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Perché in Italia i femicidi non contano (e non vengono contati)

Dall’inizio dell’anno in Italia sono state uccise per mano maschile circa 60 donne. Il dato è stato ripreso nei numerosi articoli e dibattiti televisivi seguiti all’uccisione dell’ennesima giovane da parte del suo convivente. I termini “femicidio”, o “femminicidio”, vengono correntemente utilizzati nel riportare tale notizia.

Femicidi: una definizione

Diana Russel e Jill Radford (Femicide: the politics of woman killing, Twayne, 1992) sono state le prime a teorizzare il termine feminicidio, che definiscono come “omicidio misogino, compiuto per mano di un uomo come estrema conseguenza di un continuum di violenze e discriminazioni, in nome di un’ideologia patriarcale ed androcentrica”.

L’antropologa messicana Marcela Lagarde lo definisce “La forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine – maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria, istituzionale – che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia”.

L’introduzione di questi neologismi, ha una storia lunga alle spalle, una storia di lotte e rivendicazioni che hanno consentito a femministe e attiviste di tutto il mondo di denunciare e comprendere questi delitti come fenomeni non neutri, ma dal carattere sessuato. E questo a partire dalle mobilitazioni di fine millennio delle donne sudamericane, e alle loro lotte coraggiose per far uscire dal silenzio la violenza, gli stupri, le sparizioni, le morti di migliaia di donne, cittadine di Ciudad Juarez[1], ma non soltanto.

Nonostante la faticosa introduzione di parole adatte per identificare gli omicidi basati sul genere, tra i mass media e nella stessa società fatica a prendere consistenza una comprensione del femicidio come profondamente legato al rapporto tra i sessi, e allo squilibrio che lo caratterizza. E’ infatti più semplice considerare questi eventi come “raptus”, un “litigio degenerato”, “gelosia morbosa”, “uno scatto d’ira improvviso”, “un gesto folle”, “una pazzia”,” un momento di debolezza”. Qualcosa, in ogni caso, che eccede la nostra rassicurante idea di normalità.

In questo modo si relega all’ambiente privato della vittima, alla sua fragilità, o alla sua situazione personale il fenomeno, negandone la dimensione pubblica e negando l’esistenza di un problema sociale riferibile alla relazione di genere. Inoltre, si deresponsabilizza l’intera società considerando l’autore come un soggetto che, agendo in modo improvviso, non ha consentito di prevedere e quindi difendere la vittima. Ma noi sappiamo da numerosi studi internazionali che i femicidi, almeno 7 volte su 10, sono delitti annunciati, ossia preceduti da anni di violenza subita dalla donna, sulla quale si può e si deve intervenire.

Numeri difficili da trovare

Purtroppo la scarsa consapevolezza del problema, tanto a livello di opinione pubblica che sul versante della politica e delle istituzioni, rappresenta la ragione stessa per cui nel nostro paese riscontriamo una carenza  di conoscenza, di dati e studi sul femicidio. I dati sul tema, infatti, non sono, al momento, diffusi dal Ministero, e i rapporti sulla criminalità, pubblicati a cadenza non regolare, nel riportare i dati sugli omicidi, non tengono conto della variabile di genere.

Eppure da studi condotti da associazioni di donne il fenomeno appare anche statisticamente non trascurabile. La Casa delle donne per non subire violenza di Bologna, ad esempio, dal 2005 effettua annualmente una ricerca sulla stampa sui femicidi occorsi nel nostro paese nell’anno precedente, catalogando i casi sulla base di alcuni parametri che puntano a mettere in luce elementi cruciali per la comprensione e l’analisi del fenomeno, come la relazione tra vittima e autore, la nazionalità dell’autore, il luogo in cui si è consumato, la storia di violenza precedentemente subita dalla donna nella coppia. Il numero riportato è necessariamente impreciso e, quasi certamente sottostimato, per quanto accurata possa essere la ricerca.

Pur se con questi limiti, i risultati dello studio sono quanto mai allarmanti: nei 7 anni considerati  (da 2005 al 2011 compresi) è possibile individuare 770 casi di donne uccise, da un uomo loro molto vicino, incapace di accettare la fine della relazione, o il rifiuto della donna, o non disposto a riconoscere la sua persona come libera e indipendente. Nella maggior parte dei casi, gli autori dei delitti avevano o avevano avuto relazioni personali con la vittima, erano mariti, ex mariti, conviventi, partner. Spesso l’uccisione è seguita alla separazione della coppia, o alla volontà della donna di allontanarsi o incrementare la propria autonomia.

Riconoscere la violenza di genere e il femicidio come problematiche sociali è il primo passo verso una presa di coscienza del fenomeno, necessaria a dar vita a progetti concreti di contrasto alla violenza alle donne che devono includere la protezione delle vittime e la prevenzione, mediante una corretta formazione ed educazione sociale, oltre che il sostegno e il rafforzamento dei Centri antiviolenza, di cui si auspica che la mobilitazione a seguito del’appello promosso dalle organizzatrici di “Se non ora quando?”, rappresenti solo l’inizio.

Per saperne di più

http://www.casadonne.it/

http://femminicidio.blogspot.it/

 


[1] Città messicana, diventata tristemente famosa dal 1993 per l’alto numero di donne rapite, violentate e poi uccise.