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La migrazione non è un problema europeo

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La gestione del fenomeno migrazione da parte degli stati europei non è mai stata così scoordinata e litigiosa come negli ultimi mesi. Dietro i battibecchi sulle quote di ripartizione e sulla distinzione tra profughi veri e migranti economici si nasconde una questione ben più di fondo. Quella se accogliere o respingere i migranti. Ovvero la scelta tra solidarietà e rifiuto. Finora l’Europa ha dato una risposta emotiva, con belle dichiarazioni all’indomani dei naufragi, alle quali però non sono seguiti gli impegni che la gravità del fenomeno avrebbe richiesto.

Nel complesso la risposta è stata contraddittoria, insufficiente ed anche un po’ ipocrita: l’accoglienza va data sì, ma soltanto a coloro che scappano dalle guerre. Solo che poi si vogliono innalzare muri o distruggere i barconi che consentono ai profughi, anche a quelli che scappano dalle guerre, di compiere, sempre che ci riescano, l’ultimo tratto del loro lungo viaggio verso la salvezza. Quanto alla differenza tra aventi diritto o meno all’asilo, tra chi emigra perché perseguitato e chi lo fa per via della miseria, va detto che la linea di demarcazione tra le due categorie non è netta. La disperazione di coloro che fuggono dalla miseria è del tutto simile a quella di chi fugge dalla guerra. I pericoli che affrontano durante il viaggio e i rischi che corrono per arrivare in Europa sono esattamente gli stessi.

Dopo esser scampati alle persecuzioni nelle loro terre di origine e a quelle patite nel lungo viaggio, giunti in Europa i profughi devono sottostare a nuove persecuzioni rappresentate da procedure burocratico-amministrative, da leggi nazionali e da accordi internazionali la cui efficacia è spesso discutibile. Un esempio è il trattato di Dublino, diventato oggetto esso stesso di contrasti tra i capi di stato europei, divisi tra chi ne invoca la rigida applicazione e chi ne vuole l’abolizione. Ne deriva un immobilismo deleterio che impedisce di mettere in piedi un sistema di accordi, di risorse, di regole in grado di prendere di petto la vera questione di fondo, quella della governabilità  del fenomeno migratorio. Ciò sarebbe non solo necessario ma anche conveniente, secondo autorevoli economisti e demografi, visto che la popolazione europea sta vistosamente diminuendo.

Per governare la migrazione bisogna conoscerla e per conoscerla è necessario partire dai numeri che la caratterizzano. Il 18 giugno scorso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha pubblicato il suo ultimo rapporto, relativo al 2014, e ha segnalato una forte impennata, a livello mondiale, del numero di persone costrette a lasciare le loro case, con oltre 8 milioni di profughi in più rispetto al 2013. L’incremento è il più alto mai registrato in un solo anno. Complessivamente a fine 2014 nel mondo c’erano quasi 60 milioni di profughi. Su scala planetaria un individuo su centoventi ha abbandonato la propria casa per trovare altrove salvezza. Ma solo una percentuale molto bassa ha affrontato i pericoli, i rischi e le difficoltà del viaggio per arrivare in Europa.

Tra i primi dieci paesi che danno ospitalità ai rifugiati non ce n’è nessuno europeo. La maggior parte dei profughi ha trovato ospitalità in paesi limitrofi a quelli da cui sono fuggiti. Esempi emblematici sono quelli della Turchia che è diventato il paese che ospita il maggior numero di profughi in assoluto (ca. 1,7 milioni), seguito dal Pakistan (ca. 1,5 milioni), dal Libano (ca. 1,2 milioni), dall’Iran (ca. 1 milione), dall’Etiopia (ca. 0,7 milioni), dal Kenia (ca. 0,6 milioni). A questi numeri si aggiungono quelli dei cosiddetti sfollati interni, persone che hanno abbandonato le proprie case, ma che ancora vivono all’interno dei loro paesi. Sono oltre 38 milioni. Quando i capi di stato europei bisticciano a causa delle quote di ripartizione dovrebbero considerare le cifre suddette e fare i dovuti rapporti.

I dati dell’ONU mostrano come finora l’emergenza migrazione, che molti in Europa drammatizzano definendola epocale e di dimensioni bibliche, abbia interessato relativamente poco il vecchio continente. Finora. Il problema se mai è quello di capire cosa succederà in futuro. Probabilmente il fenomeno migratorio che stiamo osservando è soltanto agli inizi. Stante l’attuale situazione di crisi in vaste aree del mondo, in particolare in Africa e Medio Oriente, esso continuerà nel tempo con accelerazioni e rallentamenti determinati dal sussistere o dal venir meno delle sue cause: conflitti armati, guerre civili, terrorismo, povertà, carestie, disastri naturali.

E’ difficile immaginare gli scenari che si presenteranno nel giro di sei mesi, un anno o dieci anni a partire da oggi. Tuttavia alcune ipotesi sono possibili fin da ora. La prima riguarda i muri già esistenti e quelli che verranno edificati all’interno o lungo i confini esterni dell’Europa. Non serviranno a fermare le migrazioni. La seconda riguarda eventuali azioni militari nel Mediterraneo, se mai verranno autorizzate con una risoluzione ONU. Non porteranno alcun beneficio, semmai saranno controproducenti. Distruggere con le armi i barconi degli scafisti non bloccherà i flussi di migranti dai paesi dell’Africa subsahariana verso la Libia, piuttosto ne peggiorerà le chance di sopravvivenza. Poco cambierà se la mattanza non avverrà più nelle acque del Mediterraneo. La terza ipotesi riguarda i rigurgiti di tipo nazionalistico-populistico in atto in svariati paesi europei. Quello della Danimarca è solo l’ultimo esempio. Se avranno successo trasformeranno l’Europa in senso involutivo.

Nonostante finora l’emergenza migratoria l’abbia toccato relativamente poco, essa potrebbe rivelarsi fatale per il vecchio continente. Che corre il duplice rischio della disgregazione come società e come istituzione politica. Questa disgregazione potrebbe far precipitare l’Europa indietro di mezzo secolo. Se la politica non è in grado di cogliere la gravità di questo rischio, dovrebbero farlo i cittadini e la società civile vedendo nella migrazione non un pericolo, ma un’opportunità per riformare l’Europa in senso progressista.