Va dato atto al governo attuale di aver riproposto con forza il tema dell’eccesso di burocrazia come elemento di freno del paese, anche se le prime proposte di riforma non sembrano adeguate per cambiare verso e riprendere il solco tracciato, ormai vent’anni fa, dalle “leggi Bassanini” , che furono il più serio tentativo di innovazione prodotto su questo terreno.
Dipendenti pubblici di ruolo: non troppi, ma vecchi e mal distribuiti
C’è un primo elemento di riflessione da cui partire, che investe proprio le dimensioni quantitative dell’amministrazione pubblica. Il lavoro della ministra Madia sembra prendere spunto dall’analisi condotta dal Forum della Pubblica Amministrazione nel maggio 2013 con l’eloquente titolo (e sottotitolo): “I dipendenti pubblici in Italia sono troppi? No, sono solo troppo vecchi, poco qualificati e mal distribuiti. Un’analisi comparata del pubblico impiego in Italia, Francia e Regno Unito”1. Cinquanta pagine di dati per sostenere che i pubblici dipendenti non sono troppi (Figura 1): circa il 15% del totale degli occupati, contro il 20% della Francia e il 19% del regno unito. Sono però mediamente più anziani che altrove (in Francia il 28% dei lavoratori pubblici ha meno di 35 anni, in UK sono il 25%, ma in Italia solo il 10%), e sono mal distribuiti: si passa dal 13% di impiegati pubblici sul totale degli occupati in Calabria al 6% della Lombardia. Mentre sul piano retributivo si riconosce il vantaggio sul settore privato, ma si insiste sugli effetti del blocco deciso nel 2010.
Oltre un milione di precari nella P.A.
Sono dati abbastanza noti, ma con una omissione importante: i 3,3 milioni di dipendenti pubblici considerati sono quelli “di ruolo”, ma non includono i numerosi precari che lavorano per la P.A. con contratti di vario tipo. Ma quanti sono questi precari? L’ARAN (Agenzia per la rappresentanza negoziale nelle pubbliche amministrazioni) a fine 2011 aveva diffuso il dato di 317 mila, riferito ai contratti a tempo determinato. Ma nell’autunno scorso la CGIA di Mestre ha allargato il raggio di analisi comprendendo anche i liberi professionisti che presentano contemporaneamente tre vincoli di subordinazione (un solo committente, imposizione dell’orario di lavoro e utilizzo dei mezzi dell’azienda), lavoratori part-time involontari e lavoratori con contratti a termine involontari, quelli cioè che lavorerebbero a tempo indeterminato se ne avessero la possibilità 2. Ne esce un quadro completamente diverso: perché in questo computo il numero dei precari pubblici si moltiplica almeno per tre. Su 3,3 milioni di lavoratori precari in Italia, la più alta concentrazione si registra proprio nel pubblico impiego: infatti la CGIA ne calcola 514.814 nella scuola e nella sanità e 477.299 nei servizi pubblici e in quelli sociali. Includendo poi i 119.000 circa che sono occupati direttamente nella Pubblica amministrazione (Stato, Regioni, Enti locali, ecc.), risulta che il 34% del totale dei precari italiani è alle dipendenze del pubblico. Gli altri settori che registrano una forte presenza di questi lavoratori atipici sono il commercio, i servizi alle imprese e gli alberghi e ristoranti. Se oltre 1,1 milioni di lavoratori precari gravitano direttamente od indirettamente sul settore pubblico, diventa difficile sostenere che esso sia sottodimensionato. Lo è solo formalmente ed al prezzo di una forte disuguaglianza sociale ed economica.
Riformare i concorsi pubblici
Proporzionalmente dunque, il settore pubblico utilizza i precari in maniera ancora più diffusa del privato e ciò avviene per due motivi: non solo per risparmiare sui costi (il precario medio guadagna assai meno: circa 836 euro al mese), ma anche per le difficoltose regole che governano l’accesso al pubblico impiego con “concorsi per titoli ed esami” (che sono quasi sempre esami di giurisprudenza), complicate dal recente blocco del turn-over. Poiché sono lontani i tempi delle regolarizzazioni di massa e la “staffetta generazionale” pone problemi di coerenza con il dramma degli esodati e di equità con il settore privato, sarebbe auspicabile muoversi nella direzione di una riduzione delle differenze tra mercato del lavoro pubblico e quello privato. A questo si può arrivare con una riforma dei concorsi pubblici, per la quale non sono necessarie riforme costituzionali e forse nemmeno legislative: basterebbe un po’ di buon senso applicativo. Più attenzione alla sostanza e meno alla forma, valorizzando il “saper fare” dei candidati più del sapere teorico. Ma se deve essere più facile entrare, nel pubblico (come già avviene nei paesi anglosassoni) deve essere consentito anche il licenziamento per giusta causa. La legislazione lo prevede già in teoria, ma i casi applicativi sono rarissimi. Il risultato è una pubblica amministrazione fortemente ingessata che frena il paese e incrementa la diseguaglianza.
Note
1 – Forum P.A. "I dipendenti pubblici in Italia sono troppi? No, sono solo troppo vecchi, poco qualificati e mal distribuiti. Un’analisi comparata del pubblico impiego in Italia, Francia e Regno Unito" , Maggio 2013.
2 – CGIA Mestre,"Precari: in Italia vivono con 836 euro al mese", Maggio 2012.
2 – OECD