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Sulla “fuga dei cervelli”: un commento

Massimo Livi Bacci lancia una giusta provocazione contro la retorica della “fuga dei cervelli” . Credo che il suo intervento centri perfettamente alcuni obiettivi ma non affronti adeguatamente altri aspetti del problema. Questa brevissima nota ha il solo scopo di mantenere acceso il dibattito sul tema, offrendo ulteriori punti di vista. Innanzitutto, è vero che mancano i dati a disposizione. Le fonti informative più utilizzate e utili per i confronti internazionali e intertemporali sono i censimenti della popolazione, che però si tengono ogni dieci anni, e i dati dell’AIRE, che però sono quasi totalmente inutilizzabili per analisi sulla situazione lavorativa dei residenti italiani all’estero. Per avere un’idea della dimensione del brain drain, o costruire un indicatore, come suggerisce anche Livi Bacci, è utile sapere cosa fanno e dove i laureati italiani che lasciano il nostro Paese; per sapere quanto l’Italia “perde”, è necessario sapere sia il loro reddito sia fare ipotesi su quello che sarebbe stato il loro reddito se fossero rimasti in Italia. Informazioni difficili da recuperare a livello istituzionale, ma che alcune ricerche recenti stanno cercando di ottenere[1].

Per quanto riguarda i dati sui dottorati di ricerca, l’ISTAT si concentra sui laureati che si iscrivono a un dottorato di ricerca in Italia. Ma parte del problema riguarda i laureati che decidono già in sede di dottorato di andare a fare ricerca all’estero e che sono quindi ignorati dai dati citati. Si tratta, negli ultimi anni, di circa 6.000 giovani italiani che trasferiscono la residenza all’estero: una popolazione ragguardevole se confrontata al numero di studenti che conseguono un dottorato (circa 8.500 nel 2004 e poco più di 10.000 nel 2006).

Infine, la retorica della fuga dei cervelli non va vista solo da un punto di visto, per così dire, morale; in altre parole, da un punto di vista etico ha ragioni da vendere Livi Bacci quando lamenta la “volgarità” di non considerare talenti i non laureati che emigrano; ma dal punto di vista economico, c’è una enorme differenza. L’Italia ha investito in capitale umano ma sono altri Paesi che godono dei frutti di questo investimento (in termini di brevetti, prestigio, fondi ottenuti, gettito fiscale). È come se il nostro Paese costruisse infrastrutture produttive (industrie, strade, aeroporti, scuole) direttamente in un Paese straniero e poi li regalasse. Nella migliore delle ipotesi, parleremmo di beneficenza; ma l’Italia può permettersi di fare beneficenza con il proprio capitale umano? Basta fare due conti: secondo l’OCSE, nel 2009 la spesa annuale per studente universitario in Italia è stata di circa 6.500 euro; moltiplicando questa cifra per 6.552, il numero di laureati italiani che nel 2008 hanno trasferito la propria residenza all’estero, si potrebbe concludere che nel 2008 l’Italia ha supportato un costo diretto del brain drain di circa 170 milioni di euro (pari al costo di ogni laureato per quattro anni di istruzione universitaria)[2].

Fortunatamente, a differenza dei beni immobili, il capitale umano circola più facilmente. E non solo: il prodotto di quel capitale umano (le idee, le proposte, i suggerimenti) può circolare ancora più facilmente. È quindi opportuno, contro la retorica politica della fuga, cominciare a parlare di contributi dell’Italia diffusa e di circolazione del talento.


[1] L’associazione Italents, per esempio, ha lanciato insieme a numerosi attori istituzionale (comune di Milano, regione Piemonte, regione Campania) dei censimenti della popolazione locale all’estero e rientrata.

[2] Balduzzi, P. e Rosina, A. (2011), “Giovani talenti che lasciano l’Italia: fonti, dati e politiche di un fenomeno complesso”, in Rivista delle Politiche Sociali, n. 3, pp. 43-60.