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Politiche dell’asilo: una prospettiva storica

La colpa, se di colpa si può parlare, è antica almeno quanto il trattato di Augusta. Sovrani e ambasciatori, lì convenuti nel settembre del 1555, erano alle prese coi problemi generati dalla riforma protestante. Li affrontarono stabilendo una serie di principi che sono ancora con noi. Riconobbero ai sovrani il diritto di intervenire non solo sulle tasche, ma anche sulle teste, dei loro sudditi (ius reformandi) per renderli simili a loro. Stabilirono anche – primo nucleo della libertà di coscienza (e di tutte le libertà civili che da questa discendono) – che chi non voleva essere così riformato aveva il diritto di muoversi verso nuove terre (ius emigrandi). Quello a cui non pensarono fu introdurre uno ius immigrandi. I sovrani potevano accettare coloro che abbandonavano il proprio paese, ma non erano tenuti a farlo.

I confini del liberalismo

Cinquecento anni dopo, come dimostra l’articolo 13 della dichiarazione dei diritti umani dell’ONU (1948), è ancora così. Esiste un diritto ad uscire dal proprio paese, ma non un diritto ad entrare in un altro. I convenuti ad Augusta avevano, peraltro, ragioni migliori delle nostre per ignorare il problema. Vivevano in un mondo nel quale i sovrani competevano attivamente per attirare e accogliere nuovi sudditi. Concedevano spesso agli stranieri un trattamento di favore: meno tasse, più autonomia, terre gratis. A partire dalla rivoluzione francese, una delle prime richieste delle popolazioni che cominciano a pensarsi come nazione fu proprio l’abolizione dei privilegi degli stranieri. Sin dall’inizio, liberalismo interno ed esterno non vanno necessariamente d’accordo.

Facciamo un salto nel tempo. A partire dal Belgio (1833), si diffonde in tutta Europa l’idea dell’asilo non come atto discrezionale giustificato dalla ragione di stato bensì come diritto dello straniero, parte naturale e integrante di un ordinamento liberale. Non si trattava di garantire l’ingresso sul territorio, perché sia esuli sia lavoratori non incontravano all’epoca molti problemi a farlo. Asilo all’epoca voleva dire essenzialmente la garanzia di non essere espulsi verso il proprio paese. E’ la base dell’epopea romantica degli esuli nazionali, anarchici e socialisti, Mazzini e Marx a Londra e Addio Lugano Bella. Gli ultimi in Europa a dotarsi di norme di questo tipo saranno i parlamentari della repubblica di Weimar, pochi mesi prima dell’avvento del nazismo.

Questa congruenza di liberalismo interno ed esterno, di diritti dei cittadini e diritti dei perseguitati apparve all’epoca un naturale sviluppo dello spirito dei tempi. Era in realtà tutto il contrario: andava contro alcuni importanti processi che stavano trasformando la struttura stessa della società globale. Che avrebbero aumentato la domanda di ingressi (da alcune aree) e ridotto l’offerta (in altre). A partire dall’ottocento assistiamo infatti a una crescita straordinaria delle diseguaglianze tra le aree del pianeta, all’avvento delle guerre totali e al diffondersi di aspettative globali di mobilità sociale. Con una conseguente crescita della domanda di ingressi. Contemporaneamente, nei paesi liberali, ci sono i processi di nazionalizzazione delle masse (che richiedono un qualche privilegio dei nativi sui nuovi arrivati), di democratizzazione (e le opinioni pubbliche sono raramente espansive in materia di immigrazione) e la nascita del welfare state (che, al contrario del mercato, è per definizione chiuso). Quando, a partire dalla rivoluzione russa, i flussi di profughi diventano un fenomeno di massa, si scopre che liberalismo interno e liberalismo esterno possono facilmente entrare in collisione.

Il regime internazionale dell’asilo

Facciamo un altro salto nel tempo. 1945-51. Nelle costituzioni europee postbelliche vengono introdotte norme molto generose sull’asilo (quella italiana è all’articolo 10). In Europa occidentale sono insediati milioni di persone (rifugiati, apolidi, displaced persons, reduci ed esuli) che le fonti ufficiali dell’epoca definiscono discretamente come «popolazione in eccesso», gente che va trasferita da qualche altra parte. C’è chi vuole – l’ILO –

un regime internazionale che regoli il movimento dei migranti a qualunque titolo (salvo naturalmente i non-bianchi, che sono ancora sudditi coloniali). C’è chi – praticamente tutti i governi –non ne vuole nemmeno sentire parlare. Si giunge a una mediazione incentrata su sei punti: (1) rifugiati e migranti sono due specie distinte; (2) i rifugiati hanno diritto alla protezione, i migranti no; (3) Questa protezione interviene solo e soltanto quando gli espulsi si trovano all’esterno del paese che li perseguita; (4) il diritto va provato individualmente, non, come in precedenza, su basi collettive; (5) nessun paese può respingere o deportare uno straniero che si troverebbe in pericolo nel paese in cui viene respinto o deportato; (6) il rifugiato deve esercitare il proprio diritto nel primo paese sicuro che attraversa.

E’ la nascita di un regime internazionale dell’asilo, forse imperfetto ma decisamente più robusto di quello che regola ogni altro flusso migratorio. Rappresenta un importante tassello della rinascita post-bellica. E democrazia interna e liberalismo esterno risultano di nuovo (grossomodo) allineati.

Per molto tempo, il termine rifugiato porterà alla mente quasi soltanto i malcapitati vittime dello ius riformandi dei nuovi sovrani, in Asia e Africa. Il problema in Europa sembra risolto. A guardare la cosa dal 2016, è facile accorgersi che la stabilità di quel regime in Europa era dovuto a una serie di «fortunate» condizioni geopolitiche: l’efficacia della cortina di ferro, la fame di lavoratori stranieri durante i trenta anni gloriosi del miracolo economico europeo (molti dei quali avrebbero potuto qualificarsi anche come rifugiati ai sensi della convenzione), il divieto di emigrazione dai paesi post-coloniali, la guerra fredda che teneva le opinioni pubbliche in ostaggio dell’esigenza di mostrare fattivamente la solidarietà del mondo libero (o, viceversa, dell’internazionalismo proletario). Quando, dopo la crisi petrolifera, i paesi europei decidono di limitare l’immigrazione, si accorgono rapidamente che il numero dei potenziali rifugiati potrebbe facilmente superare quando sembra economicamente e politicamente disponibile.

Tamil a Berlino

In Europa, le politiche di asilo hanno cominciato a scricchiolare negli anni ’80. I numeri crescono, dalle decine alle centinaia di migliaia (Figura 1). Soprattutto cambia la percezione dei rifugiati.
Schermata 2016-06-19 a 11.47.21Qui bisogna chiarirsi: non è affatto detto che i rifugiati attuali siano effettivamente «diversi» da quelli che popolavano l’Europa in rovina, tra il ’17 e il miracolo economico. I resoconti dei grandi inviati dell’epoca sono abbastanza simili a quelli che abbiamo letto l’estate scorsa sulle spiagge di Idomeni, i fili spinati di Röszke o la «giungla» di Calais. Di sicuro, vengono percepiti in modo diverso. Spesso non sono europei. Fuggono da conflitti che appaiono incomprensibili, alieni alle fratture politiche europee. Immaginare un loro ritorno in patria al cessare degli eventi bellici è arduo, visto che provengono da conflitti pluridecennali e apparentemente insolubili (si pensi all’Afghanistan o all’Eritrea). Spesso non sono né cristiani né socialisti. Molto spesso sono poveri, con difficoltà a inserirsi nel mercato del lavoro asfittico dell’Europa post- shock petrolifero.

La Germania, alle prese con l’improvviso arrivo di gruppi di Tamil dallo Sri Lanka, è il primo paese che sviluppa, nei primi anni ’80, una politica che si propone di salvare l’idea dell’asilo come un diritto individuale, rendendo più difficile la possibilità del suo esercizio. Questo può essere fatto soltanto riducendo il numero di potenziali richiedenti asilo che riescono a entrare sul territorio del paese ricevente. Si introduce quindi l’obbligo di visto per i cittadini di quel paese, in modo da filtrare gli arrivi in ambasciata. Peccato che subito dopo la DDR, che all’epoca esiste ancora, cominci a pubblicizzare sui giornali locali la possibilità di arrivare a Berlino est senza visto. In modo da fare, qualche minuto dopo, domanda a Berlino ovest. Occorrerà un accordo con la DDR che, in cambio di generosi contributi, uniformi le politiche dei due stati. Ci si accorge che questa politica può funzionare solo se adottata in modo coordinato dagli stati contigui.

Un regime europeo per l’asilo

Questa consapevolezza diventa l’architrave degli accordi di Schengen (libera circolazione all’interno in cambio di maggiori controlli verso l’esterno) e di Dublino (il primo stato europeo attraversato da un richiedente asilo è responsabile della sua protezione). E’ la nascita di quello che in gergo si chiama regime europeo dell’asilo. Salverà il principio dell’asilo come diritto individuale, e riuscirà a migliorare sensibilmente le condizioni del suo esercizio in molti paesi europei. Ma ridurrà sensibilmente i numeri grazie all’uso sistematico degli obblighi di visto per i paesi produttori dei rifugiati, l’introduzione di sanzioni ai vettori, il rafforzamento dei controlli di frontiera. Soprattutto, si comincia a fare un ricorso sistematico ai doveri dei «primi» paesi sicuri, responsabili delle domande di asilo di coloro che li attraversano.

Si tratta di riforme controverse, ma sicuramente efficaci: il numero di domande d’asilo in Europa, dopo il picco del 1991-92, scende sotto le 200 000 domande annue. Molti sono i chiamati, pochi gli eletti. E l’asilo esce di nuovo dalle prime pagine.

La stabilità di questo regime è tuttavia basata su due presupposti geopolitici destinati ad incrinarsi. Il primo è la disponibilità dei paesi confinanti con l’UE a fare la loro parte, magari utilizzando proprio il loro essere non troppo liberali, per prevenire arrivi di massa alle frontiere esterne dell’unione. Disponibilità, come quella della DDR, che deve sempre essere negoziata in modo più o meno nobile. Tanto più che il regime europeo produce inevitabilmente proprio in quei paesi un folto gruppo di potenziali rifugiati «in orbita», già fuori dal proprio paese ma privi di qualunque prospettiva d’inserimento, anche solo a medio termine, nei paesi di transito. Nel loro caso, il confine tra rifugiato e migrante economico è inevitabilmente labile. Sono, esattamente, come gli europei per i quali venne formulata la convenzione di Ginevra, «popolazione in eccesso», con poco da perdere e tutto da guadagnare anche dalla più vaga speranza di un futuro in Europa. Il secondo è interno al sistema stesso: l’accordo di Dublino è una tipica politica di beggar-thy-neighbor, quelle che vengono spesso tradotte in italiano come politiche rubamazzo. Dopo Schengen (1985), infatti, i «primi» paesi sicuri sono, in linea di principio, solo quelli che presiedono i confini esterni dell’Unione. Cioè proprio i paesi che hanno una tradizione minore nella gestione dell’asilo (l’Italia ha aderito pienamente alla convenzione di Ginevra solo nel 1990), un’infrastruttura più fragile e un’esperienza di gestione dell’immigrazione più recente e controversa. Nessuno dei paesi tradizionalmente ricettori di rifugiati, al contrario, è un primo paese di asilo. A questo si aggiunge il fatto che i rifugiati stessi non sono (per fortuna loro) privi di una propria soggettività. Cosa che li spinge a recarsi non in «Europa», bensì in quei paesi europei dove hanno già legami familiari (spesso il viaggio lo hanno pagato i parenti), dove i servizi funzionano meglio, dove il mercato del lavoro offre qualche prospettiva. Nessuno dei paesi esterni soddisfa queste caratteristiche. Quelli che vengono chiamati in Europa «primi paesi sicuri» sono, dal punto di vista dei rifugiati, soprattutto paesi di transito. E, per poterlo fare, hanno bisogno soprattutto di non essere «protetti» in quei paesi, cosa che renderebbe impossibile spostamenti successivi.

Visto che Dublino non prevede alcuna forma vincolante di condivisione dei costi e nessuno schema di redistribuzione dei rifugiati sul territorio europeo, il regime europeo dell’asilo è inevitabilmente attraversato da tensioni tanto sotterranee quanto severe. Si veda il caso degli stati «esterni» con frontiere marine. Se non pattugliano

le acque del Mediterraneo, si rendono responsabili di centinaia di morti. Se lo fanno respingendo coloro che sono sui natanti nel paese da cui provengono, generalmente assai poco liberale, vengono (giustamente) condannati dalla Corte europea (sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia, 2012), se li salvano portandoli nelle proprie acque territoriali, come durante l’operazione mare nostrum, vengono accusati di favorire l’immigrazione irregolare. Né questo dilemma si esaurisce all’arrivo sul territorio: se i paesi esterni rispettano le regole europee ed identificano i migranti sbarcati, diventeranno responsabili delle loro domande di asilo (nonché di ciò che avviene quando si cerca di identificare coattivamente grandi numeri di individui che fanno attivamente resistenza). Se non lo fanno, consentendogli di fatto di recarsi in altri paesi europei per presentare lì la loro domanda, diventano responsabili della violazione delle regole di Dublino, e sono sanzionabili in base a queste (sia l’Italia sia la Grecia sono oggetto di una procedura di infrazione su questi temi).

La crisi del 2015. E quella del 2016

Facciamo un altro salto nel tempo, per arrivare agli ultimi anni. La Libia è uno stato fallito, e gli altri paesi della sponda sud non stanno troppo bene. La crisi mediorientale è cresciuta di intensità, con 4.8 milioni di rifugiati nei paesi confinanti (Turchia, Libano e Giordania). Paesi relativamente poveri che hanno altissime percentuali di rifugiati sulla popolazione. E che ricevono dalla cooperazione internazionale molto meno di quello che sarebbe necessario. Nel 2014, le richieste di finanziamento dell’UNHCR per la crisi siriana sono state soddisfatte solo al 40%. Il che vuol dire campi profughi più fatiscenti, scuole che chiudono, ospedali sempre più precari. Sempre nello stesso anno, il World Food Program è stato costretto, sempre a causa della carenza di sostegno, a ridurre le distribuzioni alimentari ai profughi a 13.50 USD al mese. Non è sorprendente che la mobilità dei rifugiati verso l’Europa sia aumentata. Sarebbe stato, al contrario, sorprendente se non l’avesse fatto.

Il problema è che questi cambiamenti geopolitici si sono scontrati con un sistema europeo dell’asilo che vi ha risposto rafforzando l’approccio adottato più di venti anni prima. Quando, nel 2013, la corte europea di giustizia ha stabilito (giustamente) che la Grecia non poteva essere considerata un paese sicuro perché non garantiva standard minimi di accoglienza ai rifugiati che vi arrivavano, l’ha trasformata immediatamente nel paese ideale da attraversare. Ne è seguito l’aumento dei flussi e la rincorsa tra stati europei a costruire muri coi propri vicini. Lungi dall’essere sorprendente, è una mera conseguenza delle regole di Dublino.

La crisi è stata (temporaneamente?) risolta ricorrendo nuovamente al principio del primo paese sicuro, grazie all’accordo con la Turchia. Dato il fallimento del pur minimale piano di redistribuzione dei rifugiati tra i paesi europei, questo accordo è sostanzialmente inevitabile. Resta da vedere se le stesse dinamiche non si riprodurranno rapidamente a Lampedusa, dove le possibilità di un accordo simile con la Libia sembrano al momento minime.

E’ sicuramente la peggiore delle politiche, ad eccezione delle altre. Che poi sarebbero due. Quella invocata dal populismo di destra di una completa chiusura, che avrebbe come esito la fine di un ordine internazionale dal quale molte cose, incluso il benessere economico della popolazione europea, dipendono. E quella del populismo di sinistra che predica l’abolizione delle frontiere dimenticando di menzionare che questo richiederebbe la fine di ogni intervento redistributivo nonché, visto che essa andrebbe imposta a una popolazione assai recalcitrante, una sospensione della democrazia.

Guardata in prospettiva storica, la «crisi» dell’estate del 2015 (e quella presumibile dell’estate del 2016) non ha rappresentato un evento misterioso o inatteso. E’ stata l’epifania della difficoltà a cui si va incontro quando si cerca di proteggere un ordinamento liberale esterno dall’impopolarità, ricorrendo a pratiche di controllo migratorio che ne restringono fattualmente l’accesso. Rischiando continuamente di trasformare i diritti in mera retorica, o i meccanismi di controllo in mere finzioni. Non è affatto detto che tutti i problemi abbiano soluzioni.

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