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L’immigrazione di carta

Esistono in Italia due modelli di flussi migratori: quello in carne e ossa e quello di carta. Quello in carne e ossa tutti lo conoscono: è evidente per strada, negli autobus e nei treni, nei locali pubblici, nei cantieri, nelle cucine, nelle case. Immigrati muratori, addetti alle pulizia, braccianti, ambulanti, artigiani, commercianti, accompagnatrici di invalidi. La percezione – e le poche informazioni oggettive – ci dicono che il loro numero è ancora aumentato anche se a ritmo rallentato a causa dell’economia sofferente. Il secondo modello – quello cartaceo – è invisibile e tenta disperatamente di tenere la ruota del primo. Si basa su due strumenti previsti dalla legge vigente (art. 21 del T.U sull’immigrazione): il “documento programmatico” triennale, e il “decreto flussi”, annuale. Il primo è caduto in disuso, il secondo è, appunto, di carta, e i numeri che contiene non corrispondono a flussi reali.

 

Il decreto flussi annuale, ovvero la sanatoria continua

Al “documento programmatico” triennale sulla “politica dell’immigrazione”, emanato dal Governo, sentito il Parlamento, spetta il compito di dare un quadro generale, proiettato nel triennio, riguardante la domanda d’immigrazione, le compatibilità economiche e sociali, le misure d’integrazione. Il cosiddetto “decreto flussi” determina annualmente – in base al piano triennale – il numero di migranti per lavoro subordinato, autonomo o stagionale, ammissibile nel paese. Come accennato, le intenzioni della legge sono tradite dalla realtà, perché la maggior parte dei migranti non passa per le maglie strette della normativa (che presuppone l’individuazione all’estero, da parte del datore di lavoro, della persona da assumere) ma prende una scorciatoia informale. Per lo più il migrante arriva nel paese con un visto turistico, ci resta oltre la validità di questo, cerca e trova un lavoro al nero, attende un’opportunità di regolarizzazione per riemergere nella legalità. Il documento programmatico triennale è caduto in disuso (il Governo così attesta la sua inutilità); il decreto flussi annuale, invece di determinare il numero dei nuovi arrivi, serve a regolarizzare chi è già arrivato e si trova in condizione di irregolarità. Sana l’esistente, invece di proporre il nuovo.

 

Arriva il decreto flussi per il 2011

Autorevoli fonti preannunciano l’imminente emanazione del decreto relativo al 2011, che dovrebbe riguardare 80.000 lavoratori subordinati: 50.000 posti di “riserva geografica” (cioè per paesi che hanno sottoscritto con l’Italia accordi di cooperazione e riammissione di irregolari) e 30.000 riservati a colf e badanti. In teoria, si tratta della riapertura di un rubinetto rimasto chiuso nel 2009 e nel 2010 (mentre per il 2008 erano stati previsti 150.000 ingressi). “Ufficialmente” chiuso, perché le saracinesche erano state alzate con la sanatoria di fine 2009, che regolarizzò quasi 300.000 colf e badanti.

A margine di questo annunciato decreto, si possono fare due considerazioni. La prima è che nel 2009 e nel 2010, nonostante la chiusura ufficiale del rubinetto, e la gravissima crisi dell’economia e del mercato del lavoro, l’occupazione degli stranieri ha continuato a crescere (mentre quella degli italiani è sensibilmente diminuita). Secondo la rilevazione delle forze di lavoro dell’Istat, gli occupati stranieri (regolarmente residenti) nel secondo trimestre del 2010 risultano di 180.00 unità più numerosi rispetto allo stesso trimestre del 2009; un aumento identico a quello avvenuto nel corrispondente periodo 2008-2009. Certo, i flussi in entrata sono rallentati, i ritorni in patria sono accresciuti, ma il saldo continua ad essere largamente positivo, a dimostrazione che la migrazione è una componente importante e vitale della nostra società.

         La seconda considerazione riguarda la logica che traspare dall’esame dei decreti flussi per quanto riguarda quella quota d’ingressi non vincolata dagli accordi con una dozzina di paesi (la ricordata “riserva geografica”). Ebbene nel 2007, più della metà dei posti disponibili (122.000) venne riservata a colf e badanti; ma a queste o questi è stata riservata l’intera quota disponibile nel 2008 e nel 2011(105.000 e 50.000 rispettivamente). Negli anni precedenti al 2007, quote significative vennero riservati a lavoratori autonomi, persone con alte qualificazioni nell’area tecnologica, infermieri, addetti all’edilizia e alla pesca marittima. Così, l’esame del modello “cartaceo” d’immigrazione,  ci rivela che l’Italia punta oramai esclusivamente,  per il proprio sviluppo, su di un’immigrazione di baby sitter, di lavoratrici domestiche, di assistenti ad anziani disabili. Alla faccia della società della conoscenza!

 

La “riserva geografica”: tra diplomazia e controllo

In Italia, l’art. 21 del Testo Unico sull’Immigrazione, come modificato dalla legge Bossi-Fini, specifica, con riferimento ai decreti flussi: “Nello stabilire le quote, i decreti prevedono restrizioni numeriche all’ingresso di lavoratori di Stati che non collaborano adeguatamente nel contrasto all’immigrazione clandestina o nella riammissione di propri cittadini destinatari di provvedimenti di rimpatrio. Con tali decreti sono altresì assegnate in via preferenziale quote riservate ai lavoratori di origine italiana per parte di almeno uno dei genitori fino al terzo grado in linea retta di ascendenza, residenti in Paesi non comunitari, che chiedano di essere inseriti in un apposito elenco, costituito presso le rappresentanze diplomatiche o consolari, contenente le qualifiche professionali dei lavoratori stessi, nonché agli Stati non appartenenti all’Unione europea, con i quali il Ministro degli affari esteri, di concerto con il Ministro dell’interno e il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, abbia concluso accordi finalizzati alla regolamentazione dei flussi d’ingresso e delle procedure di riammissione”. Le legge introduce due principi di selezione dei migranti: essere cittadino di uno Stato che abbia accordi per il controllo dell’emigrazione e accolga gli irregolari espulsi, o avere almeno un ascendente (un genitore, un nonno e persino un bisnonno) di nazionalità italiana. C’è anche la selezione negativa, e cioè la restrizione agli ingressi dei cittadini di Stati che non hanno concluso alcun accordo.

 

Quali criteri per assegnare le quote riservate?

Nel tempo, la quota di riserva geografica è aumentata: nel 2000 era pari a 12.000 ingressi, riservati ad Albania, Tunisia e Marocco; poi sia il numero di paesi, sia la quota sono cresciuti: 29.000 nel 2004,  39.000 nel 2006, 47.000 nel 2007 e nel 2008 e -dopo la chiusura del 2009 e del 2010 – 50.000 nel 2011. Nel 2008, gli ingressi vennero riservati a 14 paesi, dal massimo di 8.000 per l’Egitto al minimo di 100 per la Somalia, una distribuzione invariata rispetto al 2007.

La logica delle attribuzione di posti è di carattere politico-diplomatico-amministrativo, perché altre logiche non sembrano esserci. Per esempio: 4.000 posti sono stati riservati (2008) a cittadini Tunisini, poco meno dei 4.500 posti destinati ai cittadini del Marocco: ma il secondo ha una comunità – in Italia – quattro volte più numerosa di quella tunisina e una popolazione – in Marocco – tre volte più numerosa. Non sono quindi le “dimensioni” umane a dettare l’assegnazione dei posti. Altro esempio: 5.000 posti sono destinati ai Filippini e 8.000 agli Egiziani, la cui comunità, in Italia, è assai meno numerosa di quella Filippina. O ancora: come mai nel 2008 – anno di crisi e di sconvolgimento dei mercati del lavoro – sia il numero, sia la distribuzione tra paesi, dei posti riservati è rimasta identica a quella del precedente anno?  In una revisione generale delle politiche migratorie, che è sempre più urgente, dovrà affrontarsi anche il tema delle quote privilegiate, sia per quanto riguarda i criteri di assegnazione, sia per rendere questi coerenti con le necessità del Paese.

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