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Un mondo fatto a scale (di equivalenza)

Come si fa a confrontare il tenore di vita di due famiglie quando le condizioni strutturali sono diverse? Ad esempio se una è numerosa e l’altra no; se una ha un membro malato che ha bisogno di cure costose e l’altra no; se una vive al Nord e l’altra al Sud, ecc. Una possibile risposta, forse un po’ sorprendente, è questa: conviene considerare le due famiglie come se  fossero strutturalmente identiche, ma avessero i redditi espressi in unità di misura diverse – che so?, una in yen e l’altra in franchi svizzeri. In questa ipotesi, si dovrebbe cercare il “giusto” tasso di cambio, che consentirebbe di convertire i loro redditi nominali, in valute diverse, in una valuta comune, e quindi comparabile. Sì, certo: esistono i tassi di cambio ufficiali, ma gli statistici non se ne fidano molto, perché potrebbero essere distorti da decisioni delle autorità monetarie o da movimenti speculativi, e preferiscono usare le PPA (parità di potere d’acquisto), anche note come PPP (purchasing power parities). La domanda allora diventa, per restare all’esempio precedente, “quanti yen servono per comprare, in Giappone, un paniere di beni che garantisca la stessa soddisfazione del paniere che potrei comprare in Svizzera, con un franco”?
Ecco, su questa definizione, e soprattutto sull’espressione “stessa soddisfazione” (o, più spesso, “stessa utilità”), si sono versati fiumi di inchiostro, e si sono costruite, oltre che le PPA, anche le misure dell’inflazione (“quanto devo spendere oggi per comprare un paniere di beni comparabile a quello che potevo comprare ieri con 100 Euro?”), e le scale di equivalenza (“quanto deve spendere una famiglia numerosa per compare un paniere di beni che le dia la stessa utilità di paniere standard comprato da una famiglia più piccola?”). Problemi apparentemente diversi, e applicati a ambiti distinti, ma che in fondo affrontano la stessa questione: misurare quanto “costa” raggiungere un analogo livello di utilità in situazioni diverse.
 
Una possibile risposta: i cluster
Una possibile risposta a questo problema generale è la seguente: si sceglie una serie affidabile di indicatori del grado di ricchezza (tenore di vita) di una famiglia: ad esempio, possedere una bella casa, o un televisore ultrapiatto, viaggiare con il SUV, avere una bassa quota di spesa per cibo (idea già di Engel, del 1895), e simili. Poi, sulla base di questi indicatori, si formano gruppi (cluster) di famiglie. Per definizione, le famiglie che ricadono in uno stesso cluster sono molto simili in termini di tenore di vita: possiedono cioè più o meno gli stessi beni durevoli di consumo e distribuiscono le loro spese tra le varie voci di spesa in maniera comparabile. Ma, a ben riflettere, ciò rivela una somiglianza in termini non solo di risorse disponibili, ma anche di scelte concrete di spese, e quindi di “stili di vita”. Ad esempio, i molto ricchi avranno sia la macchina sia la moto per i loro spostamenti in città, e i poveri né l’una né l’altra. Ma i casi intermedi? Ebbene questi si divideranno in due gruppi; quelli che, potendo scegliere una cosa sola, hanno preferito l’automobile e quelli che invece hanno preferito la moto. Moltiplicando gli indicatori, e i gruppi, si ottiene, infine, una classificazione sufficientemente fine per rispondere alle nostre domande: quanto devono spendere famiglie “non base” rispetto a una famiglia “base” per ricadere nello stesso gruppo (cluster)? Scegliendo opportunamente le famiglie (di base, e le altre) si possono ottenere tanti risultati interessanti – e tutti nell’ambito di un’unica metodologia (Maltagliati e De Santis, 2010a,b).
 
Un solo criterio, tanti risultati
Con questo sistema, ad esempio, si possono calcolare le scale di equivalenza, e cioè misurare, in termini relativi, quanto “costa” passare da 1, a 2, a N membri (figura 1). Vengono un po’ piatte, per il vero, il che starebbe a significare che un componente aggiuntivo (ad esempio: un figlio) non comporta poi spese extra particolarmente elevate[1].
Le scale più frequentemente utilizzate in Italia sono più ripide (figura 1): sia la scala Carbonaro, quella che usano l’Istat (2010a) negli studi sulla povertà e il governo nel calcolo dell’ISEE (https://servizi.inps.it/servizi/isee/default.htm), sia la scala “a radice quadrata” recentemente utilizzata dall’OECD (2008).
Però, se si approfondisce un po’, si scopre che la scala viene considerevolmente più alta per le famiglie più povere, praticamente uguale alla scala a radice quadrata (Figura 2), e questo appare sensato, perché se ci sono costi fissi (ad esempio, il latte per i figli), questi sono relativamente più onerosi per i poveri. Insomma, il risultato raggiunto non appare palesemente assurdo.
Si possono poi calcolare misure dell’inflazione: quanto costa vivere a un certo tenore di vita nel 2003 e poi anche nel 2004, ecc.? La risposta è nella tab. 1, che serve soprattutto come test del metodo, visto che i dati ufficiali (Istat) sull’inflazione del periodo sono noti. Ebbene, come si vede, il metodo, pur se per via totalmente diversa (e senza conoscere i prezzi!), conduce a stime dell’inflazione non lontane dalle valutazioni ufficiali. E questo potrebbe anche significare che le stime delle scale di equivalenza delle Figure 1 e 2 non sono poi tutte da buttare.
 
Tab. 1 – Misure dell’inflazione nel 2003-2008 in Italia: Cluster e Istat
 

  Base 2003=1 Base year (t-1)=1
  Cluster Istat Cluster Istat
2003 1 1
2004 1,042 1,022 1,042 1,022
2005 1,061 1,042 1,018 1,019
2006 1,084 1,064 1,022 1,021
2007 1,104 1,084 1,018 1,018
2008 1,122 1,120 1,017 1,033

Fonte: elaborazioni degli AA su micro-dati Istat (Bilanci di famiglia, 2003-2008) e Istat
Fonte: Per i cluster, elaborazioni degli AA su microdati Istat dei consumi delle famiglie (metodo Ward, 50 cluster, 5 regioni, 5 dimensioni familiari); Per l’Istat, v. http://www.istat.it/prezzi/precon/dati/
 
 
E ci si può spingere fino alla costruzione di misure del costo della vita per area geografica: quanto costa vivere a un certo tenore di vita al Nord, al Centro o al Sud? La risposta è nella tab. 2, da cui si vede che, secondo le nostre stime, vivere al Centro o a Nord non fa poi una grande differenza (il livello dei prezzi non è statisticamente diverso), mentre invece la vita al Sud e nelle Isole costa considerevolmente di meno, perché qui le spese risultano, nel complesso, circa del 20% più basse.
 
Tab. 2 – Misure del costo della vita per circoscrizione (Italia, 2003-2008)
 

Nordovest Nordest Centro Sud Isole
1 1.001 0.989 0.829 0.779

Fonte: elaborazioni degli AA su micro-dati Istat (Bilanci di famiglia, 2003-2008)
 
 
In questo caso, un vero termine di paragone con i dati ufficiale non c’è: l’Istat (2010b) ha bensì, molto recentemente, prodotto le prime stime sul diverso livello dei prezzi nelle varie parti d’Italia, ma limitate ai soli capoluoghi di regione, e senza una sintesi per macroarea. Inoltre, l’Istat utilizza un paniere di beni standard, e, per costruzione, non tiene conto, ad esempio, del fatto che, al Nord bisogna forse spendere di più per riscaldarsi, mentre al Sud il sole è gratis. E’ possibile che anche per questo le differenze territoriali appaiano all’Istat minori di quanto non risultino a noi. Ma, nel complesso, i risultati da noi ottenuti non sono in contraddizione con quanto si sa, e, qualitativamente almeno, con quanto emerge anche dai dati Istat: vivere nel Mezzogiorno costa meno.
 
Concludendo
L’ approccio proposto è ancora troppo recente per potersi serenamente esprimere sui suoi pregi e i suoi difetti. Ma, anche in caso di insuccesso, l’impostazione apre, ci sembra, nuove prospettive su come costruire indicatori sintetici di costo, e, rispetto a altre soluzioni, presenta il vantaggio di non richiedere rilevazioni ad hoc: ogni buona indagine che consenta di valutare il tenore di vita delle famiglie si presta a essere sfruttata in questo senso, e questo include non solo l’Indagine Istat sui consumi, ma anche l’indagine Eu-Silc (http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/microdata/eu_silc), l’indagine della Banca d’Italia sui Bilanci delle Famiglie (http://www.bancaditalia.it/statistiche/indcamp/bilfait), e molte altre.


[1] Ma potrebbe ancora comportare una sensibile riduzione delle entrate, ad esempio per i suoi effetti sul lavoro della donna, un aspetto di cui qui non si tratta.
 
 
Per saperne di più
Istat  (2010a) La povertà in Italia nel 2009, Roma,  (http://www.istat.it/salastampa/comunicati/in_calendario/povita/20100715_00/testointegrale20100715.pdf)
Istat  (2010b) Le differenze nel livello dei prezzi al consumo tra i capoluoghi delle regioni italiane, Roma (http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20100707_00)
OECD (2008) What are equivalence scales?, mimeo. (http://www.oecd.org/dataoecd/61/52/35411111.pdf)
Maltagliati M., De Santis G. (2010a) “Clusters and equivalence scales”, Proceedings of the 45th Scientific Meeting of the Italian Statistical Society.
Maltagliati M., De Santis G. (2010b) “Comparing like with like: cluster-specific equivalence scales”, WP del DIpartimento di Statistica “G. Parenti”, n. 10/2010, Un. di Firenze, http://www.ds.unifi.it/ricerca/pubblicazioni/working_papers/2010/wp2010_10.pdf.
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