La precarizzazione del contratto generazionale (in Francia)
Possiamo considerare sostanzialmente disatteso (e quindi unilateralmente rotto) l’implicito patto che regola i rapporti e gli equilibri tra vecchie e nuove generazioni? Il dibattito non riguarda solo il nostro Paese. Il nodo nevralgico è il complesso problema della correttezza intergenerazionale (1). In molti paesi occidentali varie analisi empiriche sembrano infatti evidenziare come gli attuali giovani potrebbero essere la prima generazione del dopoguerra a trovarsi a vivere in condizioni relativamente peggiori rispetto ai propri padri. Per usare le parole di Alessandro Cavalli (2), “è venuta meno un’aspettativa di benessere crescente. Il domani, nella consapevolezza delle società avanzate, non sarà necessariamente migliore dell’oggi ed è forte il timore che possa essere peggiore”.
Possiamo sintetizzare in sette punti, riprendendoli dal sociologo Louis Chauvel (3), gli elementi di frattura generazionale (multipla) e della conseguente possibilità di un aumento della conflittualità nei prossimi anni. Fanno riferimento al caso francese ma risultano ancor più validi per la situazione italiana.
I punti della frattura multipla
Primo: la ripartizione del potere d’acquisto. Nel 1975 un cinquantenne percepiva un salario mediamente del 15% più alto rispetto ad un trentenne. Oggi tale divario è salito al 40%. La lettura generazionale evidenzia come i giovani valorizzati ieri sono diventati i sessantenni favoriti oggi dalle dinamiche di anzianità. Mentre le condizioni relative dei giovani di oggi sono sensibilmente più svantaggiate.
Secondo: il progresso delle qualifiche. Chi attualmente ha sessant’anni ha avuto nel corso della sua vita professionale prospettive particolarmente favorevoli di progressione di carriera. La percentuale di “quadri” (impiegati direttivi) tra le persone di mezza età oggi è notevolmente aumentata rispetto ai pari età del passato, mentre è rimasta quella di trent’anni fa per gli attuali i trentenni.
Terzo: le opportunità nella fase iniziale. Le condizioni sperimentate a trent’anni condizionano il percorso successivo. Si tratta di quello che viene indicato come “effetto persistenza”. È meglio quindi aver avuto vent’anni a fine anni Sessanta, quando le prospettive di collocazione professionale erano, per vari motivi, in espansione, piuttosto che dalla fine degli anni Novanta in poi, fase in cui la stabilizzazione del proprio percorso lavorativo è diventata un miraggio. In generale, “il pieno impiego all’inizio dell’età adulta è una risorsa collettiva inestimabile che non è stata trasmessa”.
Quarto: le possibilità di ascesa sociale. Gli attuali sessantenni sono figli di una generazione che ha attraversato la seconda guerra mondiale, è partita da aspettative basse e si è sacrificata per ricostruire il paese e migliorare le condizioni dei propri discendenti. Chi è stato bambino negli anni Cinquanta e giovane nei Sessanta, si è trovato a vivere in condizioni nettamente migliori rispetto alle generazioni precedenti. Per loro “l’ascesa sociale ha funzionato a pieno regime”. I loro figli, gli attuali trentenni, non hanno avuto genitori il cui tratto generazionale caratterizzante è l’essersi sacrificati, si trovano invece ad essere figli di una generazione dorata: “Il rischio psicologico è quindi quello dell’interiorizzazione di un fallimento apparentemente personale, che altro non è che una disfatta collettiva”.
Quinto: le prerogative generazionali decrescenti. Per la prima volta in periodo di pace, la situazione dei giovani è peggiore rispetto a quella dei loro genitori. Sono molti i dati che si possono fornire a conferma di tale affermazione. Uno per tutti: chi si è affacciato al mondo del lavoro alla fine degli anni Sessanta si è trovato con prospettive di disoccupazione che corrispondevano ad un tasso del 4%, chi invece è entrato nella vita adulta trent’anni dopo (quindi la generazione dei figli) si è trovato con un tasso sistematicamente sopra il 20%.
Sesto: la trasmissione del modello sociale. Chi è nato negli anni Cinquanta ha conosciuto il massimo dei benefici del previdenzialismo e dei diritti sociali protettivi e redistributivi che hanno consentito l’emergere di una classe media di massa. Per le generazioni successive, il progetto sociale nato nel dopoguerra e arrivato all’apice all’inizio degli anni Settanta, si è progressivamente sgretolato. Una delle conseguenze è il meno generoso trattamento pensionistico di cui godranno gli attuali trentenni rispetto ai loro padri.
Settimo: la rappresentanza politica. Ancora all’inizio degli anni Ottanta, l’età media del rappresentante sindacale o politico era di 45 anni, all’inizio del XXI secolo è salita a 59. Il segnale di un’assenza quasi totale di rinnovamento. Il dato sull’invecchiamento della classe dirigente indica come le scelte politiche che riguardano le grandi trasformazioni e il futuro del Paese vengano prese da chi non ne vivrà direttamente le conseguenze. Ovvero da chi, anche solo per età, tende ad essere più portato a difendere i privilegi acquisiti che investire sul benessere di domani.
Il patto a rischio
Uno dei motivi principali di questa situazione è il fatto, sempre secondo Chauvel, che “la generazione vissuta nel contesto specifico della socializzazione politica della fine degli anni ’60, favorevole ad una entrata precoce nella vita pubblica, si è installata poco a poco nelle funzioni più alte per rimanervi abbarbicata, ora che i grandi ideali della sua giovinezza hanno lasciato il posto ad altre [più prosaiche] visioni del mondo”. Ed ancora: “L’irresponsabilità collettiva, che è stata la causa di questa frattura generazionale, e il rifiuto intenzionale di farne l’inventario, potrebbero essere all’origine della rottura del patto generazionale sulla quale i giovani si interrogano sempre più spesso”.
Tutto questo, sia ben chiaro, riguarda la Francia. Paese nel quale i giovani cervelli italiani tendono sempre più a trasferirsi per trovare condizioni e prospettive un po’ meno grigie rispetto al paese natio.
Note
(1) E. Ambrosi, A. Rosina, Non è un paese per giovani, Marsilio, 2009.
(2) A. Cavalli, Giovani non protagonisti, «il Mulino» 3/2007.
(3) L. Chavel, La rottura del patto generazione: il caso francese, «Nuntium», n. 33, 2007/3.