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“Fuga dei cervelli”: o non c’è o non si vede. Per ora.

Il titolo di questo intervento è volutamente provocatorio. L’autore conosce abbastanza bene le molteplici dimensioni della condizione dei giovani in Italia1: le difficoltà di accesso al mercato del lavoro, il prolungato precariato, la magre risorse messe in campo per il diritto allo studio, la crisi economica che ha inaridito gli sbocchi professionali. Ma ha anche dei dubbi che questa condizione abbia aperto la porta ad una “fuga”, dei giovani in generale, e dei più talentuosi in particolare. E per due ragioni. La prima è di carattere generale: la crisi non colpisce solo l’Italia, ma l’Europa intera. Anche gli Stati Uniti, tradizionale mecca dei giovani ansiosi di apprendere e vedere riconosciute le proprie capacità, offrono minori opportunità nel loro potente sistema universitario. La seconda ragione è specifica: le prove della “fuga” – ammesso che si possa definire senza equivoci il termine –  sono abbastanza inconsistenti, un po’ perché i dati oggettivi sono rari e mal misurano il fenomeno, un po’ perché quelli esistenti non sembrano convalidarne l’esistenza. Mi limiterò dunque a commentare brevemente i risultati di alcune indagini ed a tirare qualche conclusione.

L’indagine Istat sui dottori di ricerca

Mettiamo da parte l’infelice – e ambigua – metafora dei “cervelli” in fuga. Forse che chi emigra con la sola licenza elementare non ha né cervello né talento? E poniamo la questione in italiano: c’è una forte emigrazione di persone giovani, con alti livelli di istruzione, o comunque impegnati in attività e professioni connesse con la ricerca, la scienza, la tecnologia, l’alta formazione?Una prima risposta viene data dall’Istat, con una indagine sulla mobilità dei dottori di ricerca”2. L’indagine è stata eseguita su 8.443 soggetti che avevano conseguito il dottorato di ricerca nel 2004 e 10.126 che lo avevano conseguito nel 2006, analizzandone la condizione occupazionale rispettivamente a distanza di 5 anni (dottori del 2004) e 3 anni (dottori del 2006). I risultati di questa indagine sono già stati riportati nel nostro Neodemos3. Ebbene, questi sembrano indicare una generale scarsa mobilità dei dottori: comparando la residenza prima dell’iscrizione all’università ed il domicilio abituale a 5 (o 3 anni) dal dottorato, risulta che l’81,6% viveva nella stessa ripartizione geografica; il 12% in una ripartizione diversa e il 6,4% all’estero. Una proporzione, quest’ultima, che appare, a tutta prima, assai modesta. La suddivisione per area disciplinare del dottorato (Figura 1) mostra una forte internazionalizzazione per le scienze fisiche (il 22,7% dei dottori dimorava all’estero): si tratta però di un’area disciplinare nella quale è impensabile non avere esperienze fuori d’Italia, e nella quale opera – alle porte dell’Italia – il CERN che conta tra i suoi dipendenti molte centinaia di fisici italiani. Per le altre aree disciplinari, la proporzione dei dimoranti all’estero variava tra il minimo del 2,9% per le scienze agrarie e il 9,5% per le scienze matematiche e informatiche.E’ difficile valutare se un 6 per cento abbondante dei dottori all’estero (mille su sedicimila) sia molto o poco (propenderei per il poco): chi ha fatto un dottorato dovrebbe (in teoria) essere appetibile sul mercato del lavoro internazionale e – comunque – spinto dalla sua esperienza di studio e ricerca in una rete di scambi assai più vasta del proprio paese o della propria regione.

L’indagine AlmaLaurea

Un’altra fonte interessante, suscettibile di approfondimenti, è costituita dall’indagine AlmaLaurea sulla condizione lavorativa dei laureati. Nel XIV Rapporto si osserva che “ad un anno dal conseguimento del titolo di secondo livello lavora all’estero ben il 6% degli occupati, complessivamente considerati (quota analoga rispetto alla scorsa indagine)”4. Per valutare meglio l’impatto per il nostro Paese del trasferimento all’estero, questa proporzione va depurata dei laureati stranieri (in Italia) che ritornano in patria, e la quota scende, così, al 4%. Dall’indagine si desume anche che “i laureati specialistici italiani che lavorano all’estero provengono per la maggior parte da famiglie economicamente favorite, risiedono e hanno studiato al Nord e già durante l’università hanno avuto esperienze di studio fuori dal proprio Paese”. Insomma la “fuga” – se di questo si tratta – coinvolge soprattutto chi si trova già in un ambiente relativamente agiato, “connesso” col mondo, proveniente dalle aree più sviluppate del paese. Cioè – in poche parole – coloro che avrebbero minori ragioni per fuggire.

I contributi scientifici dei ricercatori italiani

Un’altra interessantissima e originale fonte è costituita dalle analisi  compiute da una equipe di ricerca che fa capo ad Elsevier, uno dei maggiori gruppi editoriali scientifici del mondo5. L’analisi è stata compiuta sui contributi scientifici prodotti da ricercatori italiani dal 1996 al 2011, suddivisi in tre categorie: i “ricercatori stabili” dalle cui pubblicazioni risultano affiliati sempre con istituzioni Italiane; i “ricercatori migranti” che hanno lavorato e pubblicato per almeno due anni all’estero o permanentemente all’estero. In questa categoria è possibile distinguere oltre agli italiani permanentemente migrati all’estero anche gli stranieri permanentemente migrati in Italia. Infine i “ricercatori visitanti”, affiliati all’estero per meno di due anni. Significativamente la ricerca ha trovato che i ricercatori “stabili” sono quelli con minore produttività e minore “impatto” scientifico, e quelli “visitanti” hanno maggiore produttività e impatto. La ricerca ha anche trovato che a fronte di una emigrazione permanente pari al 5,1%, c’è una immigrazione permanente del 4,3% ; che c’è, sì, un brain drain, ma in misura molto leggera, e che “the analysis challenges the idea that the nation’s research community is experiencing a net loss of intellectual capital”.

Panorama opaco, interpretazioni confuse

Qualche tessera per meglio comprendere la situazione esiste, e non sembra corroborare l’idea che l’Italia stia perdendo talenti sotto forma di un’emorragia o di una fuga. Tutt’altro: che 1 dottore di ricerca su 15 (a 3-5 anni dal dottorato) si trovi all’estero non sembra un dato allarmante, né che ad un anno dalla laurea specialista – tra gli occupati – 1 giovane su 25 lavori all’estero. I dati, assoluti e relativi, sembrano davvero modesti. Nelle scienze “dure” il drenaggio intellettuale sembra addirittura insignificante.

Altri spezzoni informativi non chiariscono certo la situazione. Molto si è commentato il fatto che – per quanto riguarda i cittadini italiani – si sia verificato negli ultimi anni un supero delle cancellazioni verso l’estero rispetto alle iscrizioni dall’estero: il saldo era positivo per 6.000 unità nel 2002, ed è stato negativo mediamente per 12.000 all’anno nel 2008-11, per un 40 per cento riferibile a laureati6. Se si tiene conto che nello stesso decennio il saldo attivo migratorio per gli stranieri è stato pari a 350.000 unità all’anno, vien da pensare che lo sbilancio – anche solo considerando i più istruiti – sia ampiamente positivo! I dati raccolti – o stimati – dall’UNESCO non fanno supporre una corsa all’estero dei nostri studenti: comparando i due trienni 1998-2000 e 2007-09, scopriamo che il numero degli “outbound mobile students” (o studenti che studiano a livello “terziario”, cioè universitario, all’estero) è aumentato del 58 % in Germania e del 5 % in Francia, ma è diminuito del 9% nel Regno Unito, del 18% in Spagna, e del 25% in Italia7. Si suppone – vista la fonte – che i dati siano stati resi almeno approssimativamente comparabili. Infine, un altro indicatore interessante – e cioè il numero di visti di categoria H-1b attribuiti dagli Stati Uniti a lavoratori temporanei con alte qualifiche – risulta stagnante per gli Italiani, nonostante che il numero massimo di visti annuali attribuibili sia stato notevolmente ampliato.

Una provocazione… per ottenere risposte

Le provocazioni non devono essere fini a se stesse, o fatte per meri interventi polemici. Devono aiutare a fare domande e cercare risposte. Pongo dunque tre categorie di domande. La prima: come ottenere buoni indicatori del dare ed avere del paese in termini di persone giovani, con alti livelli di conoscenze? Insomma, come misurare con indicatori attendibili, il brain drain del paese? La seconda, che dipende dalla prima: il presumibile deficit del nostro Paese è alto o basso, grave o leggero? In aumento o in diminuzione? La terza: se il deficit è modesto – come sembrerebbe – perché lo è? Forse perché la depressione attanaglia tutti i paesi, deprimendo la mobilità? O perché il tipo di formazione – scarse esperienze di studio e lavoro all’estero, scarsa conoscenza delle lingue, scarso allenamento all’autonomia – rende un impegno all’estero poco appetibile? Cerchiamo buone risposte, poi potremo studiare buoni rimedi. Ciò che dobbiamo evitare è indulgere nell’autocommiserazione, alimentandola con prove poco convincenti.

 

Note

1 – Massimo Livi Bacci, Avanti giovani, alla riscossa!, Il Mulino, Bologna, 2008

2 – Istat, Mobilità interna e verso l’estero dei dottori di ricerca , Focus, 27-12-2011;

3 – Mastro Cico, Se stai bene vai all’estero. Il nuovo paradosso delle migrazioni qualificate , Neodemos.it, 3-11-2011

4 – AlmaLaurea, Condizione occupazionale dei laureati. XIV Rapporto, 2012.

5 – I risultati sono stati illustrati a Roma al CNR il 14 Novembre 2012 , nel Convegno “National Research Policy Forum ”. Si veda al sito

6 – I trasferimenti di residenza

7 – Data.un.org