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Fine della Demografia?

Le ricorrenti previsioni sul futuro di importanti fenomeni economici e sociali – quelli che determinano il destino del mondo – vengono, e non a torto, guardate con diffidenza. Soprattutto se l’orizzonte indagato è molto lontano nel tempo. L’apprezzamento è diverso per le previsioni della popolazione, per l’inerzia che caratterizza la sua dinamica e la relativa stabilità dei fenomeni demografici. Si ritiene con ragione che le previsioni a medio-lungo termine – pudicamente chiamate “proiezioni” – siano relativamente affidabili, almeno per quanto riguarda le grandi regioni continentali o il mondo intero: le proiezioni delle Nazioni Unite – per esempio – risultano bene accoste alla realtà anche a qualche decennio dalla data della loro formulazione.
Ciò non deve sorprendere: lo stock della popolazione mondiale si rinnova lentamente ogni anno che passa (gli ingressi –nascite – valgono meno del 2% dello stock; le uscite –morti – meno dell’1%), e i flussi di entrata e uscita sono deboli. Bisogna però guardarsi da due indebite “estensioni” di questa ovvia constatazione: chiamerò la prima “fine della demografia” e, la seconda, “fine dei cicli”. Vediamo di cosa si tratta.

Un mondo stazionario?
La prima illusione riguarda la convinzione che i “comportamenti” demografici – riproduzione, sopravvivenza, mobilità, migrazione – tendano a “convergere” verso modelli uniformi e che quelle differenze (tra aree geografiche, gruppi etnici, sociali o religiosi) così rilevanti riscontrate nell’ultimo secolo, ed ancora in essere, tendano a ridursi ed annullarsi. Vari elementi sono alla base di questa visione: in primo luogo le tendenze storiche indicano che le divergenze tra paesi si stanno attenuando con il maturare e poi l’esaurirsi della transizione demografica. In secondo luogo si ritiene che il progresso delle scienze biomediche e delle tecnologie, e la diffusione dei loro frutti, debbano produrre una convergenza verso un modello di sopravvivenza caratterizzato da un’alta speranza di vita. Si ritiene poi che anche la riproduttività, in regime di buona longevità, debba assestarsi intorno ai due figli per donna che in larga parte del mondo appaiono essere la dimensione desiderata della prole. Infine, i processi di globalizzazione e l’esaurirsi delle differenze di crescita demografica tra paesi dovrebbe ridurre prima, e cancellare poi, le spinte migratorie. Queste considerazioni sembrano guidare le ipotesi sottostanti alle più recenti, autorevoli, proiezioni delle Nazioni Unite, che si spingono all’anno 21001. Per esempio, i saldi migratori di ciascun paese sono previsti in declino, fino ad annullarsi attorno al 2100. Il numero medio di figli per donna, attualmente compreso tra poco più di 1 e circa 6, dovrebbe segnare una ripresa nei paesi con bassa fecondità, ed abbassarsi velocemente in quelli con alta fecondità: nel 2100 dovrebbe collocarsi tra 1,8 e 2,2. La forbice della speranza di vita alla nascita, attualmente molto divaricata – approssima gli 85 anni nei paesi più longevi, e supera di poco i 40 nei paesi meno longevi – si restringerà, con un ridotto divario tra 70 e 95 anni nel 2100. Infine a quest’ultima data, il tasso d’incremento della popolazione mondiale sfiorerebbe lo zero. Possiamo allora pensare ad un mondo con popolazione stazionaria e composto da regioni e paesi i quali, una volta completata la convergenza verso uniformi comportamenti, avranno anch’essi popolazioni stazionarie?

Fine dei cicli demografici?
In uno stato di stazionarietà demografica, anche la geo-demografia del mondo finirebbe con l’assumere una struttura fissa. Ma questa eventualità sembra davvero improbabile. La distribuzione geografica della popolazione ha subito forti variazioni anche nella storia – nonostante che natalità e mortalità fossero “costrette” in fasce di variazione ristrette dall’assenza del controllo volontario delle nascite, dall’altissima incidenza delle malattie trasmissibili, e dalla scarsa consistenza dei flussi migratori. Si prenda il caso del continente americano: secondo prudenti stime, la sua popolazione valeva il 10% della popolazione mondiale nel 1500, scendeva al 2% nel 1800, e risaliva al 13% nel 1950. L’Africa valeva quasi un quinto della popolazione mondiale nel 1600, ma nel 1850 il suo peso percentuale si era ridotto al 7%, per riavvicinarsi ai livelli iniziali nel secolo successivo. La popolazione della Cina incideva per il 23% sul totale planetario nel 1700, saliva a 37% nel 1820, scendeva a 24% un secolo più tardi. Nell’ultimo secolo, i mutamenti della geo-demografia sono stati ancora più forti, anche a causa dello sfasamento temporale nei processi di transizione demografica delle varie regioni del globo, e ancor più forti saranno nei prossimi decenni (per i quali si possono avventurare previsioni ben fondate). Il peso demografico dell’Europa, dove la transizione è cominciata due secoli fa, o più, è passato da 20 % nel 1800 a 25%  nel 1910, per scendere poi a 22 % nel 1950, a 10% nel 2014 e ad un modesto 7% previsto per il 2050. Il peso dell’Africa, dove la transizione è iniziata da pochi decenni, è passato dal 9 al 16%  tra il 1950 e il 2014, e balzerà a 25% nel 2050. Difficile pensare ad un futuro nel quale i cicli demografici siano ridotti a componente poco influente sulla geo-demografia del mondo, per l’omologazione dei comportamenti demografici a un modello prevalente. Nel quale l’omogeneità economica riduce a poco o nulla i movimenti migratori. Nel quale, sincronicamente, la propensione a mettere al mondo figli sia sottratta alle particolarità culturali e sociali di paesi e regioni, che pur rimarranno sicuramente forti. Nel quale la sopravvivenza non si uniformi ad un modello di alta longevità, sottratto alle conseguenze della mobilità e della variabilità del quadro patologico o delle variabili costrizioni economiche sui sistemi sanitari. Sembra assai improbabile, anche sotto questo profilo, la “fine della demografia”.

La geo-demografia e i rapporti internazionali
La distribuzione geografica della popolazione del mondo ha sicuramente una notevole importanza dal punto di vista dei rapporti di forza e di influenza tra paesi. Non esiste una dottrina unanime e consolidata circa gli effetti del livello di popolamento sul benessere di una nazione. Né sulle relazioni esistenti tra tasso d’incremento demografico e sviluppo economico. Senza tuttavia sottoscrivere le affermazioni – care ai regimi totalitari – che il numero è “potenza”, sarebbe ingenuo pensare che le dimensioni demografiche siano ininfluenti nel contesto internazionale. Numero significa forza lavoro, prodotto, influenza economica nei rapporti tra paesi. A parità di sviluppo, un grande paese può destinare molte più risorse alla cooperazione e all’aiuto allo sviluppo di un piccolo paese, trasferendo fondi per sviluppare l’istruzione e la ricerca, creare infrastrutture, acquistare cibo o farmaci. Atte, insomma a creare benessere, salute o conoscenza. Ma anche il contrario è vero, e le risorse donate possono avere effetti distruttivi, ed essere impiegate per armamenti, acquistando aerei da combattimento, missili o cannoni. Nel bene, o nel male, il paese demograficamente grande conta assai di più del paese piccolo sulla scena internazionale. Insomma, il numero, di per sé, non è potenza … ma conta parecchio. E la “fine della demografia” non è alle viste.

 

NOTE

1 – United Nations, World Population Prospects. The 2012 Revision, New York, 2013,

        

 

 

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