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Pizza e spaghetti in salsa demografica: se nemmeno il WSJ desiste dal rappresentare il Paese per stereotipi

Ha suscitato un certo scalpore sui media italiani l’articolo apparso il 7 settembre scorso sul Wall Street Journal a firma Giulio Meotti. L’articolo, che affronta l’annosa questione demografica dell’Italia, soprattutto in una visione prospettiva, è stato ripreso da agenzie, siti internet e quotidiani[1].

Sin dal titolo si capisce dove il giornalista voglia andare a parare: “ITALIA, R.I.P.” (requiescat in pace).

L’articolo è volutamente provocatorio e catastrofista. Cito alcune frasi dell’autore: “Italy is dying“, “catastrophic social and economic consequences“, “demographic suicide“, ecc.

Con ciò, nessuno può negare il problema demografico del Paese. Ma neanche si può far passare l’idea che siamo destinati alla catastrofe e, soprattutto, i soli al mondo in tali condizioni. Anche perché Meotti usa fonti non sempre inappuntabili come si vedrà, cita studi previsivi di importanti istituti internazionali, ma ne trascura altri non proprio secondari, e sorvola su aspetti cruciali dell’attualità a cominciare dall’immigrazione, con tutte le sue conseguenze/opportunità.

Si dirà: “Catastrofista, disattento alle cifre, malizioso, non importa: L’importante è tenere accesa l’attenzione sui temi di popolazione (famiglie, giovani, anziani, immigrati) nella speranza che prima poi si concretizzino proposte/risposte sociali, anche semplici e praticabili, per il Paese”. Ma siamo sicuri che sia questo che serve? La sensazione è piuttosto un’altra: le grida di allarme non giustificate e l’uso troppo disinvolto dei numeri creano l’effetto opposto, di  assuefazione, incredulità, disinteresse.

Un modo di evitare questo corto circuito dovrebbe essere, tanto per cominciare, quello di fornire un’informazione almeno corretta.

 

I dati pubblicati nell’articolo del WSJ

L’articolo contiene diverse inesattezze riguardo ai dati. Concentriamoci solo su quelle più importanti, distinguendo tra dati del passato (cioè rilevati statisticamente) e dati oggetto di previsione  riportati nel testo.

 

Dati osservati

Meotti scrive che il numero medio di figli per donna in Italia sarebbe oggi pari a 1,3. Secondo le ultime stime Istat, esso risulta invece pari a 1,41 (anno 2009)[2]. Una differenza non di poco conto se si considera, inoltre, che l’indicatore è in crescita rispetto ai livelli della metà degli anni ’90.

Si sostiene che 35 anni fa, quindi nel 1975, la popolazione residente di età 0-4 anni risultava pari al 9%: secondo i dati Istat era invece pari all’8%.

Si sostiene che oggi (ma non si dice in che momento preciso) la medesima popolazione rappresenti il 4,2% del totale. Secondo i dati Istat la popolazione di 0-4 anni risulta pari al 4,7% al 1.1.2009.

Si sostiene che il calo di popolazione sia concentrato soprattutto nel Centro-nord, ossia nella parte più ricca e industrializzata del Paese. Sta già accadendo e, verosimilmente accadrà in futuro, esattamente il “contrario” di tale affermazione. Il Centro-nord, pur se oggi caratterizzato da un maggior invecchiamento della popolazione rispetto al Mezzogiorno, non è affatto in declino numerico. Va ricordato che l’Italia ha superato la soglia dei 60 milioni di residenti lo scorso anno, grazie soprattutto all’immigrazione e, pertanto, grazie proprio alle regioni centro-settentrionali. Ma di tutto ciò, soprattutto per quel che riguarda la trasformazione dell’Italia in Paese di accoglienza e dell’importanza prospettiva dei cosiddetti “nuovi italiani“[3], nell’articolo non viene fatta menzione.

 

Dati previsti

L’articolo cita poi James Vaupel (direttore del Max Planck Institute, Rostock) secondo cui la popolazione dell’Italia “potrebbe” scendere a 10 milioni di residenti entro il 2100. Premesso che il 2100 è un termine temporale piuttosto lontano e del tutto inusuale nel campo dei projection makers, dove è raro riscontrare previsioni ad oltre 50 anni dall’anno base, va anche osservato che Vaupel fa chiaramente riferimento a uno scenario estremo, nel quale egli stesso, probabilmente, non crede. Altre previsioni a lungo termine sono molto più caute, e parlano di un declino solo moderato della popolazione italiana.

Si cita, inoltre, una seconda fonte di previsioni. Secondo lo US National Institute of Ageing , la popolazione ultra 65enne raggiungerebbe il 32,6% del totale entro i prossimi 20 anni, dunque entro il 2030. Ma secondo le previsioni Istat, a tale traguardo (33%) non si arriverà, invece, prima del 2050, e secondo le ultime previsioni Eurostat[4] non prima del 2057.

Infine, il futuro dei bambini sotto i 5 anni di età. Secondo le previsioni ONU citate nell’articolo, questi rappresenteranno il 2,8% del totale nel 2050. Secondo l’Istat, però, nello stesso anno la previsione è pari al 4,2% del totale. Secondo Eurostat, il 3,9%. In ogni caso, si tratta di un dato fortemente incerto, che dipende molto dal comportamento fecondo delle donne e delle coppie di metà secolo, e sul quale nessuno può avere certezze.

 

Teorie demografiche (false?) e conseguenze economico sociali

Nell’articolo del Wall Street Journal si suggerisce l’esistenza di un legame tra la religiosità di una nazione e il livello della fecondità. Ma in epoca moderna parrebbe non esistere alcun legame in proposito, né in senso direttamente proporzionale (più religiosità = più figli) né in senso inverso. Nel Mondo si riscontrano Paesi con forte tradizione religiosa ed elevata fecondità (Irlanda, Israele, Francia), Paesi secolarizzati e bassa fecondità (Germania, Giappone, Cina), Paesi con tradizione religiosa e bassa fecondità (Italia, Spagna, Polonia), infine Paesi con forte secolarizzazione ed elevata fecondità (Svezia, Norvegia, Svizzera). Il problema della bassa fecondità, quindi, risiede semmai altrove.

Sempre nell’articolo si sostiene che in Italia la maternità sia ben retribuita ovvero sorretta da un sistema sociale funzionante, soprattutto se paragonato con quello statunitense o con quello israeliano. In realtà, da uno studio comparativo dell’OECD[5] sul costo del Welfare State in 29 diversi Paesi, risulta che l’Italia si collocherebbe al 21° posto per supporto fiscale alle famiglie (indennità per i figli, congedi parentali, prestazioni di sostegno all’infanzia), spendendo appena l’1,3% del PIL per questa voce, proprio come gli Stati Uniti. In testa risulta la Francia (3,7%), seguita da Regno Unito (terzo, 3,5%), Svezia (quinta, 3,1%) e Germania (ottava, 3%), per una media OECD pari al 2,3% – cioè circa il doppio dell’Italia.

Sul fronte dell’invecchiamento della popolazione l’articolo sostiene che presto il Paese si troverà in default rispetto alla questione previdenziale. Ma questo è falso: l’Italia, dal 1995 in poi, ha introdotto una profonda riforma del sistema previdenziale, che – sia pure con i suoi limiti (e gravando probabilmente troppo sulle giovani generazioni) – ha consentito una drastica correzione di rotta. I conti del sistema previdenziale, almeno quelli, per adesso tengono e grazie alle riforme introdotte rimarranno presumibilmente sotto controllo almeno fino al 2060[6].

Infine, si cita come “irreversibile” il processo di invecchiamento della popolazione. In particolare, irreversibile risulterebbe il cosiddetto “crossover” tra ultra60enni e under 20enni. Diciamo che è assai probabile. Ma, soprattutto, diciamo che non saremo i soli al mondo. Ci fanno già compagnia, per restare in Europa: Bulgaria, Repubblica Ceca, Germania, Grecia, Lettonia, Spagna, Ungheria, Austria, Portogallo, Slovenia, Finlandia, Svezia, Svizzera. Secondo le previsioni Eurostat, tutti gli altri Paesi sperimenteranno il crossover nel giro di qualche altro anno: Estonia (dal 2011), Malta (2012), Belgio (2013), Lituania, Polonia e Romania (2014), Olanda (2015), Danimarca (2016), Slovacchia (2017), Francia (2018). Bisognerà quindi attendere il 2022 per ritrovarci in compagnia del Regno Unito, il 2024 della Norvegia, il 2025 del Lussemburgo, il 2032 di Cipro. Ultima arriverà l’Irlanda (2039). Insomma, pur se con tempi diversi, la strada da percorrere sembra essere comune a tutta l’Europa.

 

In conclusione: modesto vademecum sulle previsioni demografiche

Quello delle previsioni demografiche è un palco sul quale si cimentano numerosi attori in veste di produttori, sia a titolo scientifico-divulgativo sia politico-istituzionale.

Benché sia difficile tracciare la linea di confine precisa tra questi due indirizzi, si può affermare che gli Istituti nazionali di Statistica e l’Eurostat, responsabili della diffusione “ufficiale” della Statistica, rientrano principalmente in questa seconda fascia di attori. Le previsioni demografiche di Eurostat, ad esempio, sono particolarmente delicate perché da esse discendono, a catena, tutta una serie di previsioni derivate (relative all’istruzione, all’occupazione, alla produttività, ai sistemi sanitari e pensionistici, ecc.) delle quali è utente il Consiglio dei Primi ministri (ECOFIN). Tali studi, ripetuti a intervalli di tempo ormai biennali, hanno l’obiettivo di monitorare il welfare state di ciascun Paese membro della UE e, in definitiva, di valutarne la sostenibilità economico-finanziaria di lungo periodo alla luce delle regole e dei principi che gli stessi Paesi membri si sono imposti di rispettare aderendo alla UE.

Le previsioni Onu, citate nell’articolo del WSJ, sono anch’esse importanti, ma si trovano a una via di mezzo tra l’indirizzo divulgativo e quello istituzionale. L’obiettivo delle previsioni ONU è in primo luogo quello di mettere in luce il futuro demografico del pianeta, evidenziando concordanze e/o contrapposizioni in essere tra i diversi continenti geografici ovvero tra le aree del mondo meno sviluppate, in fase di sviluppo e sviluppate. Secondariamente, quello, altrettanto fondamentale, di fornire un quadro demografico evolutivo per Paesi dove l’informazione statistica è carente se non del tutto assente (si pensi soprattutto ai Paesi del terzo mondo). Gli standard scientifici delle previsioni Onu sono quindi efficaci nella misura in cui si tenga conto di quanto riportato sopra. Se si hanno informazioni di base carenti, per cui risulta rilevante la necessità di stimare i dati di base, si sviluppano ipotesi e, quindi, previsioni demografiche “semplificate”. Ma per consentire il giusto confronto tra tutti i Paesi del Mondo, l’Onu è in qualche modo costretta ad adattare gli stessi standard metodologici anche per i Paesi con sistemi statistici più avanzati.

Sotto la spinta esplicita di Enti d’amministrazione decentrata, non va poi dimenticato come negli anni siano fiorite significative esperienze di previsioni su base locale a fronte di una crescita della domanda per dati sempre più dettagliati territorialmente. Sono disponibili così, per restare in Italia, previsioni regionali e provinciali elaborate dall’Istat o da uffici di statistica di enti locali e, in alcuni casi, previsioni comunali o addirittura sub-comunali.

Parallelamente alla crescita della domanda, si riscontra presso i projection makers una sempre maggiore sensibilità ad adottare standard internazionalmente e scientificamente condivisi per quel che riguarda il processo di costruzione delle ipotesi demografiche. Con questo non vogliamo affermare che le previsioni di questo o altro Istituto possano risultare esenti da errori (anzi!). E’ proprio perché si commettono errori che il processo di costruzione delle ipotesi demografiche è sottoposto a vaglio continuo, con la raccomandabile conseguenza che per ottenere buone previsioni occorre procedere alla loro revisione nell’arco di tempo più breve consentito.

E’ più che comprensibile, quindi, che muoversi nell’articolato mondo delle previsioni demografiche non sempre risulti facile. Parlando di futuro (demografico) di fatto non sussistono posizioni di leadership (del tipo: “l’ha detto Tizio”, “lo prevede Caio”) ma solo buone e consolidate “practices” da poter mettere a confronto, quando questo è consentito. In buona sostanza, se devo confrontare il futuro demografico di un Paese africano con uno europeo, ricorrerò senz’altro alle previsioni ONU. Se il confronto è tra due Paesi europei forse mi conviene utilizzare le previsioni di Eurostat. Ma se il focus, come nell’articolo, è tutto su di un singolo Paese, fossi stato il giornalista non avrei fatto male a documentarmi anche presso l’Istituto nazionale di statistica.


[1]  V. ad es. G.C. Blangiardo “Strategie per battere l’inverno demografico”, l’Avvenire, 8 settembre 2010 http://www.avvenire.it/Commenti/Strategie+per+battere+linverno+demografico_201009080747124900000.htm)

[2] Per tutte le fonti Istat richiamate nel testo si rimanda a http://demo.istat.it.

[3] Cfr. Quei necessari nuovi italiani, di Gianpiero Della Zuanna, www.lavoce.info.

[4] Eurostat, Convergence Scenario, EUROPOP2008.

[5] Adema, W. and M. Ladaique (2009), “How Expensive is the Welfare State?: Gross and Net Indicators in the OECD

Social Expenditure Database (SOCX)”, OECD Social, Employment and Migration Working Papers, No. 92, OECD Publishing. doi: 10.1787/220615515052 (http://www.oecd-ilibrary.org/docserver/download/fulltext/5ks712h5cg7l.pdf?expires=1284973821&id=0000&accname=guest&checksum=A2C0FE227EDB96A7BDEC86BA43E63D6E)

[6] Cfr.: The 2009 Ageing Report: Economic and budgetary projections for the EU-27 Member States (2008-2060),

Joint Report prepared by the European Commission (DG ECFIN) and the Economic Policy Committee (AWG); Forthcoming EUROPEAN ECONOMY 2|2009, (Working document), EUROPEAN COMMISSION.

 

Le riflessioni contenute nell’articolo sono frutto dell’autore e non rappresentano, necessariamente, la posizione dell’Istituto Nazionale di Statistica.

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