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La fecondità delle donne immigrate: temi emergenti

Il tasso di fecondità totale delle straniere  è in rapida discesa da alcuni anni: dal 2.6 del 2004 è passato al 2.1 del 2011, contro un TFT delle italiane sostanzialmente fermo a 1.3  (Fig. 1). Come si spiega questa convergenza? Per comprendere meglio il complesso intreccio tra migrazione e fecondità è forse utile considerare l’intera biografia delle straniere di prima generazione.
L’Osservatorio lombardo

A tal fine, il contesto lombardo rappresenta da sempre un punto di vista privilegiato grazie all’attività dell’Osservatorio regionale per l’Integrazione e la Multietnicità  che da un decennio effettua ampie indagini campionarie annuali dedicate agli immigrati. L’indagine 2011, in particolare, dedicata a minori e famiglia, permette di mettere in luce la forte differenza tra due tipologie di donne: da una parte, quelle che sono migrate per prime, sulla base di un progetto autonomo basato sul lavoro e, dall’altra, le migranti “familiari”, che sono giunte insieme al partner, o dopo di lui. Tra queste ultime, si può poi ulteriormente distinguere tra quelle che sono anche attive sul mercato del lavoro e quelle che non lo sono. Ebbene, le differenze tra queste donne, ben evidenti nella Tab. 1, emergono anche in relazione all’ambito riproduttivo.
Per poter cogliere l’effetto del modello migratorio al netto di tutte le altre caratteristiche in esame è necessario applicare alcuni modelli statistici, che tengano contemporaneamente conto di tutte le variabili in gioco, come ad esempio  età, cittadinanza, stato civile, ampiezza della famiglia d’origine e dimensione familiare ideale. Ebbene, il modello migratorio ha un effetto significativo che inizia anche prima della migrazione stessa. Con riguardo alla fecondità, ad esempio, rispetto ad una migrante “per lavoro”, una migrante familiare ha un numero medio di figli che è del 18% più alto. Tali differenze si accentuano se si considera l’apporto degli stranieri alla popolazione italiana, vale a dire il numero atteso di figli nati in Italia o ricongiunti, che, per le migranti familiari, diventa due volte più elevato rispetto alle donne immigrate per lavoro, con le donne “del modello misto” che si collocano in una posizione intermedia. Se si considera, invece, la fecondità prima della migrazione i ruoli si invertono:  le migranti per lavoro si caratterizzano, a quel punto, per una maggiore fecondità (nel paese di origine), mentre le migranti familiari, che attendono il ricongiungimento col partner (dal quale hanno magari sperimentato un periodo di separazione), sono nella gran parte dei casi senza figli.
Interessante è anche il ruolo delle altre determinanti: l’educazione in primis che agisce  in modo “classico”, come un limitatore della fecondità – cosa che del resto avviene anche nei paesi d’origine. L’ampiezza della famiglia d’origine ha un effetto positivo diretto– donne provenienti da famiglie numerose tendono a replicare, seppur al ribasso, il modello di fecondità d’origine – e la dimensione ideale è parimenti molto importante poiché chi desidera una discendenza ampia tende anche, nei fatti, ad agire coerentemente.
Un passo più il là
Le migranti non sono certamente avulse nei loro comportamenti dal contesto migratorio con il quale interagiscono in termini di limitazioni e opportunità. Le donne immigrate per lavoro, che rappresentano la maggioranza della popolazione femminile di prima generazione (46,3%), sono caratterizzate da un ridotto numero di figli, sia ideale sia effettivo. Quelle tra loro che giungono in Italia senza figli, inoltre, tendono a ritardare la transizione alla maternità e con percorsi simili, pur se non identici nella cadenza e nell’intensità finale, a quelli delle donne italiane. Viene da pensare, e alcuni studi iniziano a confermarlo, che queste donne – per lo più badanti, domestiche e baby sitter – chiamate ad incarnare il vero welfare di sostegno alle donne italiane soffrano anch’essere e in maniera più grave degli stessi problemi di conciliazione delle loro datrici di lavoro. E forse anche di più, poiché spesso la loro famiglia è rimasta altrove.
A dare il loro contributo alla fecondità, che tanto servirebbe all’Italia, rimangono così in prima linea le migranti familiari, che non si mettono in gioco sul mercato del lavoro, ma la cui fecondità finale, dopo la fiammata post migrazione segnalata dal tasso di fecondità totale del primo decennio degli anni 2000, non dovrebbe discostarsi troppo dai 2 figli per donna – perché questa è la fecondità realizzata dalle attuali straniere quarantenni, presenti in Italia e socializzate all’estero.  Infine, è interessante osservare come per le straniere la relazione tra istruzione e fecondità non  rispecchi l’emergente trend positivo tra le italiane che vede una ripresa tra le più istruite (Caltabiano et al, 2009). Un’ipotesi da valutare in proposito potrebbe essere il persistere del modello classico del paese d’origine, ma anche la diversa collocazione lavorativa in Italia di una laureata straniera rispetto ad una italiana. Se quest’ultima può, infatti, avere accesso ad una maggiore flessibilità (telelavoro, orari flessibili) e retribuzione grazie al suo titolo di studio, questa possibilità è negata alle numerose donne straniere con alte credenziali educative occupate nel settore domestico.
Per saperne di più
Caltabiano M., Castiglioni M., Rosina A. (2009) “Lowest-Low Fertility: Signs of a recovery in Italy?”, Demographic Research, 21 (Art. 23): 681-718
Ortensi L.E. (2012) “La fecondità delle straniere” in Blangiardo G.C. (a cura di) L’immigrazione straniera in Lombardia L’undicesima indagine regionale. Anno 2011, Osservatorio Regionale per l’integrazione e la Multietnicità.
Ortensi L.E., Farina P. (2012) “When low fertility affects immigrants”, Poster presentato alla European Population Conference, Stoccolma, giugno.