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Cina: il figlio unico, da obbligo a scelta

Sono passati più di trent’anni da quando Hua Guofeng, durante l’Assemblea Nazionale del Popolo del 1979, affermò che una forte frenata della crescita demografica era una delle essenziali condizioni per la riuscita delle “quattro modernizzazioni”. Alle dichiarazioni, seguirono prontamente i fatti: nel 1980 venne introdotta la nuova “Politica del Figlio Unico” (PFU nel seguito dell’articolo) che, con qualche aggiustamento, è tuttora la politica ufficiale del paese1. Tre sono le componenti della politica: la prima è costituita da limiti espliciti formali al numero di figli che una donna può mettere al mondo: uno nelle aree urbane e più sviluppate; due nelle campagne, se il primo figlio è una bambina; situazioni più articolate per le minoranze etniche e le aree di confine. La seconda caratteristica è costituita dal pesante gioco dei premi e delle penalità per le coppie in termini di assegnazione, o diniego, di benefici salariali e sociali, a seconda che queste si conformino, o no, alle regole imposte. La terza componente riguarda i meccanismi di attuazione della PFU, basata su indicazioni programmatiche che, dal centro, si trasformano in precisi obbiettivi numerici a livello di provincia, prefettura, contea e villaggio.
 
I successi della politica…
La PFU ha avuto successo, a giudicare dai fatti. Il Governo asserisce che, senza di essa, la popolazione cinese sarebbe oggi di almeno 400 milioni superiore a quella effettiva (1.354 milioni nel 2010); che gli straordinari successi economici non si sarebbero verificati; che gli inconvenienti generati dal rapido invecchiamento potranno essere contrastati dalle maggiori risorse accumulate dallo sviluppo che la PFU ha consentito. Secondo le previsioni, la popolazione dovrebbe raggiungere il suo massimo tra il 2025 e il 2030 per poi declinare successivamente, e già nel 2025 la Cina dovrebbe cedere all’India il primato della nazione più popolosa al mondo. Con la PFU, la natalità del paese è rapidamente scesa, da 3,3 figli per donna (nel 1979) a 1,5 nel 2005, secondo le stime più accreditate. Questo valore coincide con quello “teorico” medio (1,47) che si avrebbe qualora la popolazione di ciascuna delle 29 province e delle aree metropolitane si conformasse esattamente ai limiti assegnati.
Il Governo ha più volte ribadito l’intenzione di non apportare cambiamenti alla politica, confermando gli obbiettivi (raggiunti), per il 2010, di una popolazione non superiore a 1,4 miliardi e di una natalità inferiore al 15 per mille. C’è la convinzione che i successi numerici ottenuti siano merito esclusivo, o quasi, della PFU, e c’è il timore che un rilassamento della politica possa determinare un balzo in alto della natalità, alimentando una ripresa della crescita demografica. Bisogna aggiungere anche che in trent’anni si è formato un pesante apparato politico-burocratico preposto a tutti i livelli all’attuazione della PFU, che resiste gagliardamente ad ogni proposta innovativa, e soprattutto a quelle che ridurrebbero il suo potere. Infine – non senza qualche ragione – il Governo sostiene che la PFU ha incorporato un meccanismo che ne depotenzia automaticamente gli effetti: essa infatti prevede che due congiunti – nel caso che ciascuno sia figlio unico – possano avere due figli. Una proporzione significativa e crescente di giovani in età di sposarsi sono figli unici, preché nati negli anni ’80 da genitori già vincolati dalle regole della PFU, e sono quindi oggi più liberi, in materia procreativa, di quanto non fossero, 25-30 anni fa, i loro genitori.
 
…e le ragioni per abolirla
Perché mai la Cina, un paese in piena modernizzazione, dovrebbe tenere in piedi una rigida politica coercitiva delle scelte riproduttive, ovunque ritenute una irrinunciabile prerogativa individuale? Una politica che ha, tra l’altro, motivato le coppie con forti preferenze per un figlio maschio a sopprimere le gravidanze che avrebbero dato alla luce una bambina? Una politica che mantenendo la natalità ad un bassissimo livello ha fortemente squilibrato le dimensioni numeriche delle generazioni, e avviato un rapidissimo processo di invecchiamento?
La figura 1, tratta da un lavoro di Maria Giovanna Merli e Philip Morgan, serve per inquadrare il problema2. Essa mostra, nei paesi del Sud-Est asiatico (Cina, Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Tailandia), la relazione tra numero medio di figli per donna (TFR nel grafico) e l’indice di sviluppo umano (HDI) – che come è noto è la sintesi di tre indicatori di reddito, istruzione e speranza di vita – di cinque in cinque anni dal 1960 al 2005.. Questi cinque paesi hanno in comune una fecondità alta alla partenza (TFR >5) ma bassa oggi, ben sotto il livello di sostituzione (TFR<2); la discesa è ovunque in sintonia con il rafforzamento dell’indice di sviluppo umano (HDI). La particolarità della Cina è che la discesa della fecondità è iniziata a livelli molto più bassi di HDI (attorno a 0,3) rispetto agli altri paesi asiatici (HDI di 0.4-0,6). A cosa si deve la “particolarità” della Cina? Alla PFU sicuramente e forse esclusivamente dice (implicitamente) il Governo.
 
 La PFU è stata determinante nella fase iniziale, oppongono coloro che vorrebbero abolirla, ma oramai la Cina ha raggiunto un livello di sviluppo (HDI>0,7) assai vicino a quello degli altri paesi asiatici che hanno conseguito una fecondità inferiore al livello di rimpiazzo senza bisogno di politiche coercitive.
 
Qualche prova empirica
Le coppie cinesi hanno, oramai, meno di due figli a testa fin dall’inizio degli anni ’90; lo sviluppo dell’ultimo trentennio ha sicuramente innalzato i livelli di vita, ma ha anche trasformato radicalmente la società. Lo smantellamento della gestione collettiva dell’agricoltura, il venir meno della garanzia statale per il lavoro dipendente e l’abbattimento delle provvidenze del welfare hanno trasferito una proporzione crescente dell’onere di allevamento dei figli sulle spalle delle famiglie. I comportamenti imposti dalla politica si trovano sempre più in sintonia con quelli imposti dalle circostanze. L’attenuazione o l’abolizione della PFU avrebbe solo effetti marginali sulla natalità e non ne determinerebbe una ripresa significativa.
Questa opinione è corroborata da alcune indagini empiriche. Shanghai – la città più popolosa della Cina, con 19 milioni di abitanti, e centro nevralgico dello sviluppo – aveva nel 2008 un TFT pari a 0,88. I regolari residenti di Shanghai non possono avere più di un figlio; gli immigrati da lontane aree rurali, che rappresentano un quarto della popolazione, possono averne due, con una media “teorica” per la metropoli di 1,25. Ad un campione rappresentativo di donne in età feconda con un figlio (o figlia) è stato chiesto se ne avrebbero voluto un secondo, o una seconda, nel caso di abolizione del limite imposto dalla PFU: solo il 20% ha risposto affermativamente. I due terzi delle donne immigrate che, provenendo dalle campagne, avrebbero avuto diritto ad una seconda nascita, hanno detto di non volerla avere. L’abolizione della PFU avrebbe – secondo i ricercatori – effetti del tutto marginali3. Ad analoghe conclusioni è pervenuta un’altra indagine4 in sei contee della provincia di Jiangsu (alla quale appartiene Shanghai). Tra le donne in età feconda che avrebbero potuto avere due figli, e che ne avevano già uno, una netta maggioranza non avrebbe voluto averne un secondo. Anche tra la minoranza di queste (44%) che consideravano “ideale” avere due figli, il 51% non desiderava avere un secondo figlio; il 7% invece lo desiderava, e un 42% era incerto.
Due conclusioni. L’attuale bassa fecondità appare ben interiorizzata, almeno delle aree più sviluppate, e l’abolizione della PFU avrebbe effetti modesti in termini di ripresa della natalità. E’ presumibile che effetti analoghi si avrebbero anche in aree rurali, dove è possibile avere un secondo figlio, ma nelle quali una proporzione considerevole di coppie rimane con uno. Questo suggeriscono gli esperti, ma i politici esitano: la PFU è stata, anche, un’affermazione del loro potere.
 
Note
 
Questo articolo si basa sulle comunicazioni e sulle discussioni di due sessioni (nn. 37 e 74) della Conferenza della Population Association of America svoltasi a Dallas dal 15 al 17 aprile 2010 (cui l’autore ha partecipato) e che trattavano delle politiche demografiche della Cina.
 
1 – Massimo Livi Bacci, La popolazione della Cina: da spinta a freno dello sviluppo, “Neodemos”, 3 ottobre 2007.
2 – M. Giovanna Merli e S. Philip Morgan, Below Replacement Fertility in Shanghai, PAA Conference, Dallas, Texas, 2010.
3 – Ibidem, pp. 18-20.
4 – Yong Cai, Wang Feng, Zheng Zhenzhen, Gu Boachang, Fertility Intention and Fertility Behavior: Why Stop at One?, PAA Conference, Dallas, 2010.

 

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