milioni di abitanti attuali ai 509 nel 2050: una popolazione triplicata nel giro di 35 anni, con una struttura per età giovanissima (età mediana di 17 anni, perfino inferiore ai 18 di oggi!). Una dinamica del tutto simile, e del tutto insostenibile, contraddistinguerebbe l’intera regione a sud del Sahara. La geografia del popolamento, intanto, cambia rapidamente. Tra il 2015 e il 2050, tornando all’ipotesi media di sviluppo, la popolazione aumenterà del 121% nell’Africa sub-Sahariana; del 58% nell’Africa del nord; del 24% nell’America centro-meridionale; del 20% in Asia e del 3% nelle regioni sviluppate. Nel 1990, tra i 10 paesi più popolosi del pianeta, non c’era alcun paese africano; nel 2050 la Nigeria si troverà al quarto posto (dopo Cina, India e Stati Uniti), assieme alla Repubblica del Congo e all’Etiopia, rispettivamente al nono e al decimo posto.

Smontare la trappola neomaltusiana

Povertà; nutrizione inadeguata e insufficiente; alta incidenza delle patologie; elevata mortalità; riproduttività senza controllo, con i suoi corollari di madri troppo giovani e precaria salute materna e infantile, sono le classiche maglie di una catena che soffoca lo sviluppo. O meglio, di quella spirale maligna che fu anche definita “trappola maltusiana”. Spezzarla è, ancora oggi, una priorità della comunità internazionale oltreché, evidentemente, dei governi. Una comunità internazionale che sembra ritenere superata e comunque non prioritaria la questione demografica. Ci sono però tre ragioni di fondo per riportarla al centro del dibattito. La prima è che la trappola può essere smontata con azioni coerenti e decise, anche sulla traccia di politiche sperimentate in passato. La fame può essere circoscritta e vinta; le peggiori patologie possono essere contrastate e la sopravvivenza migliorata; la riproduttività può essere posta sotto controllo. Le risorse non mancano e le competenze neppure. La seconda ragione è che nutrizione adeguata, buona salute, migliore sopravvivenza, riproduttività controllata sono componenti essenziali del capitale umano, decisivo per lo sviluppo. La terza è che la debolezza di questi elementi portanti del capitale umano sono una delle maggiori cause delle disuguaglianze. Fame e malnutrizione compromettono l’equilibrato sviluppo di chi le soffre; aumenta il rischio di permanere in povertà; si associano ad un minor controllo della riproduttività e ad un alto numero di figli. La trappola maltusiana si riproduce così a livello individuale e familiare.

 

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