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Qualcosa si muove, nell’ ”Italia che non cresce”? (*)

Gli alibi in un paese immobile
L’Italia è un paese che negli ultimi anni non cresce, ma che anzi decresce. Il prodotto interno lordo continua a diminuire, aumenta invece la disoccupazione totale e soprattutto quella giovanile (quasi il 39% secondo gli dati Istat[1]). I consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese sono schiacciati da uno dei prelievi fiscali più alti d’Europa. I servizi agli individui e alle famiglie non migliorano e la maggior parte della produzione domestica grava ancora soprattutto sulle donne (non solo il lavoro domestico ma anche la cura dei figli e degli anziani), rendendone difficile la partecipazione al mercato del lavoro. Certamente il recente andamento demografico, con i morti più numerosi delle nascite e la popolazione che continua ad aumentare (poco) nel suo ammontare totale solo grazie al saldo migratorio largamente positivo, ha, appunto, contribuito a rendere l’Italia più grigia – per effetto dell’invecchiamento della popolazione – e meno “italiana” – in seguito ad una crescita rapidissima della popolazione straniera – con grosse difficoltà di gestione di queste due componenti in forte crescita (gli immigrati e gli anziani, appunto).  [rimando all’art di De Santis Dieci anni dopo ] La conseguenza è un “sistema paese” che non funziona al meglio delle sue potenzialità, induce un forte arroccamento attorno agli interessi di parte e deprime le opportunità di valorizzazione del capitale umano. Ma deve essere per forza così? L’Italia è davvero senza futuro? Secondo Alessandro Rosina, autore di un recentissimo volume edito da Laterza e intitolato significativamente “L’Italia che non cresce. Gli alibi di un paese immobile”, il declino dell’Italia non è un destino ineluttabile. Le colpe attribuite ai processi demografici di denatalità, invecchiamento, immigrazione, insieme alla persistente cultura familistica e, recentemente, anche alla crisi economica, sono in realtà “alibi” per non agire, vere resistenze al cambiamento. “Se l’Italia oggi è come un terreno che non dà frutti, non è perché non sia potenzialmente fertile, ma principalmente perché è mal coltivato”[2]. E’ la scarsa lungimiranza della classe dirigente italiana, l’incapacità di superare vecchi vincoli e porre le premesse per un riposizionamento strategico del paese aprendolo all’innovazione continua, che ha generato una persistenza di circoli viziosi che paralizzano le forze positive del Paese. Innanzitutto, come da più parti ormai si invoca, bisogna interrogarci su “quale” futuro vogliamo e “su quale crescita perseguiamo”2. Andando alle radici del termine, crescita significa “passaggio in grado di porre le condizioni perché il domani tenda a essere migliore di oggi”. E se la ricchezza materiale non vuole essere l’unico parametro di riferimento, non resta che mettere al centro le persone come ricchezza principale del paese. È facile condividere le affermazioni per le quali “gli abitanti di un paese sono allo stesso tempo produttori e destinatari di benessere” o “finora è mancato un progetto di crescita che mettesse al centro le capacità delle persone, il loro sviluppo e la loro effettiva possibilità di espressione” 2. Più difficile proporre ricette socialmente condivisibili e realisticamente attuabili.

Se giovane e donna

Se è arduo – ma indispensabile, date le tendenze demografiche attuali – vedere nel numero crescente di anziani e di immigrati una risorsa per il paese, Rosina sottolinea come l’altra risorsa sottoutilizzata e non adeguatamente valorizzata sia il capitale umano dei giovani e delle donne. “Se una cosa l’abbiamo imparata in questo primo decennio del XXI secolo è che escludere giovani e donne non è certo una scelta intelligente per la crescita” 2. Eppure l’intersezione delle due condizioni, essere giovani e donna, sembra un fardello insormontabile. Da una parte la condizione giovanile che è oggettivamente peggiorata, e pone nuove difficoltà, anche economiche, all’acquisizione dell’indipendenza abitativa ed economica dalla famiglia d’origine. D’altra parte, il tasso di occupazione femminile che rimane inchiodato sotto il 47% (i dati ISTAT del gennaio del 2013 riportano un tasso del 46,8%, il più basso d’Europa dopo Malta). Il cammino nel mondo del lavoro delle giovani donne italiane è così irto di vincoli e ostacoli che la parità tra i generi rimane ancora lontana. Nonostante i livelli medi di istruzione più elevati e i risultati scolastici migliori, anche a parità di formazione, le donne sperimentano, già ai blocchi di partenza del mercato del lavoro, maggiori difficoltà in ingresso dei coetanei uomini e discriminazioni occupazionali e retributive. Successivamente, nel corso di vita, tali discriminazioni saranno ulteriormente esacerbate dalle difficoltà di conciliare famiglia e lavoro, si tradurranno in difficoltà di permanenza e di carriera[3].

Una scossa non prevista

Eppure, in questa sostanziale immobilità della condizione femminile in Italia e in questa sottoutilizzazione del prezioso capitale umano delle giovani donne, qualcosa si sta muovendo, non anticipato, seppur auspicato nel libro di Rosina. La spinta viene dalla scure della crisi economica e dall’onda improvvisa dello tsunami elettorale, e non da quelle tanto invocate, ma mai realizzate, politiche che potrebbero favorire le pari opportunità di genere e la domanda e l’offerta di lavoro femminile. Nel mercato del lavoro la crisi economica non risparmia certo le donne: il tasso di disoccupazione femminile ha raggiunto quasi il 13% (due punti in più di quello maschile); il tasso di disoccupazione giovanile delle donne il 41,6% contro il 37,1% dei giovani uomini. Ma tra le donne calano gli inattivi, cioè più donne lavorano o vorrebbero lavorare e una percentuale più bassa di donne, rispetto agli uomini, ha perso posto di lavoro. La diminuzione degli inattivi (-3,2% in un anno) riguarda in tre casi su quattro le donne e la riduzione di quanti non cercano e non sono disponibili a lavorare coinvolge in oltre otto casi su dieci le donne. Su cento uomini disoccupati, sessanta sono ex-occupati, su cento donne disoccupate sessanta sono invece ex-inattive o in cerca di prima occupazione. Ma il cambiamento più rilevante, recentissimo, è l’arco parlamentare ringiovanito e tinto di rosa: l’età media dei parlamentari è scesa di quattro anni, sia alla Camera che al Senato, e la componente femminile è aumentata di oltre dieci punti dalla scorsa legislatura raggiungendo – oseremmo dire in un solo colpo! – il 31% alla Camera e 30% al Senato. Che sia questa la premessa di qualche cambiamento nella direzione di una maggiore valorizzazione del capitale umano femminile e giovanile?

(*) Articolo presente anche su www.lavoce.info


[1] ISTAT, Occupati e disoccupati, Statistiche flash, 1 marzo 2013.

[2] Rosina A. (2013) L’Italia che non cresce. Gli alibi di un paese immobile, Laterza, Bari.

[3] Daniela Del Boca, Letizia Mencarini, Silvia Pasqua (2012) VALORIZZARE LE DONNE CONVIENE, Il Mulino, Bologna.