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Popolazione temporaneamente superflua?

Che una crisi economica colpisca anche l’immigrazione economica è lapalissiano e la storia ne fornisce abbondanti conferme. Nell’America della Grande Depressione, furono centinaia di migliaia – due milioni, secondo alcune stime – i messicani deportati nel quadro della campagna chiamata Mexican Reparation, lanciata dal presidente Hoover. Il più grande paese di immigrazione nell’Europa dell’epoca, la Francia, chiuse le frontiere nel 1932, introducendo pesanti restrizioni ai diritti dei quei tre milioni di stranieri, che pure le avevano consentito di risollevarsi dopo la catastrofe demografica ed economica della Grande Guerra.

Più vicino nel tempo, anche la lunga stagione di stagnazione innescata dallo shock petrolifero del 1973 e la successiva, pesante recessione dell’inizio degli anni Ottanta ebbero un impatto migratorio forte, ma di natura ben diversa rispetto a cinquant’anni prima. Deportazioni di massa non erano più politicamente e giuridicamente praticabili. Le campagne di incentivazione al ritorno, sperimentate sia a Bonn che a Parigi, produssero risultati deludenti. L’effetto più profondo e duraturo della cosiddetta “chiusura delle frontiere”, decisa circa 35 anni fa da tutti i grandi paesi europei di immigrazione del tempo, fu paradossalmente quello di fissare la presenza immigrata, incoraggiando una imponente e duratura ondata di ricongiungimenti famigliari.

Proprio in quello storico fallimento delle politiche migratorie europee, che promisero ciò che non seppero (e forse non potevano) mantenere, affonda almeno in parte le sue radici la profonda e persistente diffidenza europea verso l’immigrazione[1].

Questo è lo sfondo su cui si staglia la crisi attuale. Ma quale sarà, questa volta, l’impatto migratorio della recessione? E cosa può fare la politica?

 

False chiusure e timide aperture

Anche nei periodi di maggiore ostilità ufficiale all’immigrazione lavorativa, persino i paesi più restrittivi hanno mantenuto canali alternativi, operanti come valvole di sicurezza per far fronte a shortages localizzati o temporanei: il lavoro dei famigliari ricongiunti, in Francia, in Belgio o nei Paesi Bassi; il lavoro degli Aussiedler di origine tedesca, poi quello dei rifugiati e dei richiedenti asilo “tollerati”, in Germania. E naturalmente, le seconde (e persino terze) generazioni, più o meno rigidamente confinate nelle fasce a bassa retribuzione da atteggiamenti discriminatori e carenze educative.

Anche nei paesi più chiusi, dunque, l’immigrazione ha continuato ad alimentare, direttamente o indirettamente, i mercati del lavoro; ma, ufficialmente, la “chiusura delle frontiere” ha retto. Da questo punto di vista, l’Italia e la Spagna degli anni Novanta, con la loro graduale apertura a flussi di immigrazione lavorativa, e con il ricorso sistematico a regolarizzazioni di massa, sono apparse inizialmente come delle anomalie, o addirittura delle aberrazioni, rispetto a un “pensiero unico migratorio europeo”, che si andava scollando dalla realtà, ma rimaneva imperante.

Le cose hanno cominciato a cambiare con il nuovo millennio. Il fabbisogno di forza lavoro straniera, generato da un mix di fattori strutturali e contingenti, ha cominciato a trasparire anche nei paesi votati all’ortodossia restrittiva più pura, come la Germania di Schröder o la Francia di Chirac. Dalla metà del decennio in corso, esperimenti di apertura all’immigrazione legale, seppure in dosi omeopatiche e con criteri altamente selettivi, hanno cominciato a vedere la luce in diversi paesi dell’Europa continentale.

A partire dal dicembre 2005, con il suo Policy Plan on Legal Migration, anche la Commissione europea ha tentato di rilanciare la sua azione in materia di immigrazione economica, terreno su cui aveva fallito, ai tempi della presidenza Prodi.

A trainare questa incipiente (ri)apertura dell’Europa occidentale all’immigrazione legale per motivi economici erano, da un lato, i paesi mediterranei, le cui soluzioni, da eretiche, cominciavano ad apparire innovative. Ma, nel dare slancio a questa tendenza, era stata decisiva anche la Gran Bretagna blairiana, convertitasi da una decennale routine restrittiva a un deciso attivismo riformista. Nel 2004, la scelta isolata di Londra (seguita solo da Dublino e Stoccolma) di concedere immediata libertà di circolazione ai cittadini degli otto nuovi Paesi membri dell’Europa centro-orientale, era stata la leva decisiva per riaprire la società britannica all’immigrazione economica di massa.

Tanto in Spagna quanto Oltremanica, l’apertura decisa all’immigrazione ha portato frutti, sotto forma di tassi di crescita superiori alla media europea. Anche questo ha contribuito a cambiare le percezioni dei governi (se non ancora delle opinioni pubbliche), ispirando una retorica più aperta, come quella usata nel “Patto europeo sull’immigrazione e sull’asilo” adottato dal Consiglio europeo del 15 e 16 ottobre 2008, dove “l’ipotesi di un’immigrazione zero” viene definita “nel contempo non realistica e pericolosa”.

 

Quali risposte alla crisi?

Questo a parole, e fino a ieri. Oggi, le previsioni della Commissione europea indicano che, nel 2009, per la prima volta in un decennio, l’occupazione nella UE dovrebbe segnare un tasso di crescita negativo. Sono previsti 2,7 milioni di nuovi disoccupati, da qui al 2010[2]. Come si vede dalla tabella, le prospettive peggiori si registrano proprio in alcuni dei paesi che più hanno puntato sull’immigrazione. Il caso più clamoroso è la Spagna, la cui forte crescita degli ultimi anni è stata trainata da un boom edilizio reso possibile dall’importazione massiccia di braccia straniere.

 

Tab. 1: L’impatto occupazionale della crisi nei maggiori paesi europei di immigrazione

 

2007

2008

2009

2010

Francia

Occupazione (variazione %)

1,4

0,7

-0,6

-0,1

Tasso di disoccupazione

8,3

8,0

9,0

9,3

Germania

O

1,6

1,2

-0,3

0,2

T

8,4

7,3

7,5

7,4

Italia

O

1,0

0,7

0,0

0,5

T

6,1

6,8

7,1

7,3

Regno Unito

O

0,7

0,5

-1,6

0,3

T

5,3

5,7

7,1

6,9

Spagna

O

3,0

-0,2

-2,0

-0,9

T

8,3

10,8

13,8

15,5

Fonte: Commissione europea, Direzione Generale per gli affari economici e finanziari.

 

Difficile dubitare, alla luce di queste previsioni, che il fabbisogno di manodopera straniera sia destinato a calare. Non solo nel settore delle costruzioni, ma anche, per esempio, in quello dei servizi alle famiglie. E’ vero che la domanda di baby-sitter, domestiche e “badanti” è legata a fattori demografici, non direttamente influenzati dalla crisi. Ma la perdita di potere d’acquisto da parte delle famiglie autoctone potrebbe trasformare l’aiuto casalingo in un lusso non sostenibile, o sostenibile solo se “in nero”.

Di fronte a questo scenario, che cosa può fare la politica? Le risposte decisive devono naturalmente essere date sul terreno della regolamentazione finanziaria, della politica economica e di quella sociale (comprese misure di integrazione dei migranti, oggi più necessarie che mai[3]). Ma contano anche le risposte fornite sul terreno specifico della politica migratoria, dove le principali leve a disposizione, nel breve termine, sono a) la regolamentazione degli “ingressi” e b) la gestione delle “uscite”.

a) Per quanto riguarda le scelte in materia di ammissione di nuovi lavoratori, tutti i maggiori paesi europei di immigrazione si stanno orientando alla cautela. Sarebbe irresponsabile fare diversamente. L’importante, però, è non confondere una frenata contingente, con le tendenze di lungo periodo: per effetto, se non altro, dell’invecchiamento generale della popolazione, la domanda di forza lavoro straniera riprenderà quota, riproponendo la necessità di mettere a punto politiche di immigrazione legale eque ed efficienti. Sarebbe un grave errore strategico se la crisi venisse assunta come alibi per una impraticabile autarchia demografica.

b) Per quanto riguarda le “uscite”, è essenziale distinguere tra rimpatri volontari e coatti. L’esperienza passata mostra che limitati incentivi finanziari pubblici non sono mai stati sufficienti a innescare ondate di ritorno di massa di lavoratori ritenuti “non più necessari”. Naturalmente, si può tentare lo stesso, come ha fatto il governo spagnolo con il Plan de Ayuda al Retorno Volontario deciso a settembre. Ai lavoratori stranieri disoccupati provenienti da un paese extra-UE con cui la Spagna abbia in vigore accordi bilaterali in materia previdenziale, è stato offerto di intascare subito il 40% dell’indennità di disoccupazione e il restante 60% un mese dopo il ritorno in patria. In cambio, il migrante perde la facoltà di chiedere un nuovo ingresso legale per i tre anni successivi. Si tratta, dunque, di una misura del tutto facoltativa, di carattere permanente e non congiunturale, che coniuga finalità di gestione del mercato del lavoro e di promozione dello sviluppo dei paesi di origine. La platea dei beneficiari potenziali è stimata dal governo iberico in circa 100.000 persone, ma è probabile che solo una minoranza degli aventi diritto ritenga conveniente aderire.

Ben altro significato avrebbe un programma di rimpatri forzati. I precedenti non mancano: sulla scia della crisi finanziaria asiatica del 1997-8, per esempio, centinaia di migliaia di lavoratori furono collettivamente deportati dalla Malaysia verso l’Indonesia o dalla Tailandia verso la Birmania. Anche se in forme più garantite, la legislazione di diversi paesi europei – tra cui l’Italia – consentirebbe, astrattamente, risposte di questo tipo. Per fortuna, con questi chiari di luna, i vincoli finanziari dovrebbero scoraggiare simili tentazioni.

In conclusione, è probabile che, su scala europea, assisteremo alla ricaduta nell’irregolarità di centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici, seguiti dai famigliari eventualmente a carico. In Italia, questo scenario è reso ancora più incombente da una norma della legge Bossi-Fini che, nel 2002, aveva ridotto da un anno a sei mesi il “periodo di tolleranza”, entro cui uno straniero regolare che resti disoccupato può cercare un nuovo impiego senza perdere il diritto al soggiorno.

In questo quadro buio, un aiuto oggettivo, potenzialmente non piccolo, potrebbe arrivarci dalla libertà di circolazione di cui godono, pur con pesanti limiti, i numerosissimi romeni presenti in Italia (+ 283.000 e rotti nel solo 2007). Con una Romania che, malgrado la crisi, dovrebbe crescere di quasi il 5% anche l’anno prossimo, per una volta il ritorno potrebbe presentarsi davvero come un’opportunità. Alla faccia degli stanziali autoctoni.


[1] Confermata anche dal recentissimo sondaggio comparativo effettuato da German Marshal Fund e Compagnia di San Paolo: Transatlantic Trends: Immigration, novembre 2008, http://www.transatlantictrends.org/.

[2] Commissione europea, Autumn Economic Forecasts, 3 novembre 2008, http://ec.europa.eu/economy_finance/publications/publication13290_en.pdf.

[3] Sulla necessità di investire in misure di integrazione, specialmente nelle fasi di maggior difficoltà economica, insiste il recentissimo rapporto OCSE dal titolo Jobs for Immigrants: Labour Market Integration in Belgium, France, the Netherlands and Portugal, 17 novembre 2008, www.oecd.org/document/26/0,3343,en_2649_34487_41679834_1_1_1_1,00.html.