Popolazione mondiale:

Popolazione italiana:

Giovani (0-19 anni):

Anziani (64+ anni)

Quanto sei felice, da 1 a 10?

Misure del benessere alternative al PIL ce ne sono ormai tante: per es. l’ISU (Indice di Sviluppo Umano). Fra queste, strumenti che danno poca importanza alle variabili economiche e più spazio al vissuto soggettivo, al fine di misurare la “felicità” di un paese come livello medio di soddisfazione degli abitanti. A tale riguardo si chiedeva Gustavo De Santis (cfr. l’ articolo ):    (1) se abbiano senso e quanto siano attendibili le autovalutazioni della felicità; (2) se non siano influenzate in negativo da quelli che una canzone di De Gregori chiama i “martiri professionali”.

Domande sensate. Siamo sicuri che basti fare la media per trasformare la felicità da soggettiva in oggettiva? E poi: se gli scontenti di professione esistono, non è detto che siano equamente distribuiti. Pertanto, come fidarsi del dato soggettivo per paragonare la felicità effettiva di comunità diverse?

Happy days, happy years

C’è chi propone di ponderare la media delle autovalutazioni con l’indice di longevità, onde paragonare fra loro gli “anni felici” di ciascun paese. Così fa per es. il WDH (World Database of Happiness), di cui s’incarica un sociologo di Rotterdam: Ruut Veenhoven, della Erasmus University. Un po’ diverso l’HPI (Happy Planet Index) proposto dalla New Economics Foundation di Londra, che nel calcolo precedente integra (in negativo) il c.d. ecological footprint  ovvero l’impatto ambientale che ogni paese infligge all’intero pianeta (inquinamento, consumo di risorse non rinnovabili). Soluzioni interessanti, ma ciò che nel complesso viene così misurato non è, dunque, la felicità media degli abitanti, bensì il contributo relativo che quel paese dà alla felicità del mondo.

Peraltro colpisce che, nonostante la diversa concezione, in testa ad entrambi gli indici stia inaspettatamente il Costa Rica, paese dove l’autovalutazione della felicità raggiunge il livello più alto del mondo (specie dopo che, sciolto l’esercito, è molto cresciuta la spesa per l’istruzione).

Benessere oggettivo e felicità percepita

Va pur detto che l’autovalutazione della felicità resta un dato a dir poco discutibile. La “felicità soggettiva” sta alla scienze sociali un po’ come la “temperatura percepita” sta alla meteorologia. La questione è complicata: coinvolge aspetti di psicologia cognitiva, psicologia sociale e perfino di psicobiologia e genetica delle popolazioni.

A livello individuale, la felicità soggettiva a parità di circostanze è influenzata in maniera significativa dal temperamento (disposizioni psicofisiche del soggetto). Qui intervengono fattori genetici. Infatti: la vulnerabilità allo stress diminuisce rispettivamente dell’8,5% e del 17,3% se l’individuo dispone di uno o due alleli particolarmente “efficienti” del gene che codifica la proteina 5-HTT (5-Hydroxytryptamine Transporter o proteina SerT , responsabile del “trasporto della serotonina”); aumenta, invece, se in esso è presente la variante c.d. “corta”.[1] Ora, è plausibile che la presenza di questi alleli (varianti nella sequenza genica) vari da popolazione a popolazione e che la loro distribuzione geografica, non del tutto nota, influisca sul dato aggregato della felicità soggettiva localmente dichiarata (risultante da una media delle dichiarazioni individuali). Se così fosse, per un’analisi multivariata di come incidono le condizioni sociali sulla felicità soggettiva, bisognerebbe prima depurare i dati (relativi a popolazioni diverse) di quanto deriva da differenze genetiche.

Seconda complicazione. Prima di essere un numero compreso fra 1 e 10 (come vogliono i questionari) la “felicità soggettiva” è un sentimento preconscio di minore o maggiore benessere; ma l’appercezione e l’autovalutazione di tale sentire sono a loro volte influenzate da circostanze socio-culturali. In particolare, spiega Bernard Van Praag (2010), esse dipendono dalla percezione personale dell’ineguaglianza soggettiva rispetto a un insieme di persone note al soggetto, da lui giudicate versare in condizioni analoghe e perciò assunte come gruppo di riferimento. In altri termini: il soggetto si dirà tanto più felice se ritiene di stare meglio del gruppo di riferimento, e tanto più infelice se ritiene di stare peggio di loro. Ma questo paragone – ingrediente importante dell’autovalutazione – dipende da tante cose: in particolare, dalla frequenza e dalla facilità dei confronti, dal livello di trasparenza di ogni società, dal grado d’invidia che ne caratterizza la cultura.

Inoltre – osserva Daniel Kahneman (2007) – la felicità autovalutata non misura la felicità esperita dal vivo (the experiencing self’s objective wellbeing), bensì concerne il ricordo di essa (the remembering self’s subjective wellbeing). E sappiamo quanto poco ci si possa fidare delle valutazioni retrospettive! Le quali restano per giunta eterogenee e insuscettibili di aggregazione, se la domanda (quanto sei felice) non chiarisce quando. In questo momento? In questa fase della tua vita? Nel complesso della tua vita finora? A tal fine Kahneman (2005) ha elaborato una intervista detta DRM (Day Reconstruction Method) che ricostruisce i livelli autentici di felicità vissuti dal singolo soggetto nell’arco di un certo giorno, molto vicino.

Infine: sia nel presente che retrospettivamente, l’autovalutazione è fortemente influenzata da fattori collettivi: in primis il carattere nazionale, nozione che la psicologia sociale oggi riconsidera con attenzione, dopo averla liquidata come non-scientifica Basta paragonare la “felicità secondo gli abitanti” (misurata per mezzo del WDH) con la “felicità secondo le Nazioni Unite” (misurata per mezzo dell’ISU): non stupirà leggere che l’Italia, popolo di brontoloni, si auto-colloca al 31° posto della graduatoria mondiale, mentre viene collocata al 18° nella classifica dell’ONU.

Insomma: chiedere alla gente quanto sia felice è, sì, utile, ma il dato ottenuto non è immediatamente aggregabile né immediatamente utilizzabile a fini comparativi. Rielaborarlo esige un grosso lavoro.

Per saperne di più

Van Praag B. (2010) Well-being Inequality and Reference Groups. An Agenda for New Research , CESifo Working Papers No. 2984, Munich.

Kahneman D. (2005), “Economia e felicità”, lectio magistralis tenuta nell’Università di Milano/Bicocca in occasione del conferimento di una laurea honoris causa in Economia, il 6 aprile 2005 (v., Domenica, supplem. del Sole 24 Ore, 3 aprile 2005, p. 31).

Kahneman D. (2007), Economia della felicità, Il Sole 24 Ore, Milano 2007

 


[1] Da tempo si sapeva (grazie agli studi di Likken & Tellegen, 1996 , su gemelli etero- e omozigoti) che le variazioni nel livello di wellbeing sono largamente dovute a fattori genetici (fino all’80%); non era chiaro però quali fossero tali fattori. Dal 2010 abbiamo una serie di studi che dimostrano il ruolo in ciò tenuto dal gene che, nel cromosoma 17, codifica la proteina SerT; in particolare di due sue varianti: l’allele S (Short) e l’allele L (Long). I portatori dell’allele S mostrano un afflusso sensibilmente minore di serotonina nel sistema limbico; dal che deriva una iperattivazione dell’amigdala, con conseguente intensificazione delle emozioni negative (paura, ansia anticipatoria) e rinforzo dei comportamenti di social avoidance. Il fenomeno è stato studiato nei topi (da Bartolomucci & altri, all’Univ. di Parma) come pure negli esseri umani (da Caspi & altri , alla Duke Univ. di Durham). Ai maggiori livelli di stress (a parità di stressor) e di evitamento sociale corrisponde, nel caso degli umani, una maggiore probabilità di sviluppare disturbi reattivi d’interesse psichiatrico (stati di ansia, PTSD, depressioni reattive). Ora che la distribuzione geografica degli alleli S ed L comincia finalmente ad essere studiata, Chiao & Blizinsky hanno cautamente rilevato una qualche sovrapponibilità fra prevalenza di S e regimi collettivistici, da un lato, prevalenza di L e società individualistiche dall’altro. Se questa sovrapposizione fosse confermata (come pare evidente per la Cina), i regimi collettivistici – suggeriscono i due autori – potrebbero essere interpretati in chiave co-evolutiva come un coping collettivo, cioè come una sorta di “autoterapia” che supplisce alla minore disponibilità verso il contatto sociale!

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