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Pasticci e ingiustizie

Condivido appieno con Gustavo De Santis (Pensioni? Non facciamo pasticci, Neodemos 8 giugno 2016) la critica a quanti, per tutelare questa o quella categoria, propongono di anticipare l’età pensionabile, scaricando questo sui contributi versati dalle generazioni future. Infatti, nell’ultima parte del mio articolo Lo studio ti allunga la vita, pubblicato su Neodemos il 24 maggio 2016, scrivevo testualmente:

“Questi risultati dovrebbero consigliare di rettificare il sistema pensionistico. Infatti oggi la definizione dell’età all’uscita non tiene conto delle differenze per titolo di studio e per classe sociale, e per questo motivo – paradossalmente – i più poveri e i meno istruiti si trovano a pagare parte delle pensioni dei più ricchi e dei più istruiti.
Senza intaccare l’equilibrio del sistema, l’età all’uscita potrebbe essere modificata, abbassandola per le persone meno istruite e alzandola per quelle più istruite. Non è un’operazione semplice, ma credo sia una doverosa azione di equità, e i dati pubblicati dall’Istat la rendono effettivamente possibile.”

Quindi, la mia proposta non è solo quella di mandare in pensione prima le categorie con aspettativa di vita più breve, ma anche di mandare in pensione più tardi le categorie con aspettativa di vita più lunghe. Inoltre, se parte della super-mortalità delle classi sociali basse è da ascriversi a comportamenti soggettivi, è anche vero che parte di tali comportamenti “suicidi” sono solo apparentemente soggettivi. Ad esempio, la maggior obesità delle classi disagiate è dovuta, per così dire, a non-scelte, perché – al di là degli aspetti economici – molte persone non sono culturalmente attrezzate per modificare cattive abitudini consolidate.
Concordo invece con De Santis sulla difficoltà di implementare in pratica questo principio. Credo sia però opportuno tenerlo sempre presente, perché obiettivamente di ingiustizia si tratta. Le proposte di interventi sul sistema pensionistico italiano non dovrebbero metterne in discussione il principio generale, ossia l’equilibrio generazionale, che si concretizza nel rispetto rigoroso del sistema contributivo. Oggi si discute sulla possibilità di allentare il vincolo dell’età, permettendo l’uscita anticipata, ma bilanciando i minori versamenti e il più esteso periodo di quiescenza con decurtazioni nell’assegno pensionistico. Credo che queste modifiche al margine siano opportune e utili, perché rendono più flessibile un sistema che – nei suoi principi generali – per funzionare a regime non ha bisogno di vincoli di minima età pensionabile, oggi mantenuti solo perché siamo ancora in regime misto.
Tuttavia, fra le modifiche proposte sarebbe opportuno tener conto anche dell’iniquità di classe, perché non si può ignorare che oggi – di fatto – i più poveri pagano parte delle pensioni dei più ricchi. Si può iniziare da alcune categorie particolari. Ad esempio, oggi per le forze dell’ordine vige il ritiro obbligatorio a 60 anni, a prescindere dalle funzioni ricoperte, con esclusione dei dirigenti superiori. Per contro, gli addetti ad alcune mansioni faticose dell’edilizia debbono aspettare fino a oltre 65 anni. Sono ingiustizie – piccole in linea generale, ma grandi per chi vi si trova coinvolto – cui si dovrebbe porre rimedio.

 

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