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Dove più si studia si fanno più figli? Un’analisi della fecondità delle regioni italiane

Rispetto al resto dell’Europa, l’Italia si caratterizza per alcune anomalie, o “ritardi”. Ad esempio la bassa fecondità e la bassa partecipazione delle donne al mondo del lavoro] (v. De Santis “Vi presento la mia famiglia …”). Ma bassa è anche la percentuale di donne con istruzione universitaria: contro una media europea che è di circa il 25%, quella italiana è ferma al 16% (Eurostat), pur se tra le giovani generazioni si assiste a un forte recupero. E l’istruzione, insieme all’occupazione femminile, è un’importante variabile esplicativa della fecondità – ma non nel senso “tradizionale” che molti, forse, ancora si immaginano.

Un quadro europeo: il livello macro-regionale
Guardiamo intanto ai dati, che provengono dal database Eurostat (http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/statistics/search_database). Come livello territoriale si sono scelti non i 27 paesi (EU-27), ma le 97 macroregioni, universalmente indicate come NUTS-1. “NUTS” sta per Nomenclatura delle Unità Territoriali, e “1” indica il livello: esistono anche i livelli 2 (regioni) e 3 (province), ma qui ci riferiremo al livello 1 che, ovviamente, varia un po’ da paese a paese; in Italia corrisponde alle cinque circoscrizioni: Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud e Isole.
In Europa, negli ultimi 10 anni, la fecondità è aumentata gradualmente, passando da 1,4 (figli per donna, o TFT – Tasso di Fecondità Totale) nel 1998 a 1,6 nel 2008. La figura 1.1 mostra il tasso di fecondità totale per l’insieme dei paesi europei nel 2008 e, per ogni paese, si evidenziano il valore più alto e quello più basso rappresentati dalle macroregioni europee. L’Italia, come ben noto, è sotto la media, e lo è in particolare nel Sud e nelle Isole dove il TFT arriva appena a 1,35. Un poco meglio vanno le altre circoscrizioni, e in particolare il Nord Est, con poco più di 1,45 figli per donna.

Ma è possibile “spiegare” queste differenze di fecondità tra macroregioni? Il database Eurostat mette a disposizione alcune possibili variabili esplicative, tra cui in particolare, l’istruzione universitaria femminile, il lavoro femminile, il reddito pro-capite e i servizi di child-care (cioè, la quota di bambini in età 0-3 anni che frequenta un nido – v. fig. 2)[1].

Certo, si potrebbe sperare di avere a disposizione dati più numerosi e migliori: ad esempio, gli orari di lavoro e di apertura dei nidi, la flessibilità, il costo dei servizi di custodia dei bambini. E poi, allargando il quadro, la religione, la distribuzione delle donne per stato civile, gli aiuti pubblici alle famiglie con figli, ecc.
Limitandoci, comunque, con un approccio esplorativo, alle poche variabili esplicative sopra indicate, si ottengono i risultati della tabella 1.

Tab. 1. Le variabili che influenzano la fecondità (*)

Coeff. Errore std. t
(Costante) 1,146 0,080 14,238
Istruzione 0,015 0,003 4,840
Child care 0,005 0,003 2,089

(*) Risultati del modello di regressione sulle (poche) variabili ecologiche (a livello delle 97 macroregioni europee) disponibili nel database Eurostat.
 
 
Istruzione superiore, child care e TFT
In breve, nel modello finale, tra le quattro variabili inserite, solo due risultano significative per “spiegare” il TFT. Queste sono: la percentuale di donne (di età 25-64) con istruzione superiore e la percentuale di bambini che frequenta i servizi all’infanzia per più di trenta ore la settimana.
Come si vede, i coefficienti di regressione sono positivi e significativi. Pur con tutte le riserve delle regressioni ecologiche (fatte cioè su aree territoriali e non su individui) e, in questo caso particolare, della grossolanità e insufficienza degli indicatori (ad esempio la percentuale di bambini che frequenta i servizi all’infanzia non è solo causa ma anche effetto della fecondità), quel che sembra emergere sono due indicazioni. La prima è che avere servizi all’infanzia è di stimolo alla maternità: la fecondità è più bassa dove i servizi sono più scarsi. La seconda è che il segno della relazione tra istruzione e fecondità è ormai positivo[2]: la fecondità è più alta dove ci sono più donne laureate. Negli ultimi 200 anni circa la relazione è stata di segno opposto (fecondità più bassa per i paesi con donne più istruite), ma sembra ormai essersi imposto uno schema diverso, legato al nuovo ruolo della donna nella società.
Solo le società che riconoscono e favoriscono il pieno inserimento della donna nel ciclo produttivo, e le consentono di conciliare questo con la possibilità di avere figli, riescono a sostenere il loro livello di fecondità. Nelle altre, se messe alle strette, le donne scelgono di non avere figli, o di averne solo uno, pur di non rinunciare a un loro ruolo, che ormai non è più legato solo alla sfera domestica, ma anche a quella pubblica del loro paese.


[1] Purtroppo, però, questa variabile non è disponibile a livello disaggregato subnazionale: ci si è quindi rassegnati a usare il valore nazionale, “attribuendo” questo a ciascuna macroregione.

[2] La relazione è ormai positiva anche tra lavoro femminile e fecondità (v. ad esempio Camolese “Maternità e Lavoro femminile, una scelta possibile?” ). Solo che, nel nostro caso, la stretta correlazione tra lavoro e istruzione femminile fa sì che solo una di queste due variabili possa essere significativamente inserita in una regressione

Per saperne di più
Eurostat, General and Regional statistics,http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/statistics/search_database
Ø. Kravdal, R. Rindfuss 2008, Changing relationships between education and fertility- a study of women and men born 1940-64, American Sociological Review, 73, 5, 854-873.

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