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Non è solo una questione di maestro unico

Approvata la legge 169 del 30 ottobre 2008 sul riordinamento del sistema scolastico (la cosiddetta riforma Gelmini), si è entrati nella fase della definizioni dei regolamenti, che come sempre, in Italia, finiscono con l’assumere particolare importanza nel connotare il senso e la portata di una legge. Si tratta di definire i criteri di accorpamento dei plessi scolastici per ottimizzare le risorse e soprattutto di definire dove e per chi avverranno le riduzioni di orario sia nella scuola dell’infanzia che in quella elementare. La legge, infatti, da un lato consente l’organizzazione delle scuole dell’infanzia solo su base antimeridiana (una realtà che esiste attualmente solo nel mezzogiorno); dall’altro (art. 4) riporta l’orario preferibile/prevalente nelle scuole elementari alle 24 ore settimanali, pur tenendo conto della possibilità di allungarlo in base alle domande delle famiglie. Questa possibilità è tuttavia concretizzabile solo se nella scuola vi sono le risorse, ovvero la dotazione organica. Quindi le scuole che finora hanno offerto orari lunghi e tempo pieno con insegnanti di ruolo possono continuare a farlo. Le altre probabilmente no. In particolare, il ministro ha negato di voler ridurre il numero di classi a tempo pieno, sostenendo anzi di volerle aumentare destinando loro i risparmi ottenuti (gli insegnanti “liberati”) ma riportando il più possibile a 24 ore complessive gli altri modelli orari.

Effetti diversi al Nord e al Sud
Nelle settimane infocate che hanno preceduto  l’approvazione della legge, l’attenzione si è appuntata sui rischi di riduzione delle scuole (ma sarebbe meglio dire classi) a tempo pieno e sulle virtù – o, viceversa, i rischi pedagogici – dell’insegnante unico. Molto meno ci si è interrogati, a partire dalla ministra, sulle conseguenze di una drastica riduzione del tempo scuola, da una parte organizzative (per le famiglie e in particolare per le madri)[1] e, dall’altra, per lo sviluppo delle competenze cognitive dei bambini in condizione più svantaggiata. Ancor meno ci si è interrogati sul diverso impatto che tale riduzione avrà nelle varie regioni. Eppure il ministero aveva i  dati per valutare sia le prime che le seconde. Come si evince dal Grafico 1, tratto da un recente rapporto del Ministero[2], gli alunni che frequentano le scuole a tempo pieno sono collocati sproporzionatamente al Centro e al Nord. In particolare, in alcune grandi città del Nord-Ovest  – Milano, Torino – il tempo pieno riguarda pressoché la totalità degli alunni delle scuole elementari pubbliche. Nel Mezzogiorno sono invece una piccolissima minoranza. Si tratta proprio delle regioni in cui vi è una concentrazione di svantaggi sociali che sono in larga misura responsabili della più bassa perfomance media dei loro studenti rispetto a quelli di altre regioni, così come misurata dai dati PISA.[3] Proprio qui occorrerebbe investire maggiormente in termini di tempo-scuola di qualità, per compensare gli svantaggi di partenza degli studenti. Il rischio è che il tempo pieno venga salvaguardato nel Centro-Nord, ma venga invece ridotto  nel Mezzogiorno.
Si potrebbe obiettare che i dati sul diverso uso dei modelli orari configurano preferenze diverse dei genitori. Anche se fosse vero, emergerebbe nettamente una preferenza per modelli orari lunghi, superiori alle 27 ore settimanali. Inoltre si tratta di preferenze fortemente vincolate dall’offerta, che sistematicamente offre orari più corti nel Mezzogiorno (dove, unica zona in Italia, resistono ancora persino scuole dell’infanzia a tempo parziale). E’ vero che la più elevata offerta di tempo pieno nel Centro-Nord corrisponde ad una più elevata presenza di madri occupate. Ma, a parte la constatazione che il tempo scolastico nel Mezzogiorno aggrava le condizioni in cui le donne in queste regioni si offrono in un mercato del lavoro già difficile, il tempo scuola non è (non dovrebbe essere) solo uno strumento di conciliazione tra responsabilità familiari e lavorative per i genitori, le madri. E’ (dovrebbe essere) uno strumento per favorire sviluppo cognitivo, apprendimento e anche socializzazione alle regole del vivere associato.

A chi fa bene il tempo corto?
Per argomentare la preferibilità dell’orario corto (e del maestro unico) si fa riferimento a quanto sostenuto nel Piano programmatico nazionale, secondo cui il principio guida deve essere “la sostenibilità per gli studenti del carico orario e della dimensione quantitativa dei piani di studio, opportunamente riducendo l’eccessiva espansione degli insegnamenti e gli assetti orari dilatati, che si traducono in un impegno dispersivo e poco produttivo.” Si può ragionevolmente discutere sul contenuto dei curricula e ragionare sulla necessità di fornire basi solide senza disperdersi troppo. E quindi anche criticare eventuali giustificazioni di allungamenti di orari motivati esclusivamente dall’inserimento di qualche materia (o di qualche insegnante) in più. Anche se poi occorre mettersi d’accordo su che cosa sono le conoscenze di base che, in 10 anni di istruzione obbligatoria, è bene acquisire per poter fronteggiare il mondo in cui si vivrà e le informazioni che da esso giungeranno. Si può anche discutere sulla qualità che deve avere un tempo scuola lungo per essere davvero efficace e non provocare invece noia e disaffezione. Ma  un tempo lungo ben fatto consente di accompagnare l’apprendimento e coglierne le difficoltà dove ci sono, oltre a creare un ambiente protetto.
Restituire puramente e semplicemente i bambini alle famiglie (o alla strada) senza interrogarsi su quello che vi trovano in termini di attenzione, capacità di offrire stimoli adatti, oltre che sorveglianza e sicurezza, è un atto di pura irresponsabilità. Non dimentichiamo che molti genitori meridionali di ceto modesto, preoccupati sia per la preparazione al lavoro che per la sicurezza dei propri figli, in assenza di un tempo scolastico sufficientemente lungo (e stimolante), scelgono di mandare nel pomeriggio i propri figli a imparare un mestiere. Si innescano così meccanismi di disaffezione, oltre che di semplice stanchezza, che non favoriscono l’apprendimento. In altri casi, al Sud come al Nord, in assenza di un’offerta di tempo scuola adeguato per qualità e quantità, le famiglie si rivolgono alla scuola privata, per lo più confessionale, che da tempo si è attrezzata in questo senso. Anche qui, il modesto aumento che vi è stato in questi anni nel ricorso alla scuola privata, specie nelle elementari, è legato non tanto a preferenze culturali, quanto al “fare di necessità virtù”. Non si capisce tuttavia perché lo stato da una parte taglia il tempo lungo nelle sue scuole, ma dall’altra finanzia – senza tagli, dopo il richiamo all’ordine della CEI  –  una scuola privata, ancorché “paritaria”, le cui iscrizioni aumentano proprio perché vi viene offerto questo servizio, quello del tempo lungo.
La riduzione del tempo scuola colpisce soprattutto i bambini dei ceti più modesti, le cui famiglie sono meno in grado, per mancanza di tempo o di capacità personali, di offrir loro alternative. Tra questi, un caso particolare è costituito dai bambini migranti, per i quali la frequenza scolastica e il tempo scuola costituiscono l’ambito  principale di integrazione linguistica e sociale.
Il problema non è maestro unico sì o no, ma quanto è il tempo necessario, e opportuno, perché i bambini possano apprendere ed anche stare insieme, in situazioni ricche di stimoli e protette.


[1] Segnalo su questo due articoli usciti su lavoce.info, rispettivamente di A. Casavola e P. Profeta, Se la scuola non ha tempo per le mamme, e di D. Delboca e S. Pasqua, I tempi diversi di scuola e famiglia.
[2] Ministero della Pubblica Istruzione, La scuola in cifre 2007, Roma, 2008
[3] v. Bruno Losito, I risultati di PISA 2006: le differenze interne al sistema scolastico italiano, Neodemos,  05/12/2007; o anche  Bratti, M., Checchi, D., Filippin, A. (2007) Da dove vengono le competenze degli studenti? I divari territoriali nell’indagine OCSE/PISA 2003, Bologna: Il Mulino.

 

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