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Diseguaglianze e interruzione volontaria di gravidanza negli USA

L’aborto legale negli USA è praticato in misura molto diversa secondo alcune caratteristiche delle donne. Come ci spiega Alessandra Minello, la restrizione dell’accesso alle IVG avrebbe quindi effetti molto diversi per donne bianche e donne nere, donne giovani e meno giovani, istruite e meno istruite.

L’interruzione volontaria della gravidanza (IVG) nei primi tre mesi di gestazione della donna è diventata legale in tutti gli Stati Uniti nel 1973, in seguito alla decisione dei giudici della Corte Suprema, nel caso Roe contro Wade. Oggi questa decisione viene messa in discussione (La Corte Suprema degli Stati Uniti e una decisione pericolosa – neodemos 2022).

Per meglio comprendere quale sarebbe la portata di decisioni che possono restringere drasticamente la possibilità di aborto legale, è importante sapere chi sono le donne americane che ricorrono all’IVG e che quindi verrebbero maggiormente colpite da questo cambiamento.

Quanti sono e quanti erano gli aborti legali negli USA

Il Center for Diseases Control and Prevention degli Stati Uniti raccoglie e rende pubblici ogni anno i dati sulle interruzioni volontarie di gravidanza, ottenuti dalle aree di segnalazione del Paese, che comprendono la quasi totalità degli Stati. Nel 2018 sono state segnalate 629.898 IVG legali, ossia un tasso di abortività di 11,4 IVG ogni mille donne di età compresa tra 15 e 44 anni. Il rapporto di abortività è stato di 195 IGV ogni mille nati vivi, più alto di quello osservato nello stesso anno in Italia (174 IVG ogni mille nati vivi).

Dal 2010 al 2019, il numero, il tasso e il rapporto delle IVG negli USA sono diminuiti rispettivamente del 18%, 21% e 13%. Tuttavia, rispetto al 2018, nel 2019 il numero totale è aumentato del 2%, il tasso dello 0,9% e il rapporto del 3% (Figura 1). Si può quindi affermare che negli USA l’abortività volontaria nell’ultimo decennio è diminuita, ma che tale diminuzione- recentemente – dà segnali di arresto.

Il 92,7% delle IVG avviene entro la tredicesima settimana di gestazione. Una quota minore (6,2%) è stato eseguita a 14-20 settimane di gestazione, e ancora meno (<1,0%) oltre le 20 settimane. L’IVG medica precoce è definita come la somministrazione di farmaci per indurre un’interruzione di gravidanza prima delle 9 settimane di gestazione, in linea con l’attuale etichettatura della Food and Drug Administration (implementata nel 2016). Nel 2019, il 42,3% di tutte le IVG è composto da interruzioni mediche precoci. Il ricorso a questa procedura è aumentato del 10% dal 2018 al 2019 e del 123% dal 2010 al 2019, dimostrandosi il metodo con la maggior crescita nella diffusione.

Le differenze d’età

L’abortività è assai variabile per età. Fra le giovanissime gli aborti sono relativamente pochi, ma è molto alta la proporzione di gravidanze che si conclude con un aborto legale. Fra le donne adulte, tassi e rapporti di abortività sono più contenuti. I rapporti di abortività nel 2019 sono stati più alti tra le adolescenti (873 e 348 aborti per 1.000 nati vivi tra le donne di età <15 anni e 15-19 anni) e più bassi tra le donne di età compresa tra 25-39 anni (194, 132 e 145 aborti per 1.000 nati vivi tra le donne di età 25-29, 30-34 e 35-39 anni, rispettivamente).

Le adolescenti di età compresa tra i 18 e i 19 anni hanno rappresentato la maggior parte (70,2%) delle IGV adolescenziali e hanno avuto i tassi di aborto adolescenziale più elevati (8,6 e 12,2 aborti per 1.000 adolescenti di età compresa tra i 18 e i 19 anni, rispettivamente). Le adolescenti di età inferiore ai 15 anni hanno rappresentato la percentuale minore di aborti adolescenziali (2,6%) e hanno avuto il tasso di abortività adolescenziale più basso (0,4 aborti per 1.000 adolescenti di età compresa tra 13 e 14 anni).

Dal 2010 al 2019, i tassi di aborto sono diminuiti tra tutte le fasce d’età, anche se le diminuzioni per le adolescenti (-60% e -50% per le adolescenti di età inferiore ai 15 anni e tra i 15 e i 19 anni) sono state maggiori rispetto alle diminuzioni per tutte le fasce d’età superiori.

Gruppo etnico, status familiare ed esperienze abortive passate

Nel 2019 il tasso di abortività più basso (7 aborti per mille donne) è stato osservato fra le donne bianche non ispaniche, fra cui si è osservato anche il più basso rapporto di abortività (117 aborti ogni mille nati vivi). All’opposto, il tasso di abortività delle donne nere non ispaniche è stato quasi il quadruplo (24 aborti per mille donne), e il rapporto di abortività più del doppio (386 aborti per mille nati vivi) rispetto a quello delle coetanee bianche non ispaniche.

Solo il 14,5% delle donne che hanno fatto ricorso all’IGV erano sposate. Anche il rapporto di abortività era radicalmente diverso per stato civile: 46 aborti per mille nati vivi fra le coniugate, 394 aborti per mille nati vivi fra le non coniugate.

Il 40% delle IVG è stato praticato da donne senza figli. Inoltre, per il 58% si trattava della prima IVG, per il 24% della seconda, per l’11% della terza, per il 7% della quarta o più.

Questi dati – anche se non esaustivi – sono sufficienti per affermare che le donne americane sono assai diverse di fronte alla IVG. Il nucleo della popolazione che gode di maggiori vantaggi socio-economici (le donne bianche coniugate) è meglio in grado di proteggersi rispetto a una gravidanza non desiderata. Per contro, nella parte più debole (le donne nere non coniugate) le IVG sono molto più diffuse, anche quelle ripetute. Proibire l’aborto legale – specialmente per queste categorie svantaggiate – con tutta probabilità non vorrebbe dire diminuire gli aborti, ma aumentare quelli illegali.   




La Corte Suprema degli Stati Uniti e una decisione pericolosa

La probabile decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti di cancellare la sentenza del 1973 che legalizzava l’interruzione della gravidanza, potrebbe avere profonde conseguenze negli Stati Uniti, e anche in altri paesi occidentali. Come osserva Massimo Livi Bacci, si tratterebbe di un ritorno alla situazione di mezzo secolo fa, e di una spinta ai movimenti d’opinione contrari alla liberalizzazione dell’aborto forti –tra l’altro – del successo recentemente conseguito in Polonia.

Nel 1973 i giudici della Corte Suprema, nel caso Roe (ricorrente) contro Wade (procuratore distrettuale della contea di Dallas) prese una decisione (a maggioranza, con voto 7 a 2) di grandissima importanza, dichiarando legale l’interruzione della gravidanza nei primi tre mesi di gestazione della donna. La legge del Texas, che vietava l’aborto se non in caso di pericolo di vita della donna, violava, secondo la Corte, il diritto alla privacy della donna, garantita dal XIV emendamento alla Costituzione. Vari sono stati i tentativi, nel corso del quasi mezzo secolo di vita della Roe vs Wade, di limitare o rovesciare la liberalizzazione1 del ricorso all’aborto. Radicale e spesso violenta è stata l’opposizione alla legge, e fortemente politicizzato è stato il dibattito. Con una Corte Suprema che dopo la presidenza Trump è in netta maggioranza conservatrice, gli oppositori della legge sono sul punto di averla vinta. Il 1 dicembre dello scorso anno la Corte decise di audire le parti in merito a un ricorso contro una legge del Mississippi, fortemente restrittiva dell’accesso all’interruzione di gravidanza; lo scorso 2 di maggio il sito d’informazione Politico rivelava una complessa bozza di opinione della maggioranza conservatrice (scritta dal giudice Alito), che di fatto rovescia le argomentazioni giuridiche sulle quali, nel 1973, la stessa Corte aveva basato la sua decisione. In estrema sintesi, secondo questa sentenza (peraltro non ancora emessa formalmente), spetterebbe al Congresso legiferare con una legge federale sull’interruzione di gravidanza; in attesa che questo avvenga, spetta ai singoli Stati normare la questione.

Le possibili conseguenze negli Stati Uniti…  

Non c’è dubbio che una decisione del genere scatenerebbe un putiferio sociale e una ulteriore radicalizzazione politica, tradizionalmente polarizzata attorno ai gruppi “pro-life” e a quelli “pro-choice”. Le indagini di opinione mostrano che negli ultimi decenni la proporzione dei “favorevoli” e dei “contrari” alla liberalizzazione è rimasta grosso modo invariata; secondo il Pew Center, nel marzo 2022 il 61% degli adulti considerano giusta la legalizzazione dell’aborto in “tutti o nella maggioranza” dei casi, mentre il 37% di essi dichiarano di essi dichiarano che l’aborto deve essere considerato illegale “in tutti o nella maggioranza dei casi”. Si tratta di proporzioni non diverse da quelle dichiarate nel 19952. Tuttavia, le opinioni così raggruppate contengono al loro interno articolazioni assai variegate circa le modalità, la durata della gravidanza, le circostanze per le quali l’aborto viene richiesto. Più della metà degli Stati (26), qualora l’attuale legge venisse abolita, imporrebbero severe restrizioni all’accesso all’aborto, ritornando, in pratica, alla situazione anteriore al 1973 (Figura 1)3. C’è poi da dire che negli Stati Uniti, come in altri paesi, dopo un aumento dell’abortività legale dei primi anni successivi alla liberalizzazione, si è affermata una riduzione (più lenta che in Italia, come ora si dirà) del tasso di abortività, sceso da 29 aborti per 1000 donne di 15-49 anni nel 1980-81, a circa 13 negli ultimi anni (Figura 2). 

Infine occorre notare che la crescente diffusione del ricorso a farmaci per determinare una interruzione di gravidanza non intrusiva, rende assai difficile un bando senza tortuose normative, e senza accentuare le disuguaglianze legate al reddito, alle condizioni sociali, all’etnia. E, fatto più grave di tutti, senza accentuare i rischi per la salute della donna rappresentati da aborti indotti in condizioni di illegalità, senza adeguata assistenza sanitaria. Fatto, quest’ultimo che indagini e inchieste hanno incontrovertibilmente confermato. 

…e altrove, in Europa?

Ciò che avviene negli Stati Uniti non è senza conseguenza per gli altri paesi occidentali. La decisione dell’Alta Corte del 1973 precedette di poco decisioni analoghe prese da altri importanti paesi occidentali (Danimarca 1973, Svezia e Austria 1974, Francia 1975, Italia 1978), seguiti poi negli anni ’80-’90 da molti altri, per terminare con l’Irlanda nel 2019.  Ma esistono anche passi indietro, come quello della Polonia, la cui Corte Suprema ha dichiarato incostituzionale la legge del 1993, restringendo quindi l’accesso all’aborto ai casi di stupro, incesto e grave pericolo per la salute della madre. Restrizioni all’accesso all’aborto vengono invocate in quasi tutti i paesi europei, con varia forza e intensità, soprattutto, ma non sorprendentemente, da gruppi di destra. Anche nel nostro paese esistono diffuse opinioni antiaborto; va però rimarcato il fatto che le istituzioni religiose hanno mantenuto posizioni molto equilibrate e rispettose di una legge che – non dimentichiamolo – venne confermata inequivocabilmente dal referendum popolare del 1981. E, del resto, un’occhiata alla Figura 3 ci ricorda che il ricorso all’IVG, dopo aver raggiunto un massimo relativo nel 1983 pari a 238mila casi, è sceso gradualmente ai 68mila casi del 2020 (meno di un terzo), segno evidente che per le donne del nostro paese l’aborto costituisce un metodo di controllo delle nascite sempre meno seguito. Difficile pensare che si possa tornare indietro e, soprattutto, che si crei una maggioranza di donne (e di uomini) intenzionata a farlo.

Note

1“Liberalizzazione” è termine qui usato in modo generico, e relativo nei confronti dei divieti e delle restrizioni prima esistenti. Infatti nei paesi che hanno “liberalizzato” l’aborto esistono complesse normative e condizionamenti, quali ad esempio i limiti alla durata della gravidanza oltre ai quali l’interruzione della gravidanza non è permessa, salvo casi eccezionali.  

2 Pew Research Center, America’s Abortion Quandary, 6 maggio 2022

3 Guttmacher Institute




Declines in racial and ethnic disparities in poverty and affluence in the United States, 1959-2015*

Le differenze razziali ed etniche nella probabilità di sperimentare povertà e benessere negli Stati Uniti si sono generalmente ridotte nel periodo 1959-2015, indicando passi moderati verso l’uguaglianza razziale, afferma John Iceland. Tuttavia, permangono notevoli disparità, con i bianchi e gli asiatici che hanno meno probabilità di essere poveri e più probabilità di essere ricchi rispetto ai neri, agli indiani d’America e agli ispanici. I fattori a livello individuale e familiare che contribuiscono a queste differenze variano tra i gruppi e sono cambiati nel tempo.

Growing racial and ethnic diversity in countries around the world, fueled by international migration, has drawn increasing attention to patterns and trends in racial and ethnic inequality. In the United States, this remains a topic of intense public interest and concern — and disagreement. Some are deeply pessimistic, maintaining that inequality, including racial and ethnic inequality, is woven into the country’s fabric. Others are cautiously optimistic, as the legal foundations of racial inequality were dismantled during the Civil Rights era and public attitudes have, for the most part, moved in a direction where people are more accepting of others, as indicated, for example, in the increase in mixed marriages (Wang, 2012).

High, but declining racial and ethnic inequality in the United States

My recent research on socioeconomic inequalities indicates that while racial disparities in the relative likelihood of experiencing poverty and affluence are large, they generally declined over the 1959 to 2015 period (Iceland, 2019). In this study I use the official U.S. measure of poverty, originally devised in the 1960s, which is an absolute measure. The measure has two components: poverty thresholds and the definition of family income that is compared to these thresholds. The thresholds remain the same over time, updated only for inflation, and vary by family size and number of children. In 2015, the poverty threshold for a family with two parents and two children was $24,036 (Proctor, Semega, & Kollar, 2016). I use an absolute measure of affluence as well, where the threshold is set at five time the poverty threshold in a given year (Iceland (2019) includes more discussion of poverty and affluence using alternative definitions). Based on these measures, 15 percent of the U.S. population was poor in 2015, down from 22 percent in 1959. Meanwhile, the percentage of people who were affluent increased from just 6 percent in 1959 to 27 percent in 2015.

Of note, poverty declined for all groups, but moderately more for minority groups than whites. Similarly, affluence increased substantially for all groups—indicative of rising living standards—and in relative terms more for minority groups than Whites (though some absolute gaps increased). The increases in living standards were more prominent in the earlier decades of the study period than since 1999. Blacks and American Indians have the highest rates of poverty, followed closely by Hispanics, while Asians and Whites have relatively low poverty rates, with the lowest rate among Whites. Blacks, American Indians, and Hispanics have the lowest rates of affluence. Notably, Asians reached parity with Whites in affluence in 1979 and had surpassed them by 2015 (see Figures 1 and 2).

The role of group characteristics in explaining patterns and trends

I use demographic decomposition analyses to examine the extent to which sociodemographic characteristics explain differences in poverty and affluence across groups. These characteristics, such as education, family structure, and nativity explain some of the disparities—and an increasing proportion over the 1959 to 2015 period—indicative of the growing importance of disparities in human capital, the immigrant incorporation process, and shifts in household living arrangements in explaining racial inequality in poverty and affluence. For example, the proportion of the difference in poverty between Blacks and Whites explained by these characteristics grew from just under half in 1959 to two thirds in 2015. Among some groups, such as Hispanics, the increase was larger (31 percent to 92 percent over the period) while in other groups, such as American Indians, it was smaller (42 percent to 53 percent from 1959 to 2015). The increase in the explained proportion of group differences was generally larger when considering poverty than affluence, and in one instance—the difference in affluence between Whites and American Indians—there was a small decline in the explained percentage of the gap (73 percent in 2015, down from 80 percent in 1959).

Turning to the role of specific characteristics, among Hispanics and Asians, education and nativity were consistently important factors in explaining differences from Whites. For Hispanics, education was particularly important and its role increased over time. Among Asians, education was a “protective” factor—if Asians had more resembled Whites in terms of education, the disparities in poverty would have been larger. Nativity was important for both groups, especially with regards to poverty, as the foreign-born are consistently more likely to be poor and less likely to be affluent than the native born. Selective immigration from Asia likely helps explain better socioeconomic outcomes of Asians in the United States, combined with the emphasis immigrant parents place on schooling for their children (Hsin & Xie, 2014). While Asian immigrants are positively selected on education, the same is not the case for Hispanics, especially immigrants from Mexico, who come with relatively low levels of education (Feliciano, 2005). For Hispanics, then, future patterns of poverty and affluence will depend on the extent to which they continue to experience upward socioeconomic mobility across generations, which other studies have documented (Park & Myers, 2010).

The effect of family structure grew in importance and Became the most significant factor among Blacks—explaining about a third of the disparity with Whites in poverty and affluence in 2015. This reflects the relatively large decline in marriage among Blacks, as people living in married couple families are much more likely to be affluent and less likely to be poor than people in other household living arrangements. Among American Indians, several factors were important, including education (generally the most important), family structure, and, depending on the outcome, family size, age, or metropolitan status. Thus, it appears that cumulative disadvantages are important for American Indians, who are more likely to have lower levels of human capital, live in single parent families and in nonmetropolitan areas, and have a younger age structure than Whites.

The unexplained gap

Some of the gaps between groups remain unexplained by the factors included in the analysis, though the magnitude of the unexplained gap generally declined over time, as noted above. The presence of an unexplained difference in analyses of these kinds of survey data is sometimes attributed to discrimination (Snipp & Cheung, 2016). This may be the case in my study, though it is important to note that there are many other unobserved factors in the analysis as well, including neighborhood conditions, social capital, and cultural capital—all influenced by race-related factors, such as racial and ethnic segregation. Nevertheless, the findings suggest that these types of factors played a smaller role in explaining racial and ethnic disparities in poverty and affluence over time.

This study had a few limitations. The use of cross-sectional data precludes making strong causal inferences about the effect of the variables of interest, such as family structure, on poverty. Family structure can be both a cause and reflection of poverty. Some factors, such as educational attainment, can be affected by racial inequality. Thus, this study mainly sheds light on the individual- and household-level factors associated with poverty and affluence, and how differences in these characteristics across racial and ethnic groups might reflect and contribute to differences in the prevalence of poverty and affluence.

A picture with shadows and light

In summary, the findings suggest a moderate decline in racial inequality in poverty and affluence in the United States over the 1959 to 2015 period. However, despite some narrowing of the racial gap and the general parity between Whites and Asians, larger disparities remain among other groups. There are many causes for these continued disparities, and the relative importance of each varies across groups. Among these factors are racial discrimination in the labor market, which reduces employment and wages of some minority group members. The increase in incarceration in the late 20th century also served to reduce human capital and wages, among black men in particular, and these show up in higher poverty rates and lower rates of affluence among Black families. The legacy of historical inequalities may also play a role, as there is a fair amount of intergenerational transmission of socioeconomic status in the United States (Isaacs, 2008). Differences in social and cultural capital, social and spatial isolation, and culture may also help explain some of the differences (Iceland, 2017).

A final contribution of this study is to highlight that, despite substantial gaps across groups, all groups experienced an improvement in their absolute socioeconomic attainment over the 1959-2015 period. Among Blacks, for example, the percentage who were poor declined from 57 percent in 1959 to 25 percent in 2015, while the percentage who were affluent grew from under 1 percent to 14 percent over the same period. Given the differences in the nature of the disparities among the groups, including the change in the factors that have contributed to them over time, it is important to avoid simplistic explanations about the causes of racial inequality in the United States that do not account for important social, economic, and demographic changes over the past 60 years.

*”Articolo presente anche sul sito www.niussp.org

References

Feliciano, C. (2005). Feliciano 2005 Demography Educational selectivity in US migration. 42(1), 131–152.

Hsin, A., & Xie, Y. (2014). Explaining Asian Americans’ academic advantage over whites. Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 111(23), 8416–8421.

Iceland, J. (2017). Race and ethnicity in America. In Race and Ethnicity in America. Berkeley: University of California Press.

Iceland, J. (2019). Racial and Ethnic Inequality in Poverty and Affluence, 1959–2015. Population Research and Policy Review, 38(5), 615–654.

Isaacs, J. B. |Sawhill. I. V. |Haskins. R. (2008). Getting Ahead or Losing Ground: Economic Mobility in America. Brookings Institution. Retrieved from

Park, J., & Myers, D. (2010). Intergenerational Mobility in the Post-1965 Immigration Era: Estimates by an Immigrant Generation Cohort Method. Demography, 47(2), 369–392.

Proctor, B. D., Semega, J. L., & Kollar, M. A. (2016). Income and poverty in the United States: 2015. Current Population Reports, 256(September), 60–249.

Snipp, C. M., & Cheung, S. Y. (2016). Changes in Racial and Gender Inequality since 1970. Annals of the American Academy of Political and Social Science, 663(1), 80–98.

Wang, W. (2012). The Rise of Intermarriage.




Economia e immigrazione: rischio collisione per Trump?

politica migratoria di Trump

Andrea Marrocchesi riflette sulle possibili ripercussioni economiche sfavorevoli della politica migratoria di Trump, che persegue la costruzione del muro sul confine col Messico, suo cavallo di battaglia nella campagna elettorale.

Dopo 35 lunghissimi giorni, i dipendenti della pubblica amministrazione statunitense hanno finalmente potuto tirare un sospiro di sollievo. Dopo ben 5 settimane si è infatti chiuso il regime di shutdown, ovvero il blocco del rifinanziamento delle attività amministrative da parte del Congresso di Washington . Si è trattato del blocco più lungo di sempre, ben superiore al precedente record di 21 giorni del 1995-96. Questo sollievo potrebbe essere però di breve durata: l’accordo raggiunto fra il presidente Donald Trump e gli oppositori democratici si estende solo fino al 15 febbraio, data a seguito della quale potrebbe verificarsi un altro blocco dei finanziamenti.

Come la cronaca ci ha ripetuto innumerevoli volte , il pomo della discordia era (e forse lo sarà ancora) il progetto di’estensione e potenziamento del Muro al confine col Messico, vero pallino dell’attuale inquilino della Casa Bianca: una scadenza così ravvicinata come il 15 febbraio è diretta a sollecitare efficacemente sia gli alleati Repubblicani che i rivali Democratici sulla questione.

Diminuisce lo stock di migranti irregolari

L’immigrazione ha sempre costituito un perno dell’attuale amministrazione americana, fin dalla campagna elettorale del 2016: fin dai primi mesi di presidenza, Trump ha attuato una serie di misure volte a contrastare l’immigrazione clandestina, come il famoso travel ban per i migranti dei paesi musulmani e il tentativo di sopprimere il programma per la tutela dei  famosi dreamers, i figli dei migranti irregolari giunti in Usa da bambini, che Obama aveva “schermato” da eventuali deportazioni in caso studiassero o lavorassero. Tuttavia, un calo della popolazione clandestina negli Stati Uniti si è verificato già prima dell’avvento di Trump, come certificato anche da fonti indipendenti.

Tra queste il Center for Migration Studies, think tank con sede a New York, che a febbraio 2018 ha mostrato come la popolazione clandestina (undocumented) nel 2016 fosse scesa a 10,8 milioni, il livello più basso dal 2003, grazie al calo di 1 milioni di illegali messicani fra il 2010 ed il 2016 (Figura 1) [1]. A conclusioni simili è giunto il Pew Research Center(PRC) , secondo il quale la popolazione irregolare si è ridotta a 10,7 milioni nel 2016, rispetto al picco di 12,2 milioni del 2007 [2].

Un freno all’immigrazione nonostante un’alta domanda di lavoro

Se l’immigrazione irregolare costituisce una fonte di profonda preoccupazione per Donald Trump, l’economia è motivo di orgoglio, grazie agli ottimi dati forniti dai principali indicatori macroeconomici nei suoi due anni di presidenza. Un dato che il presidente rimarca spesso è quello della disoccupazione, inferiore al 4%, il minimo da mezzo secolo. Questa situazione potrebbe però esaurirsi a breve, a causa di politiche eccessivamente repressive riguardanti la manodopera straniera. La Federal Reserve, in un rapporto di dicembre, ha stimato che il tasso naturale di disoccupazione (il tasso più basso che l’economia può sostenere senza causare inflazione) sarà del 4-5% nel prossimo quinquennio [3]. Sebbene la notizia sia sicuramente positiva, anche perché una bassa disoccupazione stimola una maggiore crescita dei salari, al contempo ci sono dei malus: negli Usa i posti di lavoro vacanti (jobs openings) sono ben 7 milioni, dunque l’offerta è nettamente superiore alla domanda.

In queste circostanze, ai datori di lavoro occorre un numero maggiore, e non minore, di lavoratori migranti. Sempre il PRC ha stimato un declino dei lavoratori irregolari da 8,2 milioni (5,4% della forza lavoro) nel 2007, a 7,8 milioni(4,8%) nel 2016 [4]. Gli irregolari rappresentano una fetta massiccia di lavoratori nel settore agricolo edilizio e alberghiero In assenza di sufficiente manodopera, gli agricoltori californiani hanno spostato le loro coltivazioni intensive in Messico [5].

Il Muro e l’economia

In aggiunta ad un calo già presente, le politiche implementate dall’amministrazione Trump contribuiranno ad accelerare la riduzione della popolazione irregolare , con potenziali rischi anche per l’immigrazione regolare. Paradossalmente, anche un’iniziativa come quella espressa nella dichiarazione congiunta Stati Uniti-Messico il 18 dicembre può risultare controproducente: infatti il governo Usa ha promesso 5,8 miliardi di dollari di investimenti pubblici e privati in America centrale, ed altri 4,8 miliardi per il Messico, di cui 2 miliardi da utilizzare per lottare contro l’immigrazione clandestina. Il neopresidente Lopez Obrador ha salutato l’accordo con entusiasmo, arrivando a dire che con esso “nessuno vorrà più andare a lavorare in America [6]”. Sebbene potenzialmente foriero di benefici per la sicurezza pubblica, tale accordo rischia di aggravare il saldo tra migranti in arrivo ed in uscita, già deficitario.

Questi trend esacerberanno la carenza di forza lavoro, specie per i ruoli meno qualificati. Oltre a questo, potrebbero determinare una maggiore inflazione, una riduzione dei contributi per il welfare a stelle e strisce della Social Security e del Medicare, un rallentamento della crescita economica e il trasferimento all’estero di lavoro e capitale. Non mancano proiezioni statistiche che certificano come nel prossimo quindicennio la crescita della forza-lavoro USA sarà sostenuta dai migranti [7]. Sebbene sia molto più difficile elaborare una soluzione univoca ed onnicomprensiva, piuttosto che edificare un muro di oltre 3000 km, sarebbe opportuno riformare il sistema dell’ immigrazione regolare, contrastare i problemi di ordine pubblico derivanti da quella irregolare e facilitare l’accesso alla cittadinanza per gli stranieri con lavoro e dimora stabile negli Usa.

Note

[1] Robert Warren, “The US undocumented population fell sharply during the Obama Era. Estimates for 2016” ,Center for Migration Studies, 22 February 2018

[2] Jeffrey Passel- D’Vera Cohn, “US unauthorized immigrant total dips to lowest level in a decade” , Pew Research Center-Hispanic Trends, 27 November 2018

[3] “What is the lowest level of unemployment that the Us economy can sustain?” FOMC economic predictions, 19 December 2018

[4] Jens Manuel Krongstad, “5 facts about illegal immigration in the US”, Pew Research Center- FacTank News in the Numbers, 28 November 2018

[5] Stacey Vanek Smith- Cardiff Garcia “Worker shortage hurts California’s agricolture industry” NPR, 3 May 2018

[6] Chris Riotta, “US will invest billions in Mexico and Central America to reduce emigration and increase economic stability” The Independent, 18 December 2018

[7] Jeffrey Passel- D’Vera Cohn, “Immigration projected to drive growth in US working-age population through at least 2035” Pew Research Center-FacTank News in the numbers, 8 March 2017




L’immigrazione secondo Donald Trump, nel discorso sullo stato dell’unione del 30 gennaio 2019

trump

As we have seen, when we are united, we can make astonishing strides for our country. Now, Republicans and Democrats must join forces again to confront an urgent national crisis.

The Congress has 10 days left to pass a bill that will fund our Government, protect our homeland, and secure our southern border.

Now is the time for the Congress to show the world that America is committed to ending illegal immigration and putting the ruthless coyotes, cartels, drug dealers, and human traffickers out of business.

As we speak, large, organized caravans are on the march to the United States. We have just heard that Mexican cities, in order to remove the illegal immigrants from their communities, are getting trucks and buses to bring them up to our country in areas where there is little border protection. I have ordered another 3,750 troops to our southern border to prepare for the tremendous onslaught.

This is a moral issue. The lawless state of our southern border is a threat to the safety, security, and financial well‑being of all Americans. We have a moral duty to create an immigration system that protects the lives and jobs of our citizens. This includes our obligation to the millions of immigrants living here today, who followed the rules and respected our laws. Legal immigrants enrich our Nation and strengthen our society in countless ways. I want people to come into our country, but they have to come in legally.

Tonight, I am asking you to defend our very dangerous southern border out of love and devotion to our fellow citizens and to our country.

No issue better illustrates the divide between America’s working class and America’s political class than illegal immigration. Wealthy politicians and donors push for open borders while living their lives behind walls and gates and guards.

Meanwhile, working class Americans are left to pay the price for mass illegal migration — reduced jobs, lower wages, overburdened schools and hospitals, increased crime, and a depleted social safety net.

Tolerance for illegal immigration is not compassionate — it is cruel. One in three women is sexually assaulted on the long journey north. Smugglers use migrant children as human pawns to exploit our laws and gain access to our country.

Human traffickers and sex traffickers take advantage of the wide open areas between our ports of entry to smuggle thousands of young girls and women into the United States and to sell them into prostitution and modern-day slavery.

Tens of thousands of innocent Americans are killed by lethal drugs that cross our border and flood into our cities — including meth, heroin, cocaine, and fentanyl.

The savage gang, MS-13, now operates in 20 different American States, and they almost all come through our southern border. Just yesterday, an MS-13 gang member was taken into custody for a fatal shooting on a subway platform in New York City. We are removing these gang members by the thousands, but until we secure our border they’re going to keep streaming back in.

Year after year, countless Americans are murdered by criminal illegal aliens.

I’ve gotten to know many wonderful Angel Moms, Dads, and families – no one should ever have to suffer the horrible heartache they have endured.

Here tonight is Debra Bissell. Just three weeks ago, Debra’s parents, Gerald and Sharon, were burglarized and shot to death in their Reno, Nevada, home by an illegal alien. They were in their eighties and are survived by four children, 11 grandchildren, and 20 great-grandchildren. Also here tonight are Gerald and Sharon’s granddaughter, Heather, and great‑granddaughter, Madison.

To Debra, Heather, Madison, please stand: few can understand your pain. But I will never forget, and I will fight for the memory of Gerald and Sharon, that it should never happen again.

Not one more American life should be lost because our Nation failed to control its very dangerous border.

In the last 2 years, our brave ICE officers made 266,000 arrests of criminal aliens, including those charged or convicted of nearly 100,000 assaults, 30,000 sex crimes, and 4,000 killings.

We are joined tonight by one of those law enforcement heroes: ICE Special Agent Elvin Hernandez. When Elvin was a boy, he and his family legally immigrated to the United States from the Dominican Republic. At the age of eight, Elvin told his dad he wanted to become a Special Agent. Today, he leads investigations into the scourge of international sex trafficking. Elvin says: “If I can make sure these young girls get their justice, I’ve done my job.” Thanks to his work and that of his colleagues, more than 300 women and girls have been rescued from horror and more than 1,500 sadistic traffickers have been put behind bars in the last year.

Special Agent Hernandez, please stand: We will always support the brave men and women of Law Enforcement — and I pledge to you tonight that we will never abolish our heroes from ICE.

My Administration has sent to the Congress a commonsense proposal to end the crisis on our southern border.

It includes humanitarian assistance, more law enforcement, drug detection at our ports, closing loopholes that enable child smuggling, and plans for a new physical barrier, or wall, to secure the vast areas between our ports of entry. In the past, most of the people in this room voted for a wall — but the proper wall never got built. I’ll get it built.

This is a smart, strategic, see-through steel barrier — not just a simple concrete wall. It will be deployed in the areas identified by border agents as having the greatest need, and as these agents will tell you, where walls go up, illegal crossings go way down.

San Diego used to have the most illegal border crossings in the country. In response, and at the request of San Diego residents and political leaders, a strong security wall was put in place. This powerful barrier almost completely ended illegal crossings.

The border city of El Paso, Texas, used to have extremely high rates of violent crime — one of the highest in the country, and considered one of our Nation’s most dangerous cities. Now, with a powerful barrier in place, El Paso is one of our safest cities.

Simply put, walls work and walls save lives. So let’s work together, compromise, and reach a deal that will truly make America safe.




The ultimate inequality: vast mortality disparities across U.S. regions*

Le differenze della mortalità costituiscono l’esito (definitivo) delle disuguaglianze di salute. Combinando i concetti di regione e divisioni territoriali, Wesley James, Jeralynn Cossman e Julia Wolf evidenziano le variazioni nella mortalità negli Stati Uniti al fine di rispondere alla seguente domanda: dove si registra la mortalità peggiore e quanto forti sono le differenze?

Background

Our work looks at the ultimate form of health inequality – death. Morbidity (i.e., illness, disease) and mortality (i.e., death) outcomes are not equally distributed across the United States. Mortality is used frequently as a measure of societal well-being and age, sex and race based differences are well known. Mortality rates also vary by socioeconomic status, typically measured by education and income.

Geographic — or spatial — disparities are less clearly known, however, largely because of varying definitions of “place.” In our work, place refers to three different concepts:

1) region (i.e., Northeast, Midwest, South, and West),

2) division (e.g., East South Central), and

3) urban vs. rural (using the Rural Urban Continuum Codes).

Historically, research has shown that health outcomes (like mortality) were bad in the South and in cities. Recent work has shed light on the increasingly poor health outcomes experienced in rural America as of the mid-1980s, labeling it the “Rural Mortality Penalty”.

There is a strong correlation between place and death when looking from a macro perspective —that is, focusing on the forest rather than the trees. We cannot say that a specific person is more likely to die because of where they live, but some places have higher (or lower) death rates than others. Residents of a place continuously change, but the health characteristics of those places typically stay the same; they are persistent. We have continued to build upon the mounting evidence that rural America is trending the wrong way on death statistics, and in our most recent work (James, Cossman and Wolf 2018) we do so by combining the concepts of region, division, and urban-rural to find variation in mortality based on where people reside to answer the question: what place has it the worst and how bad is it?

Persistent clusters of mortality

Our work takes a new perspective on place-based mortality disparities, expanding upon prior research on the Rural Mortality Penalty (Cosby et al. 2008; Cossman et al. 2010; James 2014), by examining disparities in mortality persistence across combinations of urban/rural-region and urban/rural-division classifications. Spatial persistence in mortality is important because it implies something greater is acting on these places over time; additionally, it sheds light on the classic question in morbidity and mortality studies of whether the determination of an outcome is more associated with characteristics of its people or characteristics of the place.

We know that mortality is higher in rural than urban places and in Southern than non-Southern places, but what about rural Southern places, or urban non-Southern places?

Map 1 provides a first glance into where persistence of high mortality clusters at the county-level. The red counties indicate places that experience unusually high death rates for nearly fifty years, the gray counties are those that do not. For scholars of demography and population health, these geographic disparities are not surprising. Upon closer look, the red counties cluster not only in the South but particularly in the middle of the South, that is, the East South Central (ESC) division as defined by the U.S. Bureau of the Census as Kentucky, Tennessee, Mississippi, and Alabama.

While the map informs us of region and division differences in persistence of mortality, it does not specifically address the rural-urban concept of place. Figure 1 does exactly that. The solid black and gray lines plot the Rural Mortality Penalty. The red dashed lines indicate the different death rates for the rural parts of each southern division and the blue dashed line indicates the death rates for the urban parts of the West North Central (WNC) division in the Midwest region. The distance between the top red line and the bottom blue line is substantial. These regional differences have not been explored to the same extent that rural and urban differences have. So, what are these places?

The poorest outcomes are in places of less than 20,000 county residents in the middle of the South and the best outcomes are in places of more than 250,000 residents in the upper Midwest. The disparity in death rates exceeds 250 deaths per 100,000, which equals hundreds of thousands of deaths accumulated over several years in the rural South that would have been prevented/delayed given equal rates of death to the more privileged urban western north central regions. The other two southern divisions (West South Central and South Atlantic) do not compare favorably to the urban Midwest either, but they are not trending in the wrong direction as is seen in the rural ESC.

Conclusion and implications

The issue of unhealthy places is uniquely relevant at this moment in time, as life expectancy in the U.S. has decreased for the second year in a row, a statistical outlier that has not been observed in more than 50 years, as shown in Figure 2 (Fox 2017).

There are three suspected drivers of this trend:

1) an increase in drug/opioid use,

2) smoking behaviors are more attributable to mortality in the South Central states than in other divisions (Fenelon 2013), and

3) the historical concentration of poverty in the rural South has been associated with mortality for decades (Fenelon 2013).

Considering that the East South Central division contains roughly 19 million people, an estimated 6,600 excess deaths occurs annually given the mortality disparity. The slow rate of improvement in the rural ESC counties is one of the main drivers of the persistent mortality disadvantage. Unfortunately, many in the rural South are falling behind in the race for longevity and good health. We conclude by answering the original question; what place has it the worst and how bad is it? Rural Dixieland has it far worse than the urban Heartland—in a landslide.

*”Articolo presente anche sul sito www.niussp.org

References

Cosby, A., Neaves, T., Cossman, R., Cossman, J., James, W., Feierabend, N., Mirvis, D., Jones, C., and Farrigan, T. (2008). Preliminary evidence for an emerging non-metropolitan mortality penalty in the United States. American Journal of Public Health 98(8): 1470–1472. doi:10.2105/AJPH.2007.123778.

Cossman, J., James, W., Cosby, A., and Cossman, R. (2010). Underlying causes of the emerging nonmetropolitan mortality penalty. American Journal of Public Health 100(8): 1417–1419. doi:10.2105/AJPH.2009.174185.

Fenelon, A. (2013). Geographic divergence in mortality in the United States. Population Development Review 39(4): 611–634. doi:10.1111/j.1728-4457.2013.00630.x.

Fox, M. (2017, December 21). U.S. life expectancy falls for second straight year: As drug overdoses soar. NBC News.

James W. (2014). All rural places are not created equal: Revisiting the rural mortality penalty in the United States. American Journal of Public Health 104(11): 2122–2129. doi:10.2105/AJPH.2014.301989.

James W., Cossman J., Wolf J. (2018). Persistence of death in the United States: The remarkably different mortality patterns between America’s Heartland and Dixieland, Demographic Research 33: 897–910

Articolo pubblicato anche su www.niussp.org




Venezuelani in fuga

venezuelani in fuga

Fonti attendibili valutano in quasi tre milioni i venezuelani fuori del paese, per lo più usciti in numeri crescenti negli ultimi tre anni. Steve Morgan descrive le cause e le conseguenze di questo esodo, senza precedenti in America Latina, provocato dalla crisi sociale, economica e politica del regime, che invano tenta di occultarne la portata.

Il Puente Internacional Simón Bolívar è una modesta struttura, lunga 300 metri e larga 7, che unisce le due rive del fiume Táchira (Figura 1), e segna il confine tra la Repubblica Bolivariana del Venezuela e la Colombia, nelle Ande orientali. Un fiume quasi a secco per buona parte dell’anno, ma impetuoso nella stagione delle piogge. Sul ponte sono transitate centinaia di migliaia di venezuelani, che nella prima fase della crisi cercavano nel paese vicino generi di prima necessità, oramai introvabili in patria. Ma in seguito il flusso è diventata un’ondata di piena, composta da migranti in fuga da un paese che sta sempre di più sprofondando in una crisi umanitaria, per il diffondersi della estrema povertà, della malnutrizione e della fame, della discriminazione.

Una crisi migratoria senza precedenti in America Latina

Il ponte sul Táchira è uno dei luoghi di transito terrestri verso la Colombia, che oramai accoglie un milione di espatriati dal paese vicino; i transiti a sud verso il confinante Brasile sono adesso militarizzati e controllati, mentre quelli verso est, nella confinante e povera Guyana, sono assai pochi. Le stime che circolano sui venezuelani espatriati variano da 1,6 a 4 milioni, cifre assai lontane tra loro, conseguenza della debolezza delle rilevazioni e dalla tipologia delle stesse migrazioni, che includono i lungo-residenti all’estero, i richiedenti asilo e coloro che hanno ricevuto altre forme di protezione, i migranti temporanei, gli irregolari. Negli ultimi tempi, fonti autorevoli stimano i venezuelani espatriati tra i 2,5 e i 3 milioni, dei quali un terzo in Colombia, seguito da Perù, Brasile, Ecuador e Cile. L’esodo di massa dal Venezuela è stato definito come la più grande crisi migratoria mai verificatasi nella storia dell’America Latina, una crisi che le stesse organizzazioni internazionali apparentano – per lo meno nelle sue dimensioni – a quella siriana. Il parallelo è solo quantitativo, per fortuna, perché la migrazione non è la conseguenza (almeno per ora) di una guerra, di una guerriglia, o di una sistematica persecuzione, ma della profondissima crisi economica, sociale e politica.

L’ondata prende forza

Il Venezuela ha avuto un’evoluzione demografica non diversa da quella degli altri paesi dell’America Latina: aveva 5 milioni e mezzo di abitanti nel 1950, ne ha oggi circa 32; alla metà del secolo scorso il tasso annuo d’incremento era al vertiginoso livello del 4%, ridotto a poco più dell’1% negli ultimi anni, e ciò in conseguenza del rapido declino della natalità¹. Ancora negli anni ’60 le donne venezuelane generavano un numero medio di figli pari a 6, sceso a 2,2 negli ultimi tempi. Contrariamente ai paesi del Cono Sud – Argentina, Uruguay e Cile – il Venezuela ha una storia di modesta immigrazione, con eccezione degli anni ’50, durante i quali il paese attrasse un forte flusso – circa un milione – di immigrati Europei, dei quali circa un quarto italiani. Le Nazioni Unite stimano che l’apporto migratorio al netto delle ripartenze, fu di circa un terzo di milione durante quel decennio. In seguito, fino alla fine del secolo, il bilancio migratorio è stato praticamente nullo; dall’avvento di Chávez nel 1998 si è invece formata una corrente di emigrazione che è diventata un fiume in piena negli ultimi anni. Mentre nella prima fase partivano soprattutto professionisti, tecnici e quadri qualificati, negli ultimi tempi sono i ceti medi e quelli popolari a costituire la grande maggioranza dei flussi².

Appoggiandoci alle stime informate della Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, il numero dei venezuelani che vivono all’estero (Figura 2) è cresciuto da meno di mezzo milione nel 2005 a 1,6 milioni nel 2017, e a questi vanno aggiunte le molte centinaia di migliaia – alcuni sostengono più di un milione – del recentissimo esodo. Un’idea ancor più realistica dell’accelerazione del fenomeno negli ultimissimi tempi si può desumere dalla Figura 3, che riporta l’andamento delle domande di asilo dei venezuelani in altri paesi: nei primi 9 mesi del 2018 sono state quasi 200.000, contro poco più di 100.000 nell’intero 2017. Le rilevazioni aggiornate a fine di Settembre 2018 informano che a quella data sono circa 350.000 i venezuelani all’estero che fruiscono dell’asilo, mentre altri 850.000 beneficiano di altre forme di soggiorno legale³. Questi conteggi ufficiali non includono però gli irregolari o comunque gli espatriati con visti turistici rimasti nel paese di arrivo, che costituiscono una componente altrettanto numerosa dell’esodo.

Un disastro invano occultato dal regime

Questa emigrazione di massa è la prova più evidente del disastro economico e sociale del paese, che Maduro e il suo governo tentano invano di occultare. La crisi – dicono – è grandemente esagerata e comunque è la conseguenza del “blocco finanziario capitanato dagli Stati Uniti” e delle manipolazioni del capitalismo internazionale. Nelle ultime settimane si è dato grande rilievo propagandistico al “Plan de vuelta a la patria”, cioè un piano che aiuta i venezuelani emigrati a rientrare nel paese. Vittime, secondo Maduro, di una sorta di complotto internazionale, ordito per giustificare un intervento militare nel paese. Gli espatriati sarebbero vittime di discriminazioni, di sfruttamento, di abusi e di vere e proprie campagne xenofobe (sicuramente avvenuti, ma quanti di più ne hanno sofferti nel loro paese?). I pochi voli di “rientro” sono naturalmente esaltati dalla macchina propagandistica del regime.

Politiche migratorie generose sotto stress

Assai interessante è la situazione giuridica nella quale si trovano gli emigrati venezuelani. Nella tradizione latino americana c’è sempre stata molta tolleranza nei confronti dei flussi transfrontalieri. Un forte ruolo è giocato dalla (relativa) unità di lingua, religione e cultura, che rende gli immigrati dai paesi del continente meno “stranieri” di quanto avvenga in altre regioni del mondo. Quasi tutti gli Stati dell’America Latina non solo hanno sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951, ma sono firmatari anche della Dichiarazione di Cartagena del 1984 che ha esteso il diritto alla protezione alle vittime di violenze, di conflitti interni, di violazione massiccia dei diritti umani o di altre situazioni di grave disturbo dell’ordine pubblico. Cosicché, secondo molti esperti, agli emigrati venezuelani può adattarsi la definizione di rifugiato[4].

Come già detto, alla fine dello scorso settembre l’UNHCR censiva circa 350.000 rifugiati e 850.000 venezuelani soggiornanti in base a “forme alternative di soggiorno legale”. Alternative rispetto all’asilo, ma che permettono ai migranti di vivere, lavorare, e accedere ai servizi sociali nel paese che li ospita, per uno o due anni. La normativa varia da paese a paese, ed è passibile di essere modificata sotto la spinta degli eventi.

Orizzonti tempestosi

Quale possa essere l’evoluzione futura è difficile a dirsi. Da un’indagine dello scorso aprile si desume che l’80% della popolazione vive in stato di povertà, e che varie centinaia di migliaia di venezuelani sono severamente malnutriti e a rischio fame. L’ inflazione è inarrestabile, incamminata verso il traguardo del milione per cento, ed ha spinto il governo ad inverosimili acrobazie monetarie. La nuova moneta creata dal governo è “appoggiata ad una presunta criptomoneta governativa, che è come costruire un castello di carte sopra le sabbie mobili”[5]. Le esportazioni sono al minimo. La maggioranza dei giovani è orientata ad abbandonare il paese. Ma il regime al potere, che ha i militari dalla sua parte, è ancora in piedi. La crisi umanitaria continuerà a spingere i venezuelani verso i paesi vicini, sempre che le politiche generose di accoglienza sviluppate dagli anni ’90 in poi, non vengano mutate. Tuttavia, sotto la pressione dei flussi crescenti, le strutture di accoglienza vengono sopraffatte; i servizi sociali, spesso inadeguati per le stesse popolazioni autoctone, sono sotto grave stress, il mercato del lavoro informale offre salari ridottissimi ai nuovi arrivati in competizione al ribasso con i lavoratori nazionali; gli episodi di conflitto e intolleranza si moltiplicano. Il Brasile, militarizzando i confini, ha iniziato a respingere i migranti, e, al suo interno, lo stato di Roraima ha decretato uno stato di “emergenza sociale”. Ecuador e Perù, dall’inizio dell’anno, ammettono solo i venezuelani provvisti di regolare passaporto; la Colombia ha apportato modifiche alla normativa assai generosa in senso più restrittivo dallo scorso febbraio. La situazione resta tuttavia assai fluida, né esiste un orientamento comune tra i paesi mèta dell’esodo, assai divisi nella loro politica verso il regime di Maduro.

Note

¹ Dati desunti da United Nations, World Population Prospects. The 2017 Revision,

² Luisa Feline Freier and Nicolas Parent, A South American Migration Crisis: Venezuelan Outflows Test Neighbors’ Hospitality, 18 luglio 2018, Migration Policy Institute

³ UNHCR, Venezuela Situation, 11 ottobre 2018,

[4] Freier e Parent, South American, cit

[5]Kenneth Rogoff , Los costes de la crisis venezolana, El Pais, 16 settembre 2018,

Fonte figura 1El cooperante

 




Una odissea caraibica

Haiti è il paese di gran lunga più povero e disastrato del continente americano. Dopo il catastrofico terremoto del 2010 si è messa in marcia una nuova diaspora, le cui vicende sono richiamate da Massimo Livi Bacci. Accolti dal Brasile, poi costretti a migrare di nuovo, verso il Cile e verso il Messico, risalendo il continente fino alla frontiera con gli Stati Uniti, che ha richiuso le porte, aperte anni prima per motivi umanitari.

Quando Colombo prese terra, nel dicembre del 1492, dove attualmente sorge Môle Saint Nicolas, sulla costa settentrionale, l’intera isola di Santo Domingo (allora battezzata Hispaniola, oggi divisa in Repubblica Dominicana e Haiti) ospitava un paio di centinaia di migliaia di Taino, un’etnia che lo sciagurato sfruttamento prima e le malattie dopo portarono all’estinzione in poco più di mezzo secolo. Oggi Haiti, su un territorio di 27000 kmq, appena più grande del Piemonte, conta più di 11 milioni di abitanti, ed è sicuramente una delle regioni più sovrappopolate del mondo.

L’isola si ripopola

L’importazione di schiavi dall’Africa e l’introduzione delle piantagioni di canna da zucchero costruirono una nuova base demografica. Nel 1804, quando la parte haitiana dell’isola conseguì l’indipendenza (dai Francesi, che erano subentrati agli Spagnoli) la popolazione, quasi totalmente di origine africana, contava mezzo milione di abitanti, cresciuti poi ad oltre 3 milioni nel 1950 e superando gli 11 milioni nel 2018. Il tasso di crescita annuale, tra il 1950 e il 2000, e si è aggirato attorno al 2 per cento, moderandosi poi negli ultimi due decenni (1,3% tra il 2010 e il 2018). Nei prossimi trent’anni, scontando un ulteriore consistente abbassamento della natalità e una continua emigrazione, il tasso di crescita continuerà la sua frenata, tuttavia la popolazione haitiana dovrebbe superare i 14 milioni di abitanti nel 2050 (Tabella 1). Le ultime indagini demografiche mostrano un sensibile calo della riproduttività, che ancora negli anni ’90 sfiorava i 5 figli per donna, ridotti a 3 nell’ultima indagine del 2016-17. Appena un terzo (34%) delle donne tra i 15 e i 45 anni utilizza metodi contraccettivi, e quasi il 40% non usa contraccezione pur non volendo figli o volendo posticiparne la nascita. Pur se la tendenza è al netto ribasso, è da pensare che occorrano un paio di decenni prima che la popolazione haitiana possa raggiungere la bassa fecondità (intorno a 2 figli per donna) oggi prevalente nella regione Caraibica.

Un ambiente degradato

Gli 11 milioni di Haitiani vivono oggi, costretti in un territorio in buona parte montuoso e profondamente degradato dal progressivo disboscamento per la ricerca di nuovi spazi da coltivare. La deforestazione ha una lunga storia, che inizia con l’introduzione e l’estensione delle piantagioni di canna da zucchero nel XVII e nel XVIII secolo; con l’esportazione di legname pregiato come il mogano; con l’introduzione di modelli inadatti di agricoltura industriale. Ma dagli anni ’40 e ’50 c’è stata un’accelerazione del processo; la crescita demografica (la popolazione si è quadruplicata dal 1940 ad oggi) ha spinto la popolazione rurale ad estendere le coltivazioni, risalendo e disboscando le pendici delle colline e dei monti, erodendo gradualmente il manto boscoso, che copriva più della metà della superficie dell’isola negli anni ’40, e oggi è ridotto al 30%. La produzione di carbone per uso domestico ha aggravato il fenomeno. I terreni sono diventati vulnerabili alle inondazioni, che hanno causato ulteriore erosione e perdita di fertilità. L’uso incontrollato di pesticidi ha determinato, soprattutto nelle valli e nelle aree pianeggianti, enormi problemi di inquinamento delle acque. I frequenti uragani (2004, 2008 e 2016 i più disastrosi) devastano un ambiente fragile, con pesanti danni alle coltivazioni, distruzione di abitazioni e infrastrutture (Figura 1). Il disastroso terremoto del 12 gennaio 2010 è costato un numero di vittime imprecisato, probabilmente inferiore a 100.000 (per molto tempo è circolata la cifra di 316.000 vittime, prendendo per buono un comunicato del Governo Haitiano basato su elementi inconsistenti), e danni il cui costo è stato superiore al reddito nazionale del paese (120 per 100, secondo una stima della Banca Mondiale).

La diaspora dal paese più povero d’America

Gli Haitiani sono il popolo più povero del continente americano (povertà superata solo da qualche paese sub-sahariano); l’agricoltura è per molte famiglie di pura sussistenza; le infrastrutture urbane miserande, e altrove spesso inesistenti. Gli Haitiani hanno il reddito pro capite più basso tra i paesi del continente americano (740 dollari, nel 2016, contro i 2151 del Nicaragua e i 2361 dello Honduras, che seguono nella graduatoria della povertà), e poco più di un decimo di quello della confinante Repubblica Dominicana. Non stupisce che la povertà e il diffuso senso di insicurezza legato ai disastri ambientali provochino spinte fortissime all’emigrazione. Ci fu un tempo, nei primi decenni dell’800, quando la nuova indipendente Repubblica haitiana attrasse un modesto ma significativo flusso d’immigrazione dagli Stati Uniti. Ma quel tempo finì presto e nel ‘900 l’isola è stata costantemente origine di flussi di emigrazione. L’infiltrazione nella vicina Santo Domingo è stata costante: negli anni ’30 il neo dittatore Trujillo praticò una feroce “pulizia etnica” massacrando inermi immigrati haitiani e chiudendo i confini. Nel dopoguerra, come dalle altre isole caraibiche, l’emigrazione è stata costante. Nel solo quinquennio 2010-15, l’esodo netto è stato di 150.000 unità. La destinazione privilegiata sono gli Stati Uniti, il Canada francofono, gli altri paesi dei Caraibi (Repubblica Dominicana in testa) e dell’America centrale e, in Europa, la Francia. Lo stock di migranti haitiani (per le Nazioni Unite costituito dai nati a Haiti viventi fuori da Haiti o, alternativamente, persone di nazionalità haitiana che vivono in altro paese) era valutato in 801mila nel 2000, cresciuto a 1,281 milioni (+56%) nel 2017. La diaspora haitiana – che per motivi politici, linguistici e etnici è inferiore a quella di altri paesi caraibici – vive per il 52% negli Stati Uniti, 7% in Canada, 6% in Francia e 26% nella Repubblica Dominicana. Essa è essenziale per la sopravvivenza dell’isola, perché le rimesse degli emigranti rappresentano (2016) il 29,4% del PIL, una quota assai maggiore di quella apportata dalle rimesse di migranti centroamericani o caraibici ai rispettivi paesi di origine. L’emigrazione – per tanti Haitiani e tante altre povere popolazioni dei Caraibi e dell’America centrale – è stata la più efficiente via di uscita dalla povertà sia per chi è riuscito a partire sia per chi è rimasto in patria. E le rimesse vanno direttamente nelle tasche della povera gente e non in quelle dei burocrati, degli intermediari o della malavita come troppo spesso è avvenuto per gli aiuti allo sviluppo.

Una nuova odissea

Le distruzioni di vite umane, abitazioni e infrastrutture provocate dal catastrofico terremoto del 2010 ha spinto la diaspora haitiana in una nuova ed inattesa direzione. Il Brasile, che già era impegnato nella guida della missione stabilizzatrice delle Nazioni Unite fin dal 2004, diventò la mèta di un nuovo flusso di immigrazione (Figura 2). In una prima fase, il flusso seguì una strada assai accidentata verso il nord del Brasile, prima verso la Repubblica Dominicana in autobus, poi in aereo fino a Panama, poi per via terrestre, aerea e marittima attraverso Colombia, Ecuador e Perù fino alla frontiera con lo Stato brasiliano di Acre, nella regione amazzonica.

L’arrivo di decine di migliaia di Haitiani in una regione arretrata, povera e senza strutture di accoglienza creò una situazione di crisi, e lo Stato di Acre dichiarò uno “stato di emergenza sociale” nel 2013, organizzando poi il trasferimento coatto verso San Paolo. Nel frattempo, l’apertura ufficiale all’immigrazione haitiana dichiarata dal Governo Lula rese possibile l’ingresso diretto nel paese. I nuovi flussi si diressero verso gli Stati del Sud: Santa Catarina, Rio Grande do Sul e, soprattutto, San Paolo. Gli Haitiani trovarono impiego nelle industrie delle costruzioni e della lavorazione della carne, insediandosi nelle aree interne dei tre Stati, più che nelle grandi città. Statistiche ufficiali parlano di 67.000 permessi di residenza, temporanei e permanenti, concessi fino al 2016. Per altre fonti amministrative, nei soli anni 2014 e 2015, gli ingressi sono stati 98.000. Con la crisi economica e la caduta di Dilma Rousseff, le porte si sono richiuse, ed è iniziato un flusso di partenze dal paese, verso il Cile e verso il Nord del continente, nella speranza di raggiungere gli Stati Uniti e il Canada. Gli Stati Uniti, nel Gennaio del 2010, avevano approvato lo “Stato di Protezione Temporanea” (TPS) per i profughi dal disastro dell’isola, a mezzo del quale diverse decine di migliaia di Haitiani hanno trovato rifugio. Ma nel Novembre scorso, Trump ha dichiarato terminato il programma; chi è negli Usa dovrà o rimpatriare o emigrare altrove entro il 22 Luglio del 2019: si tratta di circa 59.000 persone. Per gli altri le porte si chiudono, o quasi. Così, l’odissea degli Haitiani, termina al confine con gli Stati Uniti dopo aver fatto il periplo del continente. Fonti messicane hanno valutato in 30.000 coloro che sono entrati in Messico dal confine guatemalteco diretti a Nord; a fine 2016, 12000 migranti erano arrivati a Tijuana, alla frontiera, ma non poterono varcarla, provocando una crisi umanitaria (Figura 3). Data la porosità dei confini e, ovunque, la diffusione dell’economia informale del continente iberoamericano, molti Haitiani si sono dispersi nel lungo cammino.

Il disordine del mondo

Il caso haitiano è un esempio del disordine del mondo e delle peripezie e sofferenze che questo produce sui migranti. Confini che si aprono e si chiudono, flussi prima accolti e poi respinti, migranti privi di diritti, interventi umanitari a singhiozzo. In un clima internazionale nel quale la parola “chiudere” è pronunciata molto più spesso di quella “aprire”.

Fonte figure

Figura 1: www.eldiario.es
Figura 2: http://ambito-juridico.com.br
Figura 3: https://psmag.com




La “Bestia” verso il Muro: una odissea centroamericana

La “Bestia” è il treno, o meglio lo sgangherato sistema ferroviario, messicano. A bordo dei treni merci transitano centinaia di migliaia di migranti centroamericani diretti a Nord, che trovano al termine del loro transito il “Muro” che Trump sta estendendo e rinforzando sul confine col Messico. Massimo Livi Bacci illustra alcune caratteristiche di questa diaspora, e le sue implicazioni politiche.

La regione centroamericana, dall’istmo di Panama al Rio Grande – il fiume che separa il Messico dagli Stati Uniti – è una regione percorsa da intensi flussi migratori, sospinti dalla povertà e dalla violenza, e attratti dalla ricchezza del grande nord del continente. Ci vivono (2018) circa 180 milioni di abitanti, 130 in Messico e 50 milioni nei sette stati minori (Guatemala, San Salvador, Belize, Honduras, Nicaragua, Costarica e Panama), molti dei quali  devastati da conflitti interni, recenti o attuali. E’ una delle regioni più violente del pianeta, nella quale la frequenza degli omicidi (indicatore che curiosamente non compare mai negli indicatori sul benessere – o malessere – dei paesi) è altissima (23 ogni 100.000 abitanti in Messico, 64 in Honduras, 109 in El Salvador¹). Povertà, violenza, conflitti sono fortissimi fattori di spinta all’emigrazione.

La diaspora dal Centroamerica

Secondo le stime delle Nazioni Unite, nel 2017, la diaspora² dal Messico e da Guatemala, San Salvador e Honduras (per brevità paesi TNCA, ovvero “Triangolo Nord del Centro America”, contigui al Messico, che hanno alta mobilità) era di circa 15 milioni, per oltre il 90% residenti negli Stati Uniti³ Si tratta di una diaspora che costituisce la parte più rilevate della popolazione che risiede irregolarmente negli Stati Uniti, che motiva la politica migratoria di quel paese che pone ostacoli non indifferenti ai timidi sforzi per dare ordine ai caotici flussi migratori del mondo[4]. La Figura 1 fornisce un quadro riassuntivo della diaspora centroamericana, che è andata crescendo negli anni. Tuttavia, per l’imprecisione o l’inesistenza di statistiche adeguate, poco si sa circa l’andamento dei flussi migratori che hanno generato le dimensioni della diaspora (lo stock di migranti) sintetizzati nella Figura 1. Si stima che il saldo migratorio tra Stati Uniti e Messico sia oggi pressoché nullo. Conseguenza, da un lato, del forte aumento dei rientri (generato dalla crisi economica degli USA nel 2008 e negli anni seguenti e dai più frequenti respingimenti e deportazioni) e, dall’altro, delle minori partenze dovute alla crescente difficoltà di entrare in America del nord. Nettamente negativo è invece il saldo migratorio dei paesi TNCA e del Nicaragua, mentre avrebbero un bilancio migratorio positivo Costarica e Panama.

La Figura 2 riporta le stime, assai attendibili, della popolazione Messicana e Centroamericana che vive negli Stati Uniti. Per i Messicani la crescita è continua fino alla crisi (da 6 a 12 milioni dal 2005 al 2009), viene poi interrotta dalla recessione e, successivamente, lo stock di migranti rimane all’incirca costante, tra gli 11 e i 12 milioni. Per i Centroamericani, invece, a parte un’inflessione dovuta alla crisi, presto recuperata, la crescita è continua, e lo stock migratorio supera i 3,5 milioni nel 2017. Una parte rilevante di questi ladinos sono undocumented (irregolari): soccorrono ancora le stime fatte negli Stati Uniti, secondo le quali la metà degli 11,3 milioni di migranti undocumented che vivono negli Stati Uniti sono Messicani (5,6 milioni) e il 15% provengono dagli altri paesi del Centro America. Su gran parte di questi irregolari pende la spada di Damocle degli orientamenti dell’amministrazione Trump in merito ai respingimenti e alle deportazioni.

Contro il Muro, attraverso il Messico

La frontiera Messico-Stati Uniti si sta chiudendo, non solo in conseguenza delle normative sempre più restrittive per la migrazione legale, ma anche per il rafforzamento delle misure operative e fisiche che ostacolano i flussi irregolari, quali il potenziamento della polizia di frontiera, dei pattugliamenti, dei sistemi elettronici di sorveglianza e controllo, delle barriere ai varchi, e la costruzione del muro. Nel decennio 2007-2016 ben 2,6 milioni di Messicani e 0,8 milioni di cittadini TNCA sono stati “deportati” verso i paesi di origine (Figura 3). Ma l’incentivo a tentare l’avventura, soprattutto dal Centroamerica, rimane alto: è stato calcolato che le rimesse degli emigrati valgono circa il 15% del PIL dei paesi TNCA, e una quota elevatissima del reddito disponibile delle famiglie di origine.

Il flusso migratorio che proviene dai paesi TCNA, cui si aggiungono flussi minori dagli altri paesi dell’America centrale e meridionale, dai Caraibi e perfino dall’Africa, riesce ad arrivare in Messico attraverso il confine col Guatemala, dopo viaggi assai avventurosi soprattutto per le provenienze più remote. I migranti vengono forniti di un permesso di transito valido 60 giorni, trascorsi i quali dovrebbero rientrare in patria. Le carovane di migranti percorrono i 3 o 4000 chilometri tra il confine guatemalteco e le città della frontiera nord (Tijuana, Mexicali, Ciudad Juarez, Nuevo Laredo) con una pluralità di mezzi: autobus, autocarri, treni merci. Molti di questi transiti avvengono a bordo della “Bestia”[5], cioè di uno dei tanti treni merci che lentamente percorrono il Messico da Sud a Nord, con frequenti soste, cambi di linea, interruzioni (Figure 4 e 5).

Le autorità, per lo più, non intervengono Negli ultimi tempi si sono sviluppati anche i transiti via mare, organizzati da bande in combutta con i clan della droga. Viaggi lunghi, disagiati e rischiosi; frequenti sono gli incidenti, i furti, le estorsioni, le violenze, i maltrattamenti, per non parlare degli abusi subiti da parte dei trafficanti (polleros, coyotes) che organizzano i passaggi clandestini di frontiera. Fonti attente valutano che ogni anno questi transiti coinvolgano tra le 300 e le 400.000 persone. In molti casi si tratta di transiti reiterati da parte di persone già respinte o deportate, che provano un’altra volta l’avventura. E’ per questa via che si è gradualmente accresciuta la collettività Centroamericana negli Stati Uniti, che come già indicato, oggi conta più di 3,5 milioni di migranti. Tuttavia, al crescere del numero dei transiti fa oggi diga la chiusura della frontiera americana, che rende ancor più rischiosi e difficili i passaggi irregolari. Nelle città di frontiera (Tijuana e altre) cresce il numero di migranti centroamericani (e non solo) in attesa di un’occasione per entrare negli USA (accoglienza di una richiesta di asilo o di protezione umanitaria, oggi assai rara; transito clandestino). Molti trovano lavori precari nell’economia informale. Altri, pochi per ora, tornano indietro.

Una questione politica primaria, anche in Messico

In Messico, la questione dei migranti centroamericani sta assumendo rilevanza politica, anche in vista delle elezioni presidenziali previste per il prossimo 1° di Luglio. Il Messico ha sempre avuto un atteggiamento cooperativo con gli altri paesi latinoamericani: lo richiedono considerazioni politiche di buon vicinato (sono centinaia di migliaia i lavoratori transfrontalieri col Guatemala) e la comunanza di cultura. Nonostante che trascorsi i due mesi di validità dei permessi di transito i migranti debbano rientrare nei loro paesi (ma la gran maggioranza non lo fa) le autorità non hanno usato la mano dura. Il numero dei “removidos” (cioè espulsi) dal Messico tra il 2009 e il 2016 è stato di circa 80.000 all’anno (Figura 3), contro transiti di quattro o cinque volte superiori di numero. Ma l’economia messicana non è in grado di assorbire una massa crescente di immigrati, e le politiche dell’Amministrazione Trump non mancheranno di provocare effetti restrittivi sulla politica migratoria messicana.

Note

¹ In Italia meno di 1 per 100.000

² Per diaspora qui s’intende il numero di persone nate in questi paesi (o cittadini di questi paesi) che vivono in un paese diverso (nel quale non sono nati, oppure del quale non hanno la cittadinanza)

³ Il numero totale della popolazione classificata, negli Stati Uniti, come Hispanic, o Latina, è stato stimato in 57,5 milioni nel 2016 (18% della popolazione totale), di cui quasi i due terzi di origine messicana. Si tratta di tutti coloro che si riconoscono di origine ispanica, cittadini, migranti regolari, undocumented-irregolari. Molti di questi vivono negli USA da più generazioni. Cfr:

pewresearch: How the U.S. Hispanic population is changing

[4] E’ recentissimo il recesso dell’Amministrazione Trump dalle discussioni preparatorie del Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration (GCM) promosso dalle Nazioni Unite

[5] “Bestia”, nome generico col quale si definisce qualsiasi trasporto merci ferroviario

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Figura 4

Figura 5

 




Essere “clandestini” nell’America di Trump

I primi atti della nuova amministrazione Trump, finora caratterizzati da un massiccio ricorso agli “executive orders” (provvedimenti che indirizzano le politiche esecutive delle agenzie del Governo americano), sembrano coerenti con gli impegni assunti in campagna elettorale, in particolare in materia di immigrazione: dal completamento del muro al confine con il Messico, al divieto di ingresso per gli immigrati di 7 paesi musulmani.

Tuttavia, se si vuole interpretare correttamente l’attuale dibattito americano sui temi dell’immigrazione, occorre tenere presenti alcune distinzioni rispetto alla situazione europea.

Storicamente l’immigrazione ha sempre avuto dimensioni maggiori negli Stati Uniti rispetto all’Unione Europea, in particolare per l’immigrazione irregolare (impropriamente detta “clandestina”, in realtà fa riferimento a tre tipologie di immigrato: entrato in un paese evitando i controlli di frontiera; entrato regolarmente, ma rimasto anche quando il visto è scaduto; non ha lasciato il paese di arrivo anche dopo che questo ha ordinato il suo allontanamento dal territorio nazionale). Nell’Unione Europea, la dimensione della immigrazione irregolare è sicuramente minore (in nessuna stima essa supera 3/4 milioni di unità complessive).

Il mondo del lavoro

L’Hispanic Trend del “Pew Research Center” di Washington (un autorevole centro studi con un apposito osservatorio sulla materia) documenta come la forza lavoro irregolare sia rimasta stabile negli anni dopo la grande recessione, mentre le componenti legali hanno ripreso a crescere in maniera significativa.

Nel 2014 le statistiche ufficiali parlavano di 43,6 milioni di residenti nati all’estero, dei quali 11,1 milioni di illegali (“unauthorized” immigrants) pari al 26% del totale (cfr. Pew Research Centre, 2016). La popolazione nata all’estero includeva dunque 19 milioni di cittadini naturalizzati, 11,7 milioni di residenti permanenti legali (quelli che noi definiremmo immigrati in senso stretto) e 1,7 milioni di residenti legali temporanei (come studenti, diplomatici e “lavoratori ospiti” soprattutto nel settore tecnologico). In totale queste diverse categorie di immigrati rappresentavano il 13,6% della popolazione americana nel 2014.

L’aspetto che forse si distingue maggiormente dalla situazione europea è che ben 8 milioni degli 11 milioni di immigrati illegali lavorano, mentre in Europa sono generalmente confinati nell’ambito del lavoro nero, completamente illegale. Negli Usa, invece, nel 2014 il mercato del lavoro era composto da 133 milioni di lavoratori nati negli USA (83% del totale), 19,5 milioni di immigrati legali (12%) ed 8 milioni di immigrati illegali (5%).

In ambito lavorativo occorre considerare che i trascorsi storici dell’immigrazione, in particolare messicana, hanno radici molto profonde negli USA: ad esempio il “Bracero program” fu varato nel 1942 per consentire a lavoratori messicani di sostituire la forza lavoro americana impegnata nella leva militare, soprattutto nel settore agricolo, ma si protrasse ininterrottamente fino al 1964, consentendo un ingresso legale ad un totale di 5 milioni di lavoratori, con una punta massima di 445.000 ingressi nel 1956.

In tempi recenti l’amministrazione Obama ha promosso due programmi che consentono permessi temporanei e possibilità di lavorare a circa il 10% degli irregolari presenti negli USA: il primo (DACA: “Deferred Actions for Childhood Arrivals”) riguarda più di 730.000 giovani adulti che devono essere stati portati negli USA prima dei 16 anni di età, non devono aver compiuto 30 anni alla data del 15 giugno 2012 e devono aver vissuto continuativamente negli Stati Uniti dal 15 giugno 2007.

Il secondo programma ha garantito una protezione temporanea a circa 326.000 migranti, in maggioranza dall’America Centrale a causa di malattie, disastri naturali o conflitti nei loro paesi di origine.

Gli scenari nell’era Trump

E’ probabile che, sotto la nuova amministrazione Trump, non vedremo altre iniziative volte a sanare precedenti situazioni di irregolarità (i DACA scadono dopo 2 anni), ma è altresì improbabile una azione decisa di contrasto all’immigrazione irregolare che non sia limitata a fasce specifiche (ad esempio verso i trecentomila che hanno precedenti penali). Non a caso, nelle prime dichiarazioni, il nuovo presidente ha fatto riferimento solamente ai tre milioni che non lavorano, ma ha taciuto sugli otto milioni presenti sul mercato del lavoro.

E’ bene ricordare che l’ingresso illegale negli USA è un reato federale e che 4 stati, 39 città e 364 contee (le cosiddette “zone santuario”) hanno approvato ordinanze che non li obbligano a collaborare con le autorità federali nella ricerca degli irregolari. In uno dei primi “executive orders” Trump ha già avviato la stretta contro queste realtà, ordinando un blocco delle sovvenzioni federali e chiedendo alle agenzie di governo di intensificare le espulsioni.

Peraltro, l’amministrazione Obama aveva proceduto, tra il 2009 ed il 2015, a circa 360.000 espulsioni l’anno: risultati maggiori sarebbero possibili solo a fronte di maggiori investimenti nell’ambito delle forze dell’ordine.

Un provvedimento legato al finanziamento del muro al confine meridionale potrebbe essere una forma di tassazione delle rimesse dei lavoratori messicani presenti negli USA: sarebbe questa sicuramente una decisione gravida di conseguenze politiche ed economiche nelle relazioni tra i due Stati.




La demografia e le elezioni Americane

I lettori di Neodemos saranno forse stupiti dallo spazio che questo sito ha dato, negli ultimi tempi, alle elezioni americane1. Ma se ben riflettiamo, due considerazioni giustificano appieno questa attenzione. La prima è che negli Stati Uniti la demografia (demographics, nel linguaggio corrente) è fattore influente nelle consultazioni elettorali. Età, residenza, famiglia, mobilità, appartenenza etnica, sono fattori importanti nelle scelte degli elettori. Non che questo non sia vero per l’Europa, o per l’Italia, ma lo è in modo attenuato: le etnie nuove, per esempio, sono comunità di immigrati per lo più senza diritto di voto; la mobilità interna è molto minore; la popolazione è stazionaria mentre negli Stati Uniti, dal 2102, anno della rielezione di Obama, la popolazione è cresciuta di 10 milioni di unità. La seconda considerazione è di natura politica: ciò che avviene in America ha forti ripercussioni in Europa e nel resto del mondo: il pugno duro con gli immigrati incoraggerà i fiorenti movimenti xenofobi del nostro continente; le restrizioni sulle interruzioni di gravidanza porranno in discussione la legislazione in materia di molti paesi; c’è il pericolo poi che i finanziamenti alle politiche a favore della pianificazione familiare e della salute riproduttiva nei paesi poveri vengano tagliati o interrotti, come fece l’amministrazione Reagan negli anni ’80.

Giovani e vecchi, uomini e donne

I dati che seguono sono basati sugli exit-poll – campioni di elettori intervistati all’uscita dei seggi elettorali –i cui risultati sono, come ben si sa, soggetti alle approssimazioni proprie di queste operazioni2. Tuttavia essi si sono rivelati, in passato, assai robusti nel descrivere alcuni aspetti sociali degli elettori, e sono stati corroborati da più complesse analisi successive. Come per tradizione, i giovani (18-29 anni) hanno preferito il candidato democratico, gli anziani (65 anni e più) il candidato repubblicano (Figura 1). stevemorgan1Tra i giovani elettori, il margine di vantaggio di 18 punti di Clinton (55% dei giovani l’hanno votata) su Trump (37%) è stato inferiore al margine di Obama rispetto a Romney nel 2012 (24 punti) e di Obama rispetto a McCain (34 punti) nel 20083. La Clinton ha sofferto la disillusione di quei giovani democratici, seguaci di Sanders sconfitto nelle primarie, che non si sono recati a votare o hanno votato per i candidati minori (Gary Johnson and Gill Stein, indicati da più di 5 milioni elettori).

Tra gli anziani, la situazione è rovesciata: Trump ha segnato un margine vantaggio di 8 punti su Clinton (53 e 45%), replicando la performance di Romney nel 2012. Ricordiamo, di passaggio, che i giovani di 18-29 anni sono il 21,6% degli aventi diritto negli USA, contro appena il 14,3% in Italia; per gli ultrasessantacinquenni le proporzioni sono quasi esattamente speculari: 14,8% negli USA e 22,4% in Italia.

Se si considera l’elettorato secondo il genere, si trovano differenze altrettanto rilevanti di quelle per età. Come era largamente atteso, la maggioranza delle donne ha votato per Clinton, che ha raccolto il 55% delle preferenze, contro il 42% di Trump. Tuttavia l’essere donna non ha giovato granché a Clinton, che non ha accresciuto il margine guadagnato da Obama su Romney nel 2012. Clinton, inoltre ha raccolto assai meno suffragi di Trump tra le donne bianche, e particolarmente tra quelle con minore istruzione. Con percentuali simmetriche è stato il voto maschile, nettamente a favore di Trump.

Nel complesso gli analisti hanno fatto notare che l’insuccesso di Clinton va ricercato nelle tiepida accoglienza che il suo messaggio ha raccolto tra le donne, più numerose degli uomini e che – soprattutto – si pensavano maggiormente entusiaste della prospettiva di insediare alla Casa Bianca la prima donna Presidente nella storia degli Stati Uniti. E che si ritenevano largamente contrarie a Trump, sessista e ostile ai valori e alle conquiste del mondo femminile che, a quanto pare, non hanno ancora posto radici diffuse e profonde nella società americana.

Il voto etnico

stevemorgan2Nel 2014, le nascite da genitori appartenenti alle minoranze (Hispanics, o Latinos; Black Africans; Asians) hanno superato le nascite da genitori bianchi (Caucasians); si prevede inoltre che nel 2044 le minoranze – che crescono ad un tasso più elevato della popolazione bianca – saranno maggioranza nel paese. Il voto etnico è fortemente caratterizzato ed è in generale nettamente favorevole al partito democratico. Da qui la grande attenzione che il mondo politico americano rivolge agli orientamenti politici, e alle modificazioni demografiche, dell’elettorato delle

minoranze (Figura 2). Abbiamo già accennato che l’elettorato bianco ha favorito nettamente Trump, che ha raccolto il 58% del voto, superiore di venti punti alla percentuale raccolta da Clinton. Ulteriori analisi confermano che il messaggio di Trump è stato accolto molto favorevolmente dalle classi medio-basse, con istruzione relativamente bassa, e che negli ultimi venti anni hanno subito un arretramento in termini di reddito, status sociale e prospettive per il futuro, in una fase storica di forte aumento delle disuguaglianze. Per converso, Clinton ha nettamente prevalso nel vasto elettorato delle minoranze, guadagnando l’88% dei consensi tra i i neri, ed il 65% del voto dei Latinos e degli Asiatici. Tuttavia queste percentuali sono inferiori di 5-8 punti a quelle ottenute da Obama nel 2012. Questo mediocre risultato è assai sorprendente, soprattutto per quanto riguarda l’elettorato latino-americano, per il quale Trump ha ripetutamente mostrato disprezzo ed espresso minacce. Sintomatico è il caso della Florida dove la forte e agguerrita minoranza Cubana ha preferito Trump (54%) alla Clinton (41%).

Religione, cultura, residenza

Gli exit poll forniscono interessanti fotogrammi del voto degli elettori per altre interessanti caratteristiche, quali la religione, l’istruzione, la residenza, il reddito, che andrebbero considerate non separatamente una dall’altra, ma in combinazione tra loro, alla ricerca di modelli di comportamento politico. Sicuramente questo verrà fatto dagli analisti a tempo debito. I Cattolici che avevano sostenuto in maggioranza Obama, hanno dato un lieve margine a Trump (52% dei votanti); i Protestanti e “altri Cristiani” si sono espressi nettamente a favore di Trump (58%). Clinton ha avuto gli Ebrei nettamente a favore (71%), così come i non credenti (68%). I meno ricchi hanno votato Clinton, i più ricchi Trump; Trump ha raccolto più voti nelle aree rurali, Clinton in quelle urbane…

Le motivazioni che inducono gli elettori a recarsi alle urne, oppure a restarsene a casa; a votare il candidato – o il partito – X anziché Y, a cambiare voto da un’elezione all’altra, sono complesse e mutevoli, negli USA come nel resto del mondo. Tuttavia, certe appartenenze – etnia, religione, regione geografica – in America sono fortemente determinanti, e assai più che nel resto del mondo occidentale, e si sovrappongono a quelle tradizionali, come l’età, il genere, lo status sociale.

1 – Gianpiero Dalla Zuanna, La geografia familiare del voto a Trump, Neodemos, 15 novembre 2016; Letizia Mencarini, Clinton e Trump sull’aborto, Neodemos, 4 novembre 2016; La Redazione, L’ultimo dibattito: Clinton e Trump sull’immigrazione, Neodemos, 28 ottobre 2016; Steve S. Morgan, Immigrazione, Trump e l’umiliazione di un grande Paese, 9 settembre 2016.

2 – Il Pew Research Center  riporta sistematicamente analisi elettorali molto serie. I siti delle grandi testate (New York Times, Washington Post, The Guardian) riportano commenti ed analisi interessanti sul voto.

3 – Si noti che la somma delle percentuali di voto di Trump e Clinton (qui ed altrove nel testo) è inferiore al 100%, che viene raggiunto aggiungendo i pochi punti percentuali raccolti da Johnson e Stein.

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La geografia familiare del voto a Trump

elettori di Trump

Molte parole vengono e verranno spese per interpretare il voto che ha portato all’elezione di Donald Trump a quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America. C’è chi parla di rabbia popolare, chi di vendetta della maggioranza silenziosa, chi di impoverimento della classe media. In attesa di analisi più dettagliate, chiediamoci – a caldo – se il voto di martedì 8 novembre ha a che fare con la geografia familiare americana.

The Great Old Party: un voto fecondo

schermata-2016-11-15-alle-09-35-20Consideriamo solo un aspetto, ossia la fecondità. Figura 1 mostra con chiarezza che gli Stati più fecondi sono anche quelli che hanno votato per Trump (1). La variabilità del comportamento fecondo (da 1,57 figli per donna nel Rhode Island a 2,27 del South Dakota) si accompagna a una fortissima variabilità del comportamento di voto a favore di Trump (dal 33% nel Vermont al 70% nel Wyoming). In tutti gli Stati dove la fecondità nel triennio 2013-15 è stata superiore a due figli per donna, Trump ha superato il 50% dei voti. Per contro, in tutti gli Stati dove nello stesso triennio la fecondità è stata inferiore a 1,8 figli per donna, Trump ha preso meno del 50%. Complessivamente, più del 40% della variabilità geografica del voto a Trump è spiegata – dal punto di vista statistico – dalla variabilità geografica della fecondità.

Risultati largamente attesi

Questo risultato non è sorprendente. C’è una ricca letteratura sulle interconnessioni fra comportamenti elettorali e comportamenti demografici, a partire – in Italia – dalla stretta similitudine fra geografia del voto al referendum sul divorzio nel 1974 e geografia del calo delle nascite di tutto il Novecento. Nel caso degli USA, le interconnessioni geografiche reggono anche se si considerano altri indicatori demografici (come le nascite extra-nuziali) e scendendo al livello delle 3.141 contee (2).schermata-2016-11-15-alle-09-36-01 Del resto, anche nelle scorse elezioni presidenziali il voto a Obama e a Romney è stato strettamente correlato alla fecondità del 2010-12 (figura 2). Da ciò deriva anche la fortissima continuità territoriale del voto americano, essendo la classifica degli Stati secondo il voto repubblicano o democratico del 2012 praticamente sovrapponibile a quella del 2016 (più del 90% della variabilità geografica comune).

E pluribus unum?

Questi risultati conducono a due ordini di considerazioni. In primo luogo, la variegata, coerente e persistente nel tempo geografia dei comportamenti elettorali e demografici ci narra l’esistenza di tante Americhe molto diverse fra loro, corrispondenti a diversi modelli di famiglia e di organizzazione sociale. Non dev’essere facile tenere assieme mondi così diversi, e il motto e pluribus unum (da molti, uno soltanto), che campeggia da fine ‘700 sullo stemma USA, mostra tutta la sua grande attualità. In secondo luogo, è legittimo attenderci una modifica delle politiche familiari americane: grazie anche a Congresso, Senato e Corte Suprema di orientamento repubblicano, è probabile che il pendolo si sposti verso il sostegno – non si sa se retorico o reale – alla famiglia tradizionale.

  • Dalle analisi di questo pezzo sono stati esclusi le Hawaii, lo Utah e il District of Columbia (Washington), in quanto outlier per la fecondità e/o per il risultato elettorale.
  • Ron Lesthaeghe e Lisa Neidert (2009) “US Presidential Elections and the Spatial Pattern of the American Second Demographic Transition”, Population and Development Review, 35, 2, 391-400.



Clinton e Trump sull’aborto

Un altro tema caldo nell’ultimo dibattito lo scorso 19 Ottobre tra Hillary Clinton e Donald Trump è stato quello sull’aborto1. Di poche, pesanti, parole, Trump, più verbosa la Clinton, i due candidati sono totalmente contrapposti anche sul tema dell’aborto.A favore la Clinton, contrario Trump. L’anchor man di Fox News, Chris Wallace li spinge ad esporsi molto esplicitamente su due aspetti che animano il dibattitto sul tema dell’aborto negli Stati Uniti: 1) se il diritto ad abortire debba tornare o meno ad essere oggetto di una legge dei singoli stati; 2) fino a che punto si debba estendere il diritto all’aborto e quindi se sia possibile l’aborto tardivo.

Round 1: Clinton pro Roe (ovvero per la libertà di abortire) vs Trump pro Wade (ovvero per il diritto alla vita)

Jane Roe (nome fittizio) nel 1970, incinta del terzo figlio dal marito violento ricorre al Tribunale per affermare il suo diritto di abortire. Henry M. Wade è l’avvocato che rappresenta lo stato del Texas nel processo. La causa poi arriva alla Corte Suprema degli Stati Uniti che nel 1973 riconosce a larga maggioranza il diritto all’aborto, anche in assenza di problemi di salute della donna, del feto e di ogni altra circostanza che non sia la libera scelta della donna. La sentenza sancisce il diritto di aborto negli Stati dell’Unione, in un’ottica di limitazione dell’ingerenza statale, lasciando ad essi il diritto di legiferare solo rispetto al tempo di gestazione (cioè rispetto a quale sia il limite in cui il feto sia in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero materno). Prima di tale sentenza ogni Stato disciplinava sull’aborto con legge propria, limitandolo fortemente nella maggior parte dei casi.

Chi vincerà le prossime elezioni nominerà dei giudici che potrebbero andare contro questa famosa sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America “Roe contro Wade”, che dal 1973 riconosce il diritto all’aborto a tutte le donne americane. Ribaltare la sentenza vorrebbe dire aprire la strada al ritorno alla disciplina statale in materia e, quindi, a possibili diversità tra Stato e Stato rispetto al diritto all’aborto.

Quando il moderatore del dibattito chiede esplicitamente a Trump se, dato che si dichiara “pro-vita”, vuole che la Corte Suprema Federale ribalti la sentenza Roe contro Wade, che riconosce il diritto delle donne all’aborto, Trump risponde – un po’ titubante e solo quando incalzato – che nominerà due, forse tre giudici pro-vita, che ribalteranno pertanto la sentenza e che faranno passare la decisione ai singoli stati.

Clinton si dichiara invece “fortemente” a favore della sentenza Roe contro Wade, “che garantisce alle donne il diritto costituzionale di prendere la decisione più intima e, in alcuni casi, la più difficile, che si possa immaginare, sulla propria salute”. Sostiene che difenderà, difendendo appunto la sentenza Roe contro Wade, il diritto delle donne di prendere decisioni sulla propria salute e che difenderà anche il Planned Parenthood, il sistema di cliniche che offrono servizi di educazione sessuale e pianificazione familiare, ma anche vari tipi di screening oncologici e altri servizi alle donne, mentre accusa Trump di essere favorevole al taglio governativo dei sussidi al PP e persino di essersi dichiarato pronto al blocco delle attività amministrative pur di raggiungere questo risultato. “I nostri progressi sono stati tali che è impossibile ora ritornare indietro. Lui (Trump) dice addirittura che le donne dovrebbero essere punite, che ci dovrebbe essere una qualche forma di punizione per le donne che ottengano l’aborto. E io non posso che essere fortemente contraria a questo modo di pensare”. Trump non reagisce all’accusa.

Round 2: Clinton per la tutela della vita e della salute della madre, Trump per la tutela del bambino anche contro la vita e la salute della madre

Il moderatore vuole sondare fino a che punto Clinton crede che si debba estendere il diritto all’aborto, dato che è stata citata per aver detto che il feto non ha diritti costituzionali e che ha votato (come senatrice) contro il divieto all’aborto tardivo. Clinton ribadisce che la sentenza Roe contro Wade stabilisce molto chiaramente che ci possono essere limitazioni all’aborto, ma che la vita e la salute della madre devono essere tenute in considerazione.

Trump è invece contrario all’aborto tardivo: “Se si è d’accordo con quello che Hillary sta dicendo, al nono mese, si può prendere il bambino e strapparlo dall’utero della madre proprio prima della nascita. (…) Per me non è ok, perché, basandoci su quello che lei dice, e basandoci su quello che intenderà fare in futuro, uno può prendere il bambino e strapparlo dall’utero fino all’ultimo giorno del nono mese. E questo è inaccettabile”.

Clinton reagisce: “Be’, non è esattamente quello che accade in questi casi. E usare questa retorica della paura è veramente grave. Lei dovrebbe incontrare alcune delle donne che ho incontrato io, donne che ho conosciuto nel corso della mia vita. Questa è una delle peggiori scelte che una donna, e la sua famiglia, siano costrette a prendere. E non credo che spetti al governo prenderla. Sa, io ho avuto il grande onore di viaggiare per il mondo su incarico del mio paese. Sono stata in paesi dove il governo ha costretto le donne ad avere aborti, come succedeva in Cina, o, come in Romania, le ha forzate ad avere figli. E posso dirle questo: il governo non ha nessun diritto di interferire nelle decisioni che le donne prendono con le loro famiglie, in accordo con la propria fede, dietro consiglio medico. E sosterrò tale diritto”.

¹La trascrizione in inglese del dibattito si trova sul sito dello Washington Post

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L’ultimo dibattito: Clinton e Trump sull’immigrazione

Lo scorso 19 di Ottobre, a Las Vegas, si è tenuto l’ultimo dibattito tra Hillary Clinton e Donald Trump, moderato dall’anchor man di Fox News, Chris Wallace. Il dibattito ha affrontato temi fondamentali quali la Corte Suprema, l’aborto, l’immigrazione, la questione Russa, l’economia.Neodemos offre ai lettori la traduzione in italiano della trascrizione della parte del dibattito dedicata all’immigrazione1. Per una migliore comprensione del testo, alcuni chiarimenti redazionali sono offerti al lettore in parentesi quadra2. Abbiamo tradotto “Segretario Clinton” – che male suona in Italiano – il “Secretary Clinton” usato dal moderatore, con riferimento al ruolo della Clinton come “Secretary of State” della prima amministrazione Obama.

MODERATORE – Mr. Trump, lei vuole costruire un muro [lungo i 3000 chilometri del confine col Messico]. Segretario Clinton, lei non ha proposto un piano specifico su come render più sicuro il nostro confine meridionale. Mr. Trump, lei vuole una deportazione di massa. Segretario Clinton, lei afferma che durante i primi 100 giorni come Presidente, proporrà un pacchetto di norme che include una via alla cittadinanza. E allora la domanda, in verità, è perché mai ciascuno di voi due avrebbe ragione mentre l’avversario avrebbe torto? Mr. Trump, la prima risposta è sua. Ha due minuti.

TRUMP – Bene, prima di tutto lei vuole un’amnistia [sanatoria per gli irregolari], che è un disastro e ingiusta per tutti coloro che sono da anni e anni in coda [per un permesso regolare]. Inoltre abbiamo bisogno di confini sicuri. Nell’uditorio, oggi, ci sono quattro madri – vi dico che si tratta di gente incredibile, che conosco da anni – i cui figli sono stati uccisi, brutalmente uccisi, da persone entrate illegalmente in questo paese. Ci sono migliaia di genitori e di familiari, nel paese, in questa condizione. Questi [assassini] arrivano illegalmente nel nostro paese. La droga fluisce attraverso il confine. Se non abbiamo confini, non abbiamo un paese.

Hillary invece vuole un’amnistia. Vuole i confini aperti. Il confine – come voi sapete gli agenti della Border Patrol [Guardia di Confine], che sono 16.500 e la ICE [U.S. Immigration and Customs Enforcement] mi hanno dichiarato il loro sostegno nella scorsa settimana. E’ la prima volta che sostengono un candidato. Questo vuol dire che il loro compito è diventato più duro. E loro conoscono bene la questione, meglio di chiunque altro. E vogliono un confine sicuro. Sono convinti che dobbiamo avere confini sicuri. L’altro giorno mi trovavo in New Hampshire. La maggiore lagnanza che hanno – tra tutti i problemi del mondo molti dei quali sono stati causati da Barack Obama e da Hillary Clinton… Tra tutti questi problemi – quello più grande è costituito dall’eroina che scorre attraverso il confine meridionale. Sta proprio scorrendo e distruggendo la nostra gioventù. Sta avvelenando il sangue dei nostri giovani e di molte altre persone. Dobbiamo avere confini forti. Dobbiamo tenere la droga fuori del nostro paese. Proprio ora, noi ci prendiamo la droga e loro il denaro. Abbiamo bisogno di confini blindati. Ne abbiamo assolutamente bisogno. Non possiamo amnistiare gli illegali.

Ora, io voglio costruire un muro. Abbiamo bisogno del muro. Adesso noi dobbiamo costruire un muro. La Border Patrol, l’ICE, tutti vogliono il muro. Rafforziamo il confine. Uno dei miei primi atti come Presidente consisterà nel radunare tutti i signori della droga, tutti i malfattori. Ne abbiamo, di pessimi soggetti, che devono andarsene dal paese. E li espelleremo, rafforzando i confini. E una volta resi questi sicuri, e a una data successiva, prenderemo decisioni sugli altri [irregolari]. Ma adesso abbiamo molti pessimi hombres, e questi li cacceremo.

MODERATORE – Grazie Mr. Trump. La stessa domanda la rivolgo a lei, Segretario Clinton. Perché lei ha ragione e perché Trump ha torto?

CLINTON – Bene, mentre Trump parlava, pensavo a Carla, una giovane ragazza che ho incontrato qui, a Las Vegas, che è angosciata dalla prospettiva che i suoi genitori vengano deportati, perché lei è nata in questo paese [e ne è cittadina], mentre i suoi genitori non lo sono. Lavorano sodo, e fanno di tutto per darle una buona vita. Ebbene, io non voglio spezzare le famiglie. Non voglio deportare i genitori lontano dai loro figli. E non voglio vedere in azione nel nostro paese, un Corpo di Deportazione, del quale ha parlato Donald.

Abbiamo 11 milioni di immigrati irregolari [undocumented]. Questi hanno 4 milioni di figli, che sono cittadini Americani, 15 milioni in tutto. Lui ha detto a Phoenix, appena qualche settimana fa, che ogni persona irregolare deve essere deportata. Ed ecco che cosa significa. Significa avere in azione una massiccia forza di polizia, che farà ispezioni scuola per scuola, casa per casa, negozio per negozio, arrestando gli irregolari. E poi li dovremo caricare su autobus e treni, per portarli fuori dal nostro paese. Credo che quest’idea non corrisponda allo spirito della nazione. Credo che sia un’idea fatta per lacerare il nostro paese. Per anni sono stata a favore di confini sicuri. Ho votato a favore di provvedimenti per la sicurezza dei confini nel nostro Senato. Ed il mio complesso piano di riforma dell’immigrazione include, naturalmente, la sicurezza dei confini. Ma io voglio impiegare le nostre risorse là dove sono più necessarie: per liberarci delle persone violente. E deporteremo tutte quelle che se lo meritano. Per quanto riguarda il muro che Donald dice di voler costruire, ebbene è andato in visita in Messico, e si è incontrato col Presidente Messicano. Non ha nemmeno toccato la questione. E’ stato zitto, ma poi ha scatenato una guerra su Twitter perché il Presidente Messicano ha poi detto che mai pagherà per il muro [che in altre dichiarazioni di Trump dovrebbe infatti essere pagato dal Messico].

Ebbene, io penso che siamo una nazione di immigrati, e siamo anche una nazione che ha le sue leggi e deve agire in conseguenza. Ed ecco perché io proporrò nei primi 100 giorni [del mio mandato] una complessa riforma dell’immigrazione che include una via di accesso alla cittadinanza [come prevedeva il progetto di legge bipartisan approvato dal Senato e bloccato dalla Camera].

INTERVISTATORE – Grazie, Segretario Clinton. Voglio adesso procedere….

TRUMP – Chris, credo di dover….

MODERATORE – OK

TRUMP – Credo di dover rispondere a questo. Prima di tutto, ho avuto un positivo incontro col Presidente del Messico. Un’ottima persona. E lavoreremo molto meglio col Messico in tema di commercio. Credetemi. Il Trattato NAFTA [trattato di libero commercio USA-Canada-Messico] firmato da suo marito è uno dei peggiori trattati mai firmati da un Presidente. Inoltre Hillary Clinton ha voluto il muro. Hillary ha lottato per avere il muro nel 2006 o giù di lì. Ma siccome Hillary non conclude mai nulla, il muro non è stato costruito. Ma Hillary Clinton voleva il muro.

MODERATORE – [brevi interruzioni di Trump] Vorrei adesso sentire il Segretario Clinton.

CLINTON – Ho votato a favore della sicurezza dei confine…

TRUMP – …E per il muro…

CLINTON – Ci sono alcuni tratti limitati [del confine] nei quali [un muro] è appropriato. E poi ci sono necessariamente le nuove tecnologie e la questione di come dispiegarle. Quando si guarda ciò che Donald è andato proponendo, è chiaro che lui ha iniziato questa campagna calunniando gli immigrati, definendo i Messicani immigrati stupratori, criminali e trafficanti di droga, ed è chiaro che ha una visione assai diversa su ciò che dovremmo fare per affrontare la questione migratoria.

Ora io penso che portare gli irregolari fuori dal sommerso per inserirli nell’economia formale sia un bene, perché così i datori di lavoro non posso sfruttarli, deprimendo i salari di tutti. E Donald conosce bene queste questioni. Egli ha impiegato il lavoro degli irregolari per costruire la Trump Tower. Egli ha sottopagato gli irregolari e quando questi protestavano la sua risposta era in sostanza quella di altri imprenditori: “Tu protesti? Allora ti faccio deportare”. Io voglio che tutti escano dall’ombra, che l’economia funzioni, e non voglio che datori di lavoro come Donald sfruttino gli irregolari, facendo un danno non soltanto a loro ma anche ai lavoratori Americani.

MODERATORE – Mr. Trump?

TRUMP – Il Presidente Obama ha deportato milioni di persone. Nessuno lo sa, e nessuno ne parla. Ma sotto Obama, milioni di persone sono state portate fuori dal paese. Sono state deportate. Lei non lo vuol dire, ma questo è quel che è avvenuto, e in misura massiccia.

E per quel che riguarda le deportazioni, ebbene, o abbiamo una nazione o non l’abbiamo. Siamo un paese fondato sulla legge. O abbiamo un confine, o non l’abbiamo.

Oggi [un deportato] può ritornare indietro e diventare cittadino. Ma questo è molto ingiusto. E infatti ci sono milioni di persone che seguono le procedure regolari. Sono in coda. Stanno aspettando. Noi accelereremo le procedure, e lo faremo col botto, perché adesso sono molto inefficienti. Ma [gli immigrati regolari] stanno in coda, e attendono di diventare cittadini. E’ molto ingiusto che uno scavalchi il confine e poi diventi cittadino: col suo [di Hillary] piano ci ritroviamo con i confini aperti. C’è stato un disastro col commercio [allude al NAFTA], e ci sarà un disastro con i vostri confini aperti.

CLINTON [varie interruzioni] – Non avremo confini aperti. Questa è una grossolana mistificazione. Ma avremo confini sicuri, e una legge di riforma: questa era una questione bipartisan. Ronald Reagan firmò una riforma e così fece George Bush.

MODERATORE – Segretario Clinton, voglio che renda chiara la sua posizione su questa questione, perché in un discorso che lei ha fatto ad una Banca Brasiliana, per il quale lei è stata pagata 225.000 dollari, abbiamo saputo da Wikileaks che lei ha detto, e voglio citarla “Il mio sogno è un mercato comune dell’emisfero, con libero commercio e confini aperti”. Questa è la questione…

TRUMP – Grazie…

MODERATORE – Questa è la questione. E’ questo il suo sogno, i confini aperti?

CLINTON – Bene, se lei avesse continuato a leggere quanto ho detto, io stavo parlando di energia. Lei sa che scambiamo più energia con i nostri vicini di quanta ne scambiamo con tutto il resto del mondo. Ed io vorrei che avessimo un sistema elettrico ed energetico che scavalchi i confini. Credo che sarebbe un grande beneficio per noi.

Ma lei stava citando Wikileaks. Quel che è importante riguardo a Wikileaks è che il Governo Russo si è impegnato in un’azione di spionaggio contro l’America. Hanno violato siti Americani, accounts Americani di privati e di istituzioni. Quindi hanno passato le informazioni a Wikileaks perché le diffondesse in internet. Questa azione ha avuto origine ai più alti livelli del Governo Russo, da Putin stesso, come comprovato da 17 diverse agenzie di intelligence, nell’intento di influenzare le nostre elezioni. Per questo penso che la questione più importante di questa sera è, alla fin fine, se Donald Trump ammetta e condanni queste azioni dei Russi, e dica chiaramente che non accetterà l’aiuto di Putin per queste elezioni, che condanna lo spionaggio Russo contro gli Americani, che invece ha incoraggiato in passato. Queste sono questioni che vanno chiarite e che non sono mai sorte in passato.

Note

[Dopo varie interruzioni] TRUMP – Lei vuole i confini aperti. Avremo gente che viene dalla Siria. Lei vuole il 550% persone in più di Obama, che ne ha accolte migliaia e migliaia [si parla di rifugiati]. E non hanno idea di dove provengano.

1 – La trascrizione in inglese del dibattito si trova sul sito dello Washington Post

2 – Sulle proposte di Trump, si veda Steve S. Morgan, Immigrazione, Trump e l’umiliazione di un grande Paese, Neodemos, 9 Settembre 2016

 

 

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L’Italia terra di lavoro, ma per gli Americani

Se leggessimo il report Istat sui permessi di soggiorno  con lo stesso approccio che avevamo dieci o quindici anni fa, saremmo portati a dire che una delle novità più importanti messe in luce dal rapporto è che la prima collettività per numero di ingressi per motivi di lavoro in Italia è quella statunitense. In passato infatti l’attenzione si concentrava soprattutto sulle migrazioni per lavoro che erano quelle che davano luogo anche alle principali novità nel panorama immigratorio italiano. Nel 2005, ad esempio, anche se erano già stati superati dai ricongiungimenti familiari, i permessi per lavoro rappresentavano circa il 38% dei nuovi flussi in ingresso ed erano per gli uomini la prima motivazione di arrivo nel nostro Paese; in quel periodo mettevano in luce l’estrema dinamicità delle collettività dell’Est Europa. Oggi, a dieci anni di distanza e con diversi anni di crisi economica alle spalle, il panorama è talmente cambiato che i flussi per lavoro rappresentano poco più del 9% dei nuovi ingressi e sono per gli uomini solo la terza delle motivazioni di immigrazione in Italia.

L’Italia che non attira più lavoratori

La composizione dei nuovi flussi in ingresso segnala chiaramente come in Italia sia finita – o almeno si sia presa una lunga pausa – l’epoca delle migrazioni per lavoro. Sul territorio italiano si arriva oggi principalmente per ricongiungimento familiare o per cercare protezione internazionale. È chiaro che chi fugge da guerre e persecuzioni cercherà poi anche un lavoro che gli consenta di sostenersi nel paese di accoglienza, ma non è più l’epoca degli ingressi di lavoratori con un progetto migratorio chiaro, ben definito. In realtà basterebbe fare riferimento ai decreti flussi per capire come la situazione sia cambiata negli ultimi anni. In quello per il 2015 sono stati autorizzati 17.850 ingressi per lavoro non stagionale, ma nella maggior parte dei casi sono state autorizzate delle conversioni del permesso (ad esempio da studio a lavoro), mentre i nuovi ingressi veri e propri autorizzati dall’estero sono stati meno di 6 mila. A questi vanno aggiunti 13 mila lavoratori stagionali. Il decreto flussi emanato a fine 2010 prevedeva invece l’ingresso per lavoro non stagionale di 86.580 cittadini non comunitari residenti all’estero. Per il 2005 era stato programmato l’ingresso di 159 mila lavoratori non stagionali (in quel particolare anno si faceva riferimento anche all’ingresso di neo-comunitari, vista la recente adesione all’Unione di alcuni paesi dell’Est Europa). A questo si deve aggiungere il peso che in passato avevano avuto le campagne di regolarizzazione degli immigrati irregolarmente presenti sul territorio. Le migrazioni per lavoro hanno perso così importanza e la prima nazionalità per numero di permessi di lavoro emessi per la prima volta nel 2015 è diventata proprio quella statunitense, con i nuovi arrivati che si concentrano intorno alle basi militari. Anche per gli indiani la quota di ingressi per lavoro sul totale dei nuovi permessi continua ad essere significativa (oltre il 22%), mentre non raggiunge il 10% per le altre nazionalità con un numero elevato di nuove documentazioni emesse nell’anno. Si continua ad arrivare per ricongiungimento familiare, ma sono soprattutto gli altri motivi a crescere. Segno di un’immigrazione che non solo matura, ma che sta anche cambiando rapidamente. È interessante notare come tra i cinesi solo il 7,2% abbia ottenuto un permesso per motivi di lavoro, mentre il 34,3% abbia ricevuto un’autorizzazione al soggiorno per motivi di studio.

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Migrare senza rete

Fra il 2014 e il 2015 i permessi per richiesta asilo politico e protezione umanitaria sono aumentati del 40,5%: nel 2015 sono diventati oltre 67mila e rappresentano più del 28% dei nuovi ingressi. Quello che era un flusso residuale di arrivi è diventato per i migranti maschi il principale motivo di ingresso nel nostro paese. Questo è un elemento di novità che cambia in modo significativo il quadro di riferimento non solo perché, come dice l’Istat, le persone che arrivano per questo motivo hanno caratteristiche peculiari rispetto agli altri migranti, ma anche perché danno luogo a percorsi di inserimenti sociale profondamente differenti. Chi si sposta per ricongiungimento ha una rete familiare ad attenderlo. Anche chi arriva per lavoro fa spesso riferimento a network amicali, familiari o di altro tipo che, oltre ad aiutarlo nella collocazione lavorativa e abitativa, ne favoriscono l’introduzione nella vita sociale del paese di accoglienza nel periodo immediatamente successivo all’arrivo. Completamente diverso è il percorso di chi fugge da paesi in guerra o da persecuzioni. Non solo spesso non c’è un vero e proprio progetto migratorio, ma talvolta la meta ambita non è – o quantomeno non era – l’Italia, ma un altro paese. Le persone in cerca di protezione arrivano solitamente senza poter contare su una rete familiare o amicale. Il loro inserimento, anche temporaneo, nel paese risulta più complesso e conseguentemente divengono più probabili i percorsi di marginalità. Le politiche di accoglienza decentrata stanno dando i loro frutti alleggerendo, almeno in parte, le regioni coinvolte dagli sbarchi. Tuttavia il sistema di prima accoglienza dovrà essere rapidamente adeguato in tutta Italia per consentire la gestione di flussi che non sembrano destinati a diminuire nel breve periodo. L’Italia si trova oggi a fronteggiare una presenza immigrata che probabilmente è più complessa ed articolata di quanto non lo sia stata in passato, in cui assumono grande rilevanza situazioni diametralmente opposte. Da una parte va gestita l’integrazione di un numero elevato di persone ormai radicate sul territorio, come dimostrato dalla quota ampia di permessi di lungo periodo, dal flusso ininterrotto dei ricongiungimenti familiari e dalle cifre crescenti delle acquisizioni di cittadinanza. Quest’ultimo aspetto costituisce un segnale senza dubbio importante anche in considerazione del fatto che sono sempre più numerosi coloro che diventano italiani per residenza, procedimento che per i non comunitari richiede almeno 10 anni di iscrizione ininterrotta in anagrafe D’altra parte il nostro paese più che in passato deve fronteggiare l’emergenza dei nuovi arrivi, sempre più speso motivati dalla ricerca di protezione internazionale, e la prima accoglienza di richiedenti asilo e minori non accompagnati. Continuano, quindi, ad esserci due Italie: quella del Mezzogiorno che affronta quotidianamente l’emergenza degli sbarchi e quella del Centro–Nord in cui le più “antiche” comunità immigrate (marocchina e albanese) possono risultare in apparente diminuzione, non per via dei rimpatri ma per effetto dell’acquisizione della cittadinanza italiana.

In mezzo al Mediterraneo

Siamo sicuramente in una fase di mutamento dei modelli migratori in cui la presenza straniera è sempre più connessa a fattori di spinta dalle aree di origine, piuttosto che a fattori di attrazione da parte delle realtà di destinazione. Questo potrebbe portare – e se ne vedono gli effetti iniziali – a una presenza per i nuovi migranti meno radicata sul territorio italiano, non necessariamente destinata a stabilizzarsi. È evidente che la prospettiva con la quale per anni si sono studiate le migrazioni, quella prevalentemente economico-lavorativa, deve in parte lasciare il passo a nuovi approcci e paradigmi interpretativi che tengano conto della mutata situazione e della diversità dei percorsi possibili. È anche importante comprendere che le migrazioni sono sempre più fortemente influenzate dalle politiche internazionali fuori e dentro l’Europa, aspetti di cui si dovrebbe tenere adeguatamente conto. In particolare, appare evidente come l’Italia e la Grecia non possano continuare a lungo a svolgere la funzione di stati-cuscinetto con la sponda Sud del Mediterraneo, senza che la situazione diventi assolutamente insostenibile. Le difficoltà nell’applicazione dell’accordo di Dublino suggerirebbero di rivedere non solo gli approcci di studio, ma anche le normativa europea in materia di asilo.

Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle degli autori ma non coinvolgono le istituzioni di appartenenza




Immigrazione, Trump e l’umiliazione di un grande Paese

Donald Trump

Sì, potrebbe succedere. Anche se le probabilità sono poche. Potrebbe avvenire che in un qualche giorno del 2017, 154 anni dopo il Proclama di Emancipazione degli schiavi fatto da Abraham Lincoln, e nella stessa Casa Bianca, Donald Trump pronunci il suo “Proclama del Muro e della Deportazione dei Migranti”, in coerenza con le proposte fatte in campagna elettorale. Che ci siano dei politici così cinici e reazionari non stupisce. La storia, anche recente, ce ne offre un nutrito campionario. Ma che un politico possa arrivare al vertice del paese più potente del mondo, con procedure democratiche, e con tali propositi, questa sì, è un’amara sorpresa. Un politico scelto come candidato ufficiale alla Presidenza dal Partito Repubblicano, il partito che fu di Lincoln, che affermò che “all men are created equal” in una democrazia guidata da un “government of the people, by the people, for the people”. Un’umiliazione, per un grande Paese come gli Stati Uniti d’America.

Donald Trump sull’immigrazione

Il tema dell’immigrazione, come purtroppo sappiamo, è un cavallo elettorale vincente dei politici reazionari. E nella lunga campagna elettorale, che ha proiettato Trump da candidato folkloristico a candidato ufficiale del Grand Old Party, dopo aver sconfitto una legione di accreditati politici, il tema della migrazione è stato una costante centrale dei suoi discorsi. Tuttavia se lo spirito razzista, xenofobo e reazionario è evidente in tutti i suoi discorsi, dichiarazioni, interviste, c’è una grande confusione circa i provvedimenti che la sua eventuale amministrazione dovrebbe prendere, e sui meccanismi per renderli effettivi. Nelle ultime settimane sembrava che Trump – per la spinta dei maggiorenti del partito, della parte più moderata del suo elettorale, e del timore di un disastro elettorale nel voto delle minoranze – avesse ammorbidito le sue posizioni più estreme, ma questa impressione è stata smentita dal discorso fatto a Phoenix

il 31 Agosto scorso¹.

Un muro di 3200 chilometri alto 18 metri… pagato dal Messico

Un punto “forte” della sua campagna (e il primo sul suo sito ufficiale) riguarda la costruzione di un muro lungo i 3200 chilometri del confine tra il Messico e gli Stati Uniti.² Ma questo muro dovrà essere costruito a spese del Messico. “Per molti anni – si legge – i governanti messicani hanno tratto vantaggio usando l’immigrazione illegale per esportare il crimine e la povertà negli Stati Uniti…Hanno perfino pubblicato dei pamphlet su come immigrare clandestinamente negli Stati Uniti…I costi per gli Stati Uniti sono stati straordinari….Gli Americani hanno dovuto pagare centinaia di miliardi di dollari in spese sanitarie, di alloggio, di istruzione, di welfare….L’impatto in termini di crimini commessi è stato straordinario…Nel frattempo il Messico continua a godere del flusso di rimesse dei clandestini, ben 23 miliardi di dollari nel 2013”. Scrive ancora Trump sul suo sito: “decisione facile per il Messico: faccia un pagamento una-tantum di 5-10 miliardi di dollari se vuole che 24 miliardi di rimesse all’anno continuino ad arrivare” (si badi che una parte consistente di queste rimesse proviene da messicani immigrati regolarmente!). E finché il muro non viene costruito, si imporranno nuovi gravami e nuovi vincoli sulla collettività immigrata (sequestro delle rimesse provenienti da “salari illegali”, aumento degli oneri per i passaggi di frontiera, o per le importazioni di merci; aumento delle tasse sui visti, ritorsioni giuridico-economiche verso i paesi di provenienza ).

E come sarebbe questo muro? Per il megalomane costruttore, dovrebbe essere lungo 3,200 chilometri (ma poi ha concesso che forse ne bastano meno), alto 65 piedi (20 metri: l’altezza à cresciuta durante la campagna elettorale), di cemento e acciaio. Stime fatte dal New York Times pongono il costo di questo ciclopico muro a 26 miliardi di dollari, assai di più dei 5 o 10 miliardi che Trump si ripropone di richiedere al Governo Messicano. Nemmeno la visita resa al Presidente Messicano Peña Nieto, alla vigilia del discorso di Phoenix, ne ha ammorbidito gli assurdi intendimenti: il Messico pagherà, e si costruirà “un muro impenetrabile, fisico, alto, potente, un bel muro del confine meridionale…con le tecnologie migliori, e sensori sotto e sopra il muro”.

11 milioni di irregolari? Deportiamoli tutti!

Stime molto ben fatte ed accurate pongono il numero degli irregolari (undocumented) negli Stati Uniti oltre 11 milioni, molti dei quali nel paese da decenni, con famiglia, figli, lavori stabili e legali³. La stragrande maggioranza è di origine latino americana, la metà sono messicani. Sono tutti a rischio deportazione, tant’è vero che Obama, fallito il progetto di riforma bipartisan approvato nel 2013 dal Senato ma successivamente bloccato dalla Lower House, è corso ai ripari avvalendosi dei poteri presidenziali e varando l’anno successivo il decreto DAPA (Deferred Action for Parents of Americans), che in pratica protegge gli irregolari genitori di un figlio nato negli USA (e quindi cittadino del paese o comunque legalmente residente nel paese) dalla deportazione, dando loro un permesso di lavoro triennale e rinnovabile. Un analogo decreto (DACA, Deferred Action for Childhood Arrivals) riguarda i minori. Dei decreti beneficerebbero un po’ meno della metà degli irregolari, più della metà dei quali vivono in California, Texas e New York. C’è attualmente un contenzioso riguardante la costituzionalità dei decreti cui, naturalmente, Trump è fieramente contrario.

La questione della deportazione degli irregolari è stata continuamente al centro delle esternazioni trumpiane. La posizione sulla quale ha costruito la sua campagna ed il suo successo con i settori più estremisti dell’elettorato è quella della immediata deportazione di tutti quanti, con l’apporto di un corpo speciale (deportation force) per eseguire questa complessa e costosa operazione. Se questa deportazione di massa (di una popolazione pari a quella del Portogallo) venisse intrapresa, gli ostacoli di natura giuridica, i costi di attuazione, le difficoltà logistiche, le lesioni dei diritti umani sarebbero enormi. Senza considerare gli effetti dirompenti sull’economia e la società. Trump si è in seguito barcamenato ambiguamente sull’argomento, sfuggendo le domande dirette, dando risposte confuse e contraddittorie. Ha affermato, per esempio, che si deporteranno i “cattivi soggetti” (e le forze di polizia sanno benissimo “quali sono i bad guys e i good guys”; che ci sono “due milioni di irregolari criminali”; che “la metà degli irregolari sono criminali”; che gli irregolari sono “stupratori e spacciatori di droghe”. Nel discorso di Phoenix è ritornato ai due milioni di criminali che “cominceremo a deportare nel day one, appena entrato in carica”. Ma anche gli altri saranno deportati nel giro di due anni, nei loro paesi di origine. Ad alcuni – gli onesti lavoratori, con famiglia, brave persone – potrà essere consentito di ritornare ma con le normali procedure. Ma poiché ci sono già 1,1 milioni di domande inevase di immigrati, e dato che Trump vuole abbassare sensibilmente il numero degli ammissibili, è chiaro che le probabilità di rientro per l’irregolare non criminale deportato sarebbero irrisorie.

I riflessi in Europa

Le politiche migratorie sono molto complesse – e quella americana è forse tra le più complesse e intricate – e ci sono molti altri aspetti sgradevoli nelle proposte di Trump (tra l’altro l’eliminazione dei finanziamenti per i minori “non accompagnati”) che potrebbero essere esaminati. Mi sono limitato però ai due aspetti centrali: il muro e la deportazione. Una malaugurata elezione di Trump non avrebbe, presumibilmente, conseguenze dirette di rilievo sull’Europa (salvo rendere più difficile la vita per i visitatori, l’inasprimento delle sanzioni per coloro che non ripartono alla scadenza del visto, i costi ecc.). Ma avrebbe sicuramente molte conseguenze negative indirette: un sostegno ai gruppi xenofobi e ai partiti di estrema destra; una potente giustificazione per le politiche ostili alle migrazioni degli Stati – come quelli del gruppo di Visegrad (Polonia, Rep. Ceca, Slovacchia e Ungheria); passi indietro nelle intese internazionali sui diritti umani; ostacoli ad ogni iniziativa volta a porre regole condivise al primitivo disordine dei flussi internazionali.

Note

¹ Nel sito ufficiale di Trump, c’è una sezione “Immigration Reform that will make America great again”. Si tratta di posizioni espresse all’inizio della campagna, poi spesso modificate, quando non contraddette.

² Già oggi esiste una robusta e invalicabile barriera di quasi 1000 chilometri nei tratti più “vulnerabili” del confine.

³ Trump si è spesso riferito alla cifra di 11 milioni di illegali, ma recentemente l’ha posta in dubbio “potrebbero essere 3 o 30 milioni”. Secondo le ricerche del Pew Center, nel 2014 negli Stati Uniti c’erano 11,4 milioni di irregolari (unauthorized), un numero rimasto stabile nel precedente quinquennio – anche in conseguenza della crisi economica – dopo aver toccato il massimo nel 2007. La metà (5,6 milioni, 49%) provengono dal Messico. Il 60% degli irregolari vive in 6 stati, nell’ordine California, Texas, Florida, New York, New Jersey e Illinois. Gli irregolari sono il 3,5% della popolazione, ma il 5,1 della forza di lavoro.

 




Il benessere economico dei figli nelle famiglie con due madri omosessuali

Negli Stati Uniti, come si sa, vi è un crescente sostegno da parte dell’opinione pubblica verso le famiglie con genitori omosessuali, e vi è stata una legalizzazione a livello nazionale dei matrimoni omosessuali. La ricerca che analizza le condizioni dei bambini che vivono in famiglie con genitori omosessuali è tuttavia ancora limitata, anche se il loro numero sta aumentando. Un vincolo importante, fino ad ora, è stata la scarsità di basi di dati che includessero un numero sufficientemente ampio di bambini residenti in famiglie omosessuali.

Abbiamo usato dati recenti, rappresentativi a livello nazionale (USA), della Current Population Survey (CPS) 2010-2013, per fornire un quadro della condizione dei bambini che vivono in famiglie con due madri omosessuali conviventi. Fino a poco tempo fa, le stime ufficiali dei livelli di povertà statunitensi escludevano il partner convivente come portatore di reddito e consumatore (Brown, Manning e Payne, 2016). Questa misura ufficiale sembra non più attuale, poiché non riconosce i partner conviventi come parte della famiglia. Abbiamo sviluppato un nuovo indicatore, di ‘povertà aggiuntiva’, che include il reddito dei partner conviventi e include i partner nella definizione della famiglia. Abbiamo poi focalizzato la nostra attenzione su cinque tipi diversi di famiglie con figli, a seconda della composizione di genere dei partner: con genitori sposati eterosessuali; ricostituite (stepfamily) con genitori eterosessuali; con genitori conviventi eterosessuali; con genitori omosessuali maschi conviventi; con genitori omosessuali femmine conviventi.

Le nostre analisi dei dati della CPS indica che nelle famiglie con genitori omosessuali femmine conviventi – con due madri omosessuali – l’età delle madri è comparabile a quella delle famiglie eterosessuali con genitori sposati, e più elevata rispetto a quella delle famiglie eterosessuali con genitori conviventi. Il livello di istruzione delle madri omosessuali è anch’esso comparabile a quello dei genitori delle famiglie eterosessuali—con circa il 40% avente un’istruzione a livello universitario. Il livello di istruzione delle famiglie eterosessuali con genitori conviventi è invece più basso. Le famiglie con due madri omosessuali tendono ad avere un’offerta di lavoro elevata, con una media settimanale di almeno 30 ore per ciascun partner.

Le nostre analisi degli indicatori di povertà aggiuntiva mostrano che i bambini che si trovano con due madri omosessuali hanno livelli simili a quelli dei bambini che si trovano in famiglie con due genitori eterosessuali (siano essi sposati o conviventi). Usando le misure di povertà ufficiali, che non tengono conto della presenza di due partner che potenzialmente forniscono entrambi reddito, i bambini che si trovano con due madri omosessuali sembrano invece svantaggiati. I nostri risultati mostrano come tenendo conto dei contributi di entrambe le partner, i rischi di povertà dei figli diminuiscono.

I nostri risultati, inoltre, mostrano l’importanza di considerare un insieme più ampio di tipologie familiari quando si deve analizzare il benessere dei bambini. I dati a nostra disposizione non hanno consentito di analizzare la situazione dei bambini che risiedono in famiglie con due padri omosessuali e occorre dunque approfondire il tema. Inoltre, sarà importante analizzare le implicazioni del matrimonio dei genitori per i bambini cresciuti in famiglie con genitori omosessuali.

Riferimento bibliografico

Brown, Susan L., Wendy D. Manning, and Krista K. Payne. 2016. “Family Structure and Children’s Economic Well-Being: Incorporating Same-Sex Cohabiting Mother Families.” Population Research and Policy Review 35:1-21.

Family Structure and Children’s Economic Well-Being: Incorporating Same-Sex Cohabiting Mother Families

 




Italiani in Brasile: chi sono e come vivono

Gli ultimi due Censimenti del Brasile, condotti nel 2000 e nel 2010, consentono di conoscere le condizioni di vita degli Italiani nel paese, di valutare come la durata della residenza influenza tali condizioni e come queste condizioni siano variate nel tempo. L’indagine ha riguardato le persone nate in Italia e residenti in Brasile: nel 2000, erano circa 55.000; nel 2010, erano poco più di 37.000. Circa l’1% dei dichiaranti non sono Italiani, pur essendo nati in Italia, in quanto presumibilmente figli di genitori stranieri.

I dati dei Censimenti e il loro utilizzo

I dati necessari sono stati ottenuti dai quesiti del modulo “migrazione” dei questionari del campione dei due censimenti. Le informazioni selezionate permettono di identificare gli italiani residenti in Brasile, stratificando per durata e della permanenza e per regione di residenza. Le varaibili utilizzate per misurare le condizioni di vita studiate sono le seguenti:

  • Condizioni dell’abitazione:
    • Abitazione: tipologia; titolo di possesso
    • Caratteristiche: numero di stanze; approvvigionamento idrico; fognatura e destinazione dei rifiuti; energia elettrica
  • Beni di consumo:
    • Elettrodomestici: frigo; lavatrice
    • Mezzi di comunicazione e trasporto: TV; radio; PC; telefono; auto
  • Caratteristiche sociodemografiche:
    • Generali: nazionalità; sesso; età; stato civile; residenza urbano/rurale
    • Individuali: anno di arrivo in Brasile; relazione con il capofamiglia
    • Istruzione: livello di scolarità
  • Condizioni di salute:
    • Disabilità: limitazione visiva, uditiva e di locomozione; problemi mentali
  • Redditi e lavoro:
    • Redditi: reddito familiare; eventuali benefici assistenziali
    • Lavoro: ore lavorate; salario del lavoro principale; reddito totale

Poiché la durata della residenza in Brasile è fondamentale nel processo di integrazione, si sono create 4 categorie: immigrati recenti, fino a 2 anni di residenza; in adattamento, da 3 a 5 anni; in integrazione, da 6 a 9 anni; e integrati, da 10 anni in poi.

Oltre all’analisi qualitativa, si è utilizzata una regressione logistica per verificare l’impatto di variabili sociodemografiche sulle condizioni di vita. La variabile dipendente si basa sul “Critério Brasil 2014”, che classifica le famiglie in 5 livelli (A-E), combinando il possesso di beni di consumo, il grado di istruzione del capofamiglia e il reddito lordo familiare. Nell’analisi qui presentata, la classificazione segue un criterio modificato, considerando, oltre ai beni di consumo e al reddito familiare, l’accesso ai servizi. Nel prospetto che segue sono riportati gli elementi costituitivi del criterio, con i punteggi attribuiti.

Schermata 2015-04-30 alle 14.20.47

Il punteggio totale attribuito è suddiviso in 7 livelli socioeconomici (A-E), con la classe media (livello C) suddivisa in tre sottogruppi (C+, C e C–). Questi livelli compongono la variabile dipendente del modello, con l’obbiettivo di verificare come caratteristiche sociodemografiche influenzino la probabilità di una persona appartenere ad un determinato livello. Come si vede nel prospetto seguente, sono state scelte 7 variabili indipendenti.Schermata 2015-04-30 alle 14.21.06

Alcune caratteristiche degli Italiani

I due ultimi Censimenti descrivono una popolazione italiana con una proporzione di giovani sotto i venti anni in aumento, tra il 2000 e il 2010, alimentata da un flusso di immigrazione dovuto al peggioramento delle condizioni economiche in patria. Un’alta proporzione vive in abitazioni di proprietà con accesso a servizi e infrastrutture. In generale, però, il livello di vita si è abbassato, ed è aumentata la proporzione di famiglie con reddito più basso.Schermata 2015-04-28 a 11.11.34 Come da tradizione, la principale destinazione è il Sud-est, in particolare lo Stato di San Paolo, ma c’è un aumento dell’immigrazione verso Nord-est, tendenza rafforzata tra gli Italiani di recente immigrazione. E’ diminuita la proporzione degli immigrati da più di dieci anni, sia per la scomparsa delle generazioni più anziane (e numerose), sia per l’aumento del flusso d’immigrazione tra il 2005 e il 2010. La tabella 1 compara alcune caratteristiche osservate negli Italiani in Brasile.

Le risultanze del modello logistico

Il modello logistico conferma, in linea generale, i risultati dell’analisi descrittiva. Le condizioni di vita, rappresentate dagli indicatori desunti dai censimenti, sono correlate positivamente con la durata della residenza in Brasile ma, al netto degli altri fattori, peggiorano col crescere dell’età; tali condizioni migliorano col grado d’istruzione e sono migliori nelle aree urbane, così come per coloro che risiedono nel Sud-est del paese. Gli immigrati recenti hanno peggiori condizioni di vita nel 2010 rispetto al 2000 e, sempre nel 2010, è aumentato il divario tra le condizioni di vita degli anziani e quelle dei giovani.

Conclusioni

I risultati mostrano l’importanza della durata della residenza in Brasile per comprendere le condizioni di vita degli immigrati. Anche se l’uso dei dati censuari non consente di approfondire tutti gli aspetti di interesse, si nota comunque che che i principali flussi migratori avvengono in periodi di crisi o instabilità economica in patria. La prima significativa migrazione di Italiani verso il Brasile risale alla metà del secolo XIX, in cerca di migliori condizioni di vita. Nel XX, l’immigrazione si riduce nella prima metà del secolo, a causa del peggioramento delle condizioni di vita in Brasile, mentre s’intensifica nell’immediato secondo dopoguerra. Già nel secolo XXI, il flusso cresce nuovamente, a causa della crisi economica recente. Tuttavia emigrare non protegge del tutto dalla crisi: i dati mostrano che le condizioni di vita degli Italiani in Brasile sono peggiorate tra il 2000 e il 2010.

Per saperne di più

Pier Francesco De Maria, Chi sono e come vivono gli immigrati Italiani in Brasile? Risultati dei Censimenti del 2000 e del 2010, Relazione presentata al “Population Days 2015”, AISP, Palermo, 4-6 Febbraio 2015.