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Possono gli immigrati ridurre l’invecchiamento della popolazione?

La risposta alla domanda del titolo è, dannunzianamente, “forse che sì, forse che no”. Dipende da una serie di fattori, alcuni interni alla popolazione ospite, altri connessi alle caratteristiche dei flussi d’immigrazione, legati anche alle condizioni d’accoglimento e d’integrazione degli immigrati.
Effetti dell’immigrazione tra teoria e pratica
I modelli teorici e le simulazioni basate su “cosa accadrebbe se…” provano che l’immigrazione non può risolvere il problema dell’invecchiamento, dal momento che gli immigrati, se rimangono nel paese ospite, dopo non molti anni finiscono anche loro con il contribuire all’invecchiamento della sua popolazione. Se, invece, superata l’età di lavoro se ne vanno via, non aggiungono anziani ad anziani, ma probabilmente tolgono al paese che li ha ospitati anche larga parte del loro contributo indiretto in termini di seconde generazioni e successive.
Si può però provare a vedere in concreto che cosa è successo di recente in Italia e che cosa potrebbe succedere alla popolazione che la potrebbe abitare nel prossimo futuro.[1] L’ultimo decennio è stato caratterizzato da un consistente aumento degli immigrati regolari dall’estero (+2,7 milioni: da 1,5 a 4,2 milioni tra il 2002 e il 2009); il che ha fatto crescere la popolazione residente di 2,6 milioni, nonostante che nello stesso intervallo di tempo il numero dei decessi abbia superato quello delle nascite di quasi 100 mila unità. Ma c’è di più: la popolazione di cittadinanza italiana, a causa del suo saldo naturale negativo sarebbe calata di più di 600 mila in mancanza d’immigrazioni, e il debole contributo degli stranieri già residenti all’inizio del periodo (caratterizzati invece da un vivace saldo naturale positivo) avrebbe contenuto la perdita complessiva in 440 mila unità. Le immigrazioni intervenute non solo hanno fatto aumentare la popolazione direttamente con il loro arrivo, ma hanno anche contribuito indirettamente alla crescita tramite un saldo naturale trainato dai nati che hanno messo al mondo in Italia sia come stranieri, sia come italiani figli di coppie miste.
L’impatto dei recenti immigrati sulla struttura della popolazione residente in Italia si concentra – com’è ovvio – soprattutto sulle età di lavoro più giovani (20-44 anni), la cui diminuzione in termini percentuali è stata contenuta (di 1,1 punti) grazie alle immigrazioni. Invece l’aumento della quota di popolazione anziana (65 e più anni), che sarebbe stato di 2,5 punti percentuali in assenza di nuove immigrazioni, si è ridotto a 1,7 punti, con un evidente effetto di rallentamento dell’invecchiamento relativo a seguito dell’immigrazione, almeno nel breve periodo.
Cosa ci riserva il futuro
Ma ci si possono aspettare effetti analoghi anche per il futuro? Molto dipende dalle ipotesi che si fanno sull’entità e sulla struttura delle migrazioni a venire. Che cosa potremmo aspettarci, ad esempio, se chiudessimo del tutto alle immigrazioni? La popolazione residente potrebbe scendere a 51 milioni entro il 2051, e la quota di anziani salire al 38%, mentre gli stranieri si ridurrebbero al 6% dall’attuale 7%, anche grazie alle prevedibili naturalizzazioni. E se invece si mantenesse ogni anno quel saldo di +330 mila immigrati che si è registrato in media nell’ultimo decennio? Al 2051, la popolazione residente salirebbe fino a quasi 70 milioni (di cui quasi un quarto straniero, stanti le attuali regole restrittive per la concessione della cittadinanza italiana) e la quota di anziani verrebbe contenuta in meno del 30%, con un guadagno di 8 punti rispetto all’ipotesi di migrazioni nulle.
Così come ha fatto l’Onu in una sua discussa pubblicazione,[2] si possono poi fissare diversi obiettivi relativi alla popolazione a una data futura e dedurre quali flussi di migrazione sarebbero necessari per raggiungerli. Se, ad esempio, si volesse mantenere costante l’ammontare della popolazione residente in Italia sarebbero necessari dei saldi migratori crescenti fino a quasi 300 mila l’anno, con il risultato di portare la quota di stranieri al 17%, ma di far salire la quota degli anziani a quasi un terzo dell’intera popolazione. Se invece si cercasse di contenere l’invecchiamento intorno all’attuale 20% della popolazione il saldo migratorio annuo dovrebbe variare tra i +500 mila e +1,5 milioni, con un effetto dirompente sull’ammontare della popolazione (+50 milioni in quarant’anni!) e una quota di stranieri che arriverebbe al 43%.
L’immigrazione non basta, ma aiuta
È evidente che agire solo sull’immigrazione per contrastare l’invecchiamento della popolazione porta a ipotesi assurde sull’entità dei flussi da ammettere ogni anno, con insuperabili problemi di accoglimento e d’integrazione economica e sociale. Del resto, anche la via più “autarchica” di un contrasto all’invecchiamento tramite l’aumento delle nascite di nazionali implica il mantenere sempre elevato nel tempo il flusso di nascite, con conseguenti problemi d’inserimento lavorativo e nella società solo attenuati dall’appartenenza alla comunità nazionale e differiti nel tempo dalla transizione attraverso le età dell’infanzia e della formazione scolastica.
Probabilmente, l’unica strada per contenere in modo efficace l’invecchiamento della popolazione  è quello di contemperare le due politiche: favorire la ripresa della fecondità ed ammettere un certo numero di immigrati ogni anno. La Figura 1 mostra le diverse combinazioni di saldo migratorio e di livello della fecondità totale delle donne italiane che sarebbero necessarie per raggiungere determinate quote di popolazione anziana. In una gamma di valori possibili o auspicabili (evidenziata in figura dal rettangolo), si può identificare una soluzione intermedia che preveda che la fecondità delle donne italiane salga subito al livello di 1,75 figli per donna dall’attuale 1,4 e che la quota di ultrasessantacinquenni non superi il 29% nel 2051. Per ottenere questo risultato sarebbe però necessaria anche una migrazione netta di circa +288 mila persone l’anno, il che porterebbe la popolazione residente fino alla soglia dei 71 milioni, con una presenza straniera di circa il 22%.
Del resto, le immigrazioni possono essere considerate come delle “nascite tardive” o, meglio, come delle “nascite altrove”, che hanno il vantaggio di arrivare nella popolazione ospite nel pieno dell’età economicamente produttiva e demograficamente riproduttiva. Pongono però, d’altro canto, una sfida impegnativa per l’integrazione, avendo spesso una lingua, una religione, una cultura, oltre che una formazione, diverse dal contesto in cui si devono inserire. Attraverso lo sforzo convergente di colmare queste distanze si può sperare non solo d’avvalersi del contributo economico degli immigrati lavoratori, ma anche di quello demografico che essi possono apportare alla popolazione che li ospita.
Altrimenti, come in D’Annunzio,[3] la chiusa atmosfera di un nucleo (nel romanzo una famiglia; in questo caso una nazione) ripiegato su se stesso e sui propri dilemmi la porterà ad avvitarsi in un progressivo scadimento. Mentre la possibile soluzione volerà verso altri lidi.
 


[1] Le considerazioni seguenti sono desunte da Gesano G., Strozza S. (2011), “Foreign migrations and population aging in Italy”, Genus, LXVII, N. 3: 83-104, a cui si rinvia per maggiori approfondimenti.
[2] United Nations – Population Division (2000), Replacement Migration: Is it a Solution to Declining and Ageing Populations?, United Nations, New York.
[3] Gabriele D’Annunzio, Forse che sì, forse che no, 1910.