Alla data del 31 marzo più di 22.000 migranti risultano sbarcati sulle coste italiane dall’inizio dell’anno, prevalentemente a Lampedusa. La grande maggioranza di questi sono Tunisini, e provengono dalla Tunisia, ma negli ultimi tempi sono arrivati natanti provenienti dalla Libia con cittadini Eritrei, Somali, Sudanesi. La situazione è in rapida evoluzione, in funzione delle vicende del conflitto e della instabilità degli altri paesi nordafricani. Tuttavia è chiaro che l’Italia è oggi la destinazione-rifugio di gran parte dei flussi generati dalle sollevazioni nordafricane e che all’Italia spetta un ruolo predominante nel gestire la crisi in atto, operando – in primo luogo – perché la crisi da migratoria non diventi anche umanitaria (per la verità già lo è a Lampedusa). In queste pagine si affrontano due temi: il primo riguarda la necessità di revisione della normativa che regola il destino dei rifugiati. Il secondo riguarda la politica: gli sconvolgimenti nel Mediterraneo possono costituire l’occasione per guidare il riassetto della normativa esistente, a favore dei profughi, ma anche per introdurre elementi di equità per i paesi di accoglienza con condivisione degli oneri determinati dalla straordinarietà degli eventi.
I paradossi della normativa internazionale
Lunghi e complessi sono i meandri del diritto internazionale. La situazione attuale può però sintetizzarsi come segue. Qualsiasi cittadino di un paese terzo che si trovi fuori dal suo paese di origine e che non voglia o non possa farvi ritorno perché teme di essere perseguitato (e questo timore viene riconosciuto fondato) può chiedere lo status di rifugiato; al richiedente cui non vengono riconosciuti i requisiti dello status di rifugiato, può essere accordata una “protezione sussidiaria”. In Europa, e in Italia, la normativa ha fondamento nella direttiva 2004/83/CE riguardante le norme minime per l’attribuzione della qualifica di rifugiato o di persona bisognosa di protezione internazionale. Tuttavia esiste un paradosso, che è evidente se si pone mente per esempio alla situazione di profughi dalla Libia. Questi – anche prima della crisi – non avevano possibilità di presentare domanda di asilo in Libia (che non è firmataria della Convenzione di Ginevra[1]) anche per la chiusura[2] del presidio dell’UNHCR prima esistente a Tripoli cui non è stato più permesso di operare dal maggio del 2010. Inoltre, i profughi possono avanzare domanda di asilo solo se arrivano fisicamente nel paese di destinazione (supponiamo l’Italia): ma per farlo debbono avere passaporto e visto. Altrimenti possono arrivarci solo irregolarmente, via mare, sempre che non vengano intercettati e rimandati al punto di partenza, cioè sulle spiagge libiche, cioè dal paese dal quale fuggono. Ma esiste un secondo paradosso: i paesi Europei sono vincolati dalle regole di “Dublino II” secondo le quali l’esame di una richiesta di asilo compete al primo paese comunitario nel quale la persona fa ingresso2. Vengono così penalizzati i paesi geograficamente più “esposti” (l’Italia per gli arrivi da Libia e Tunisia, la Grecia per gli arrivi dal Mediterraneo orientale, la Spagna per quelli dal Mediterraneo occidentale); ma viene penalizzato anche il richiedente asilo. Il Tunisino che approda in Italia ma che vorrebbe andare in Francia perché lì ha parenti ed amici e potenziale lavoro, avrà la sua domanda d’asilo esaminata in Italia e qui dovrà restare se la domanda viene accolta.
Dalla crisi alla riforma del sistema dell’asilo
Eppure l’Italia potrebbe ricavarsi un ruolo strategico nella coalizione, il cui compito primario è la protezione dei civili libici. La Risoluzione 1973 approvata il 17 marzo scorso del Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha, come primo e prioritario obbiettivo "la protezione dei civili" ed autorizza i paesi membri della coalizione a "prendere tutte le necessarie…per proteggere i civili e le aree popolate da civili sotto minaccia di attacchi …inclusa Bengasi". Sei milioni e mezzo sono le persone che vivono in Libia, ma una parte di queste sono più vulnerabili delle altre e bisognose di "protezione". Chi si è sollevato contro Gheddafi, prima di tutti. Ma anche quel quarto (o più) della popolazione libica di altra nazionalità, costituito in parte da immigrati regolari (oltre 600.000, soprattutto egiziani e tunisini) e per due terzi (chi dice un milione, chi di più) da irregolari cittadini di altri paesi della regione sahariana e subsahariana, la cui vulnerabilità giuridica e sociale, già evidente in tempo di pace, è destinata ad accrescersi in tempo di guerra civile. Immigrati arrivati da Nigeria, Ghana, Chad, Mali, Somalia, Congo, Sudan, impiegati in gran parte nel settore informale, oggetti di arbitrarie espulsioni, di arbitri, di violenze a sfondo razziale. Da questo universo a “rischio", sono già moltissimi quelli che sono fuggiti; secondo l’ultimo aggiornamento[3] erano 390.000 i profughi in totale, dei quali 198.000 in Tunisia, 158.000 in Egitto, 18.000 in Niger, 10.000 in Algeria, 6.000 in Chad e Sudan. Tra i profughi in Tunisia appena un decimo erano Tunisini, mentre tra quelli in Egitto, la metà erano Egiziani. Relativamente pochi i profughi Libici (53.000, ma la cifra comprende molti frontalieri).
All’Italia una "leadership" umanitaria? Una proposta
Ed ecco una proposta. L’Italia ponga a disposizione della coalizione mezzi, risorse e competenze e richieda preminenza nella gestione delle operazioni di protezione per le popolazioni migranti. Proponga, con l’accordo della UNHCR (http://www.unhcr.org), della UE, dei paesi della coalizione, delle eventuali autorità provvisorie libiche, di Tunisia ed Egitto, la costituzione di presidii tra loro ben coordinati (in zone protette del territorio libico, nei paesi confinanti) dove le domande di asilo possano essere presentate ed esaminate, i profughi protetti ed eventualmente destinati ai paesi di accoglienza. Si propongano regole di condivisione dell’onere, assumendone tuttavia una quota rilevante (gran parte dei richiedenti avrebbero potuto intraprendere una traversata verso l’Italia). Una proposta consimile, consigliata e giustificata dall’emergenza, potrebbe poi tradursi nel pilastro di un nuovo assetto delle politiche migratorie nel mediterraneo. Ma ci sono altri vantaggi. Il primo è umanitario: dal 2002 a oggi, 4000 migranti sono morti nelle traversate del canale di Sicilia: la necessità di intraprendere rischiose traversate si ridurrebbe ed altre stragi sarebbero evitate. Il secondo è politico internazionale: ci distingueremmo ad occhi africani per un’azione umanitaria di alto profilo e non solo per gli attacchi bellici. Il terzo è politico europeo: metteremmo basi concrete per la revisione del Dublino II, invocata da anni presso partner europei duri d’orecchio, ma anche resi scettici da un atteggiamento italiano che chiede – nelle questioni migratorie – “più Europa” quando fa comodo, e “meno Europa” quando le regole che esprime ci mettono in imbarazzo.
Per mettere ordine nelle idee. La vera emergenza umanitaria, oggi, è ai confini tra Libia ed Egitto e tra Libia e Tunisia, e, in scala più piccola, a Lampedusa. Degli irregolari arrivati via mare in Italia, pochi (per ora) sono creati direttamente dal conflitto libico: si tratta in grande maggioranza di Tunisini in cerca di lavoro, ed occorre gestire il nodo complesso del loro (graduale) rimpatrio rinnovando gli accordi con la Tunisia; Maroni e Frattini hanno iniziato il lavoro che speriamo si concluda con successo e senza forzature (in altri termini: senza tentare la carta dei rimpatri forzosi). Gli accordi dovrebbero reintegrare i controlli alle partenze dai porti Tunisini che ben funzionavano prima dell’ultimo gennaio. Va ricordato anche che nel 1999 giunsero sulle coste italiane oltre 50.000 persone, in buona parte vittime delle vicende del Kossovo, un’ondata che fu gestita senza drammi.
Infine: chiediamo (giustamente) che i paesi dell’Unione condividano gli oneri di emergenze come quella attuale. Giusto. Ma è ancor più giusto che – all’interno dell’Italia – le Regioni contribuiscano ad ospitare irregolari e richiedenti asilo condividendone gli oneri. Molte regioni – soprattutto al Nord – fanno orecchie da mercante.
[1] Ci si riferisce qui alla Convenzione relativa allo status dei rifugiati (1951), che sancisce il principio del "non respingimento" per coloro che chiedono asilo.