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Misurare il benessere: indici e giocattoli

Come si misura il benessere? In occasione di un recente Convegno¹, ho avuto modo di fare qualche riflessione in merito, alcune delle quali possono interessare i lettori di Neodemos. Statistici ed economisti hanno fatto un ottimo lavoro nel descrivere e sintetizzare il complesso funzionamento dell’economia. Da William Petty a François Quesnay, a Vassili Leontiev ed a Simon Kuznets, la descrizione dei sistemi economici si è arricchita di concetti e modelli teorici, di dati statistici e di schemi empirici, che a partire dalla metà del secolo scorso si sono, standardizzati, ufficializzati e diffusi in tutto il mondo. Ma in parallelo all’incoronazione dell’indicatore sintetico supremo – il PIL, con le relative conversioni in dollari, a prezzi correnti, a prezzi costanti o a parità di potere d’acquisto, spesso servito in salsa pro-capite – si sono moltiplicate le riserve e le critiche, nonché le proposte di nuove vie per descrivere non solo l’economia, ma anche il benessere. Il Better Life Index (BLI), elaborato dall’OECD è l’ultimo di questi tentativi.

Il denaro non è tutto!

Le critiche, del tutto legittime e fondate, non si rivolgono al PIL e ai complessi paradigmi che lo sostengono e generano (che pur posso essere migliorati), ma all’utilizzo che di questo si fa come indicatore di benessere, del livello di vita, se non della qualità della vita stessa. Concorrono a determinare l’ammontare del PIL attività sgradevoli o dannose, come la produzione e la vendita di armi, i proventi di azioni criminali, gli stipendi dei dipendenti disonesti che scansano il lavoro, le attività che producono il deterioramento ambientale che verrà pagato dalle generazioni future…La critica più citata è quella che fece Robert Kennedy in un discorso durante la tragica campagna presidenziale del 1968: “Il PIL non include la bellezza e la poesia o la forza dei nostri matrimoni, l’integrità dei pubblici ufficiali. Non misura la nostra arguzia e il nostro coraggio, non misura la nostra saggezza né la nostra compassione o devozione al nostro paese. In breve, misura tutto tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta”. Ben detto! Anche se con sovrabbondante retorica. Ma che il benessere, e tanto meno la felicità, non li dia il denaro lo avevano già detto, qualche migliaio d’anni prima, Budda, Confucio e Gesù e, con loro, la saggezza popolare.

Dalle critiche alle proposte

Se il denaro non misura la felicità, e se il PIL non misura il benessere, che fare? Negli ultimi decenni si sono moltiplicati i tentativi e le proposte: per censirli e descriverli tutti non basterebbe un ponderoso volume. Forse il più noto è l’Indice di Sviluppo Umano (HDI, Human Development Index), adottato ufficialmente dalle Nazioni Unite, nato da una intuizione del Nobel Amartya Sen, e calcolato e pubblicato annualmente per i vari paesi del Mondo dal 1990. Nella sua formulazione originale (in seguito raffinata), l’indice è la media (geometrica) di tre indicatori che sono anche robusti pilastri sui quali si fonda il capitale umano ed il benessere della società: il denaro, la salute e la conoscenza. Tre indicatori facilmente misurabili: il PIL pro-capite, appunto; la speranza di vita alla nascita; il numero medio di anni d’istruzione. Con i successivi raffinamenti, questo indice, calcolato da un quarto di secolo, adempie bene e con semplicità e modestia, la sua funzione di esprimere se non il benessere la solidità dei pilastri sui quali si fonda una società. Nella graduatoria del 2013, l’Italia si trovava al 26° posto, dietro Finlandia e Slovenia e precedendo Spagna e Repubblica Ceca.

Il gioco si complica

Per quanto significativo, l’indice dello sviluppo umano non coglie altri elementi importanti del benessere collettivo. Va solo ricordato che stiamo trattando di indici medi, che non tengono conto del grado di disuguaglianza nella distribuzione, all’interno della società, dei fenomeni che misura. Certo è che le persone apprezzano non solo il denaro, la salute o la conoscenza, ma anche la sicurezza, la qualità dell’ambiente, le condizioni abitative, l’efficienza dei servizi pubblici, la solidarietà familiare e sociale, e molte altre cose ancora, con scale di preferenza che variano da paese a paese, da cultura a cultura. E più si approfondisce, e più aumentano le dimensioni da valutare e misurare, poiché ciascuna di esse concorre a determinare una frazione sia pur piccola del benessere sociale. Ma come aggregare in un semplice e significativo indice la pluralità di eterogeni indicatori? E’ certo che anche gli indicatori del prodotto, come il PIL, sono una sintesi di centinaia, anzi di migliaia, di indicatori statistici: ma la sintesi può farsi perché esiste una metrica monetaria comune che lo permette. Non altrettanto può dirsi quando scendono in campo concetti astratti o difficilmente definibili, come la sicurezza, l’ambiente, la solidarietà. La questione si è ulteriormente complicata quando negli anni ’70, il Sovrano del Bhutan ha proposto di introdurre il concetto di “felicità”, ontologicamente indefinibile, come componente del benessere, che ha condotto (tra l’altro) alla costruzione di un indice della felicità globale (GNH, o Global National Happiness): l’Italia si classifica al 45° posto, tra Slovenia e Slovacchia, tra 150 paesi analizzati. GNH è una sintesi di 33 indicatori appartenenti a 5 domini, che spaziano dal reddito alla immaterialità degli stati d’animo delle persone. Nel 2008, con rullo di tamburi e sotto l’ala protettiva del Presidente Sarkozy, fu insediata una Commissione sotto la guida di Amartya Sen, Joseph Stiglitz e Jean-Paul Fitoussi, con finalità analoghe (andare “oltre il PIL”), portata poi avanti con ricco impiego di mezzi, dall’OCSE. E’ così nato (2011) il Better Life Index (BLI).

Better Life Index e “il gioco dell’Ocse”

Ben conoscendo le difficoltà degli esercizi di sintesi, l’OCSE ha proceduto con prudenza, individuando 11 domini (abitazione, reddito, lavoro, comunità, istruzione, ambiente, governo, salute, soddisfazione e felicità, sicurezza, equilibrio vita-lavoro) e da 1 a 3 indicatori per ciascuno di essi (in totale 24), alcuni di natura immateriale e desunti da indagini di opinione. Ciascun dominio da luogo ad un indice (da 0 a 10), mediando gli indicatori che lo compongono. Ma l’OCSE non “sintetizza” in un indice globale le 11 votazioni ottenute da ciascun indicatore, perché tale sintesi è lasciata ad ogni singolo utente che può, in un simpatico esercizio o gioco interattivo, assegnare il peso che vuole (massimo 0,5) a ciascun indicatore (ci sarà chi dà massimo peso ai soldi, chi alla salute, chi alla sicurezza…). Ma, suggerisce l’OCSE all’utente: “inizia dando peso uguale a tutti gli 11 domini (cioè fai la media semplice), e poi modifica a piacere…”. E dando peso uguale, l’Italia si posiziona verso metà classifica tra i 36 paesi dell’OCSE (che include però paesi relativamente poveri, come Turchia, Messico, Cile, Brasile). Poi, incita il sito, continua pure il “gioco dell’ocse”, variando i pesi secondo le tue preferenze individuali. E infatti, “scopo di questo indice è coinvolgere i cittadini nel dibattito e dare loro i mezzi per essere più informati e partecipi rispetto alle decisioni che influiscono sulla vita di tutti noi….”. Inoltre l’indagine “ci consentirà di capire in che misura l’importanza accordata al sistema sanitario è legata o meno alla qualità obiettiva di tale sistema nei vari Paesi. Grazie ai risultati di questo sondaggio, sarà più facile per l’OCSE fornire raccomandazioni ai decisori di ogni Paese sulle questioni alle quali dare priorità per assicurare una vita migliore ai propri cittadini.” Nella presentazione dell’indice, nel Convegno citato, il relatore si è spinto a dire che “Il Better Life Index alimenta e potenzia il benefico circolo virtuoso della Buona Politica: è, insieme, un efficace feedback sulle politiche attuali e un prezioso spunto per quelle future. Tale doppia dimensione aiuta i politici a identificare migliori politiche pubbliche, con lo scopo ultimo di migliorare la vita dei cittadini.” In quale modo le opinioni individuali (centinaia di migliaia o milioni) dei partecipanti al gioco possano aiutare i decisori politici rimane difficile da comprendere. Ma è davvero utile questo gioco? Molti degli indicatori sono fortemente correlati tra loro, ed alcuni si sovrappongono (spese per l’abitazione, stanze pro-capite, servizi dell’abitazione; reddito disponibile e ricchezza finanziaria ecc); altri derivano da indagini socio-psicologiche che dipendono dalle culture di appartenenza; altri ancora sono poco discriminanti tra paese e paese. Mancano, poi, indicatori che rivelano gli aspetti negativi della vita, e che possono trascinare verso una “worse life” e che non possono certo trascurarsi in una valutazione generale del benessere: il tasso di suicidio, l’incidenza della popolazione incarcerata, l’incidenza di patologie depressive, dei disordini alimentari, del consumo di droghe, dei fallimenti, delle insolvenze…

Utensili e giocattoli

Si può andare “oltre il PIL”? Sicuramente si può migliorare il PIL adattandolo ad una finalità aggiuntiva – oltre a quella di sintetizzare un risultato economico. Ma i tentativi di “andare oltre”, sintetizzando una pluralità di indicatori, rischiano di naufragare nell’irrilevanza, o sugli scogli delle difficoltà metodologiche (di misura e di sintesi) o filosofiche (che cosa sono il benessere e la felicità?). Non si possono sostituire gli indicatori sintetici allo studio di fenomeni complessi. Essi rischiano di tradursi nel gioco della costruzione di graduatorie tra paesi o popolazioni: graduatorie secondo il livello di corruzione, della libertà d’informazione, del funzionamento del mercato, della qualità delle università, della vivibilità urbana…e di altri innumerevoli aspetti del vivere sociale. Utili per i media, credenziali dei think thank per attrarre finanziamenti internazionali, o campo di esercitazione per statistici, econometrici, sociometri. D’altro canto, la volontà di andare “oltre il PIL”, produce risultati positivi, perché spinge alla costruzione di migliori e più numerosi indicatori di natura non economica (sociale, ambientale…), trascurati non poco negli ultimi decenni. L’Istat, con i suoi rapporti annuali sul BES (Benessere Equo e Sostenibile), sta facendo un lavoro meritorio. Purché non si azzardi nell’impresa, tanto faticosa quanto poco utile, di costruire un indice di sintesi dei 134 indicatori di base raccolti. Insomma, costruiamo utensili, non giocattoli.

¹Si tratta del Convegno “Reforms for Growth”, organizzato presso il Senato all’OCSE e dal Parlamento italiano, gli scorsi 25 e 26 Giugno. Il tema della prima sessione “New politics, new policies? OECD Better Life Index”, della quale era discussant un promotore di Neodemos, mi ha suggerito le riflessioni qui riportate.

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