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La guerra nel Mediterraneo

“Fatal Journeys”  si intitola un rapporto dell’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni (OIM) sulle tragiche conseguenze dei viaggi dei migranti, quasi sempre rifugiati o irregolari, verso gli approdi sperati1. Viaggi per mare e per terra, e a volte anche aerei, conclusi tragicamente con la morte degli sventurati. Il rapporto censisce oltre 4.000 perdite nel 2013, sicuramente un dato largamente sottostimato,  che tiene in conto solo i casi accertati e limitatamente ad alcune zone  del pianeta scrutate – seppure imperfettamente – dall’occhio delle autorità di frontiera e dei media: oltre al Mediterraneo, la regione di confine tra Messico e Stati Uniti, il Golfo del Bengala, l’Africa orientale ed altre ancora (Figura 1).

In un mondo nel quale lo stock di migranti si avvicina al quarto di miliardo, e nel quale centinaia di migliaia – e forse milioni – sono gli irregolari che traversano le frontiere, queste cifre possono apparire poco rilevanti a fronte delle conseguenze di altre immani tragedie che colpiscono l’umanità. Ma spostiamo l’attenzione sul mare Mediterraneo che circonda il nostro Paese: un mare ben conosciuto da millenni, solcato e sorvolato da innumerevoli navi e aerei, percorso via etere da miliardi di connessioni, tenuto sotto controllo dagli occhi elettronici dei satelliti. Ebbene in questo “lago”, nella parte del pianeta di più antica e raffinata civiltà, sono accadute, nel 2013, tre quarti delle tragedie registrate dall’OIM. Neodemos invita di nuovo i propri lettori ad alcune riflessioni.

La tragedia del Mediterraneo non è la conseguenza di quei movimenti migratori che rispondono alla naturale inclinazione alla mobilità delle popolazioni, ma discende dalla catastrofe politica e sociale che si sta consumando in Siria, in Iraq, in Eritrea, in Somalia e altrove; nonché della instabilità esplosiva di molte altre regioni mediorientali e africane. Non sono le normali politiche migratorie quelle che possono affrontare gli straordinari flussi di rifugiati ma misure di protezione ed accoglienza integrate in un quadro di generale condivisione internazionale. Ricordiamo un dato agghiacciante: 2,5 milioni di siriani sono oggi rifugiati negli stati confinanti: Turchia, Libano, Iraq e Giordania.

Tra l’inizio dell’anno e l’inizio di Ottobre, gli sbarchi sulle coste italiane di migranti, quasi tutti bisognosi di protezione internazionale, avevano superato le 140.000 unità. “Mare Nostrum”, il salvataggio in mare anche oltre le acque territoriali,  è un’operazione coraggiosa portata avanti con grande competenza ed efficienza. E’ un atto politico di alto valore umanitario, degno di un grande paese, che ci ha guadagnato rispetto e ammirazione internazionale. Nel nostro acciaccato paese, deve essere motivo di vanto patriottico, e l’operazione deve continuare.  L’inerzia e la lontananza dell’Europa sono palpabili – come evidente è il fallimento dei tentativi di Alfano di coinvolgerla – e l’intervento di Frontex, con l’operazione Triton, è timido e modesto, e forse perfino dannoso sotto il profilo politico. Aderendo strettamente al suo mandato, Frontex (agenzia strutturalmente debole), con Triton, si limiterà a battere le aree delle acque territoriali  (e poco oltre), con qualche nave in più, senza curarsi di ciò che avviene in mare aperto.  Diciamolo chiaro e tondo: si configura come un mero rafforzamento delle frontiere europee e per di più con modesti finanziamenti (2,9 milioni di euro al mese). Sotto il profilo del coinvolgimento europeo sul tema dei rifugiati, la guida italiana del semestre europeo  – fino ad oggi – non ha sortito effetti.

Una Europa così confusa e assente quale contributo può dare ad una politica internazionale capace di fronteggiare i colossali problemi dei rifugiati? Come riuscire a contenere il crescente numero delle morti in mare? Le regole internazionali stabiliscono che si possa richiedere asilo solo arrivando alla frontiera di un paese “sicuro”; il Trattato di Dublino impone che solo in quel paese si possa avanzare formale domanda di asilo. La conseguenza è che il migrante rischia la vita traversando il mare per bussare alle porte di Italia (o Spagna, Grecia o Malta…); ma che una volta toccate le coste siciliane, se avanza domanda di asilo deve restare in Italia anche se ha parenti od amici in altro paese di Europa. Meno di un terzo degli sbarcati sulle nostre coste avanza, infatti, domanda di asilo. Molti non si fanno identificare. Tanti riformano il trattato di Dublino con le loro gambe…cercando di varcare le frontiere interne europee in cerca di sistemazione altrove.

Un’azione internazionale decisa e pesante dovrebbe coinvolgere la UE, le Agenzie internazionali (UNHCR in primis), l’Unione Africana, e singoli paesi. Essa potrebbe predisporre presidi nei paesi di transito, sotto egida internazionali, presso i quali si possano presentare domande di asilo; organizzare corridoi umanitari là dove le emergenze lo richiedessero; rafforzare i programmi di resettlement nei campi profughi; essere in grado di disegnare interventi ad hoc quando l’imprevedibilità degli eventi lo richieda. Missione impossibile? Forse sì: ma i 20.000 morti nel mare nostrum nell’ultimo ventennio la richiedono a gran voce.

 

1 – International Organization for Migration (IOM), Fatal Journeys.  Tracking Lives Lost During Migration, Geneva, 2014

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